Interventi

Senza metterci la faccia: Elena Ferrante opinionista internazionale

Poche settimane fa – il 19 gennaio – sulla pagina di cultura di «Repubblica» Raffaella de Santis annuncia che Elena Ferrante è diventata opinionista (columnist) su «The Guardian». Il commento è interessante: «Non c’è dubbio, Elena Ferrante è ormai il marchio letterario più riconosciuto del made in Italy all’estero, mentre a casa nostra fa storcere il naso alla critica accademica e non conquista premi. Lei ricambia snobbandoci e affidando ad altri le sue parole infiammate». Interessante, oltre che per il consueto cliché aziendalista, per l’immagine – ironica, d’accordo – del «cervello in fuga», conseguenza – e questo non parrebbe ironico – di una critica accademica ostile e malevola. La Ferrante, cioè non si sa chi, diventa la vittima di un malaffare accademico che costringe all’esilio una risorsa per il paese. A seguire il filo del ragionamento ci si domanda: ma di che cosa si sta parlando? È proprio necessario che la leggerezza coincida con il luogo comune più trito? Per di più disinformazione – e qualunquismo, che ne è l’altra faccia – sono totali. Il 7 aprile 2017 proprio Elena Ferrante è stata al centro di un convegno internazionale alla Federico II di Napoli: “di Napoli non ci si libera facilmente”. Per Elena Ferrante. Con tutti i crismi dell’ufficialità accade­mi­ca. Una monumentalizzazione che non tocca a molti e su cui varrebbe la pena di interrogarsi.

Certo, la Ferrante non vince premi, ma proprio il non vincerli incrementa le sue vendite. È una notizia recente che e/o non commercializza più i romanzi della Ferrante attraverso Amazon, perché pratica sconti troppo alti. Probabilmente Einaudi non potrebbe fare la stessa cosa per Nicola Lagioia, vincitore del premio Strega. Intorno alla maschera di Elena Ferrante si muovono strategie di marketing di straordinaria efficacia. L’esportazione del personaggio e dei suoi Neapolitan Novels negli Stati Uniti e in Inghilterra è la più geniale e fortunata impresa dell’editoria italiana: non a caso in inglese la pubblica la stessa casa editrice« e/o» come «Europa editions». A differenza di altri editori che perlopiù si lamentano del calo dei lettori in Italia, «e/o» ha scoperto come si sta in un mercato globale con un prodotto globale. Di per sé è tutt’altro che negativo.

L’amica geniale è un ciclo di romanzi progettato a tavolino, lavorando intorno a concetti e immagini globali che aggiornano stereotipi cari al mercato anglo–americano. Il titolo inglese – The Neapolitan Novels – non è un tradimento, rende finalmente esplicito il sistema di luoghi comuni su cui è stata costruita la serie: un’abile soap opera che trasferisce sul romanzo il modello oliato delle serie televisive. Molti personaggi, che sembrano esaurire l’intero mondo e che si intrecciano in complicati giri, sesso (ma non pornografia), sentimenti patetici ma alla portata di tutti (stile «Harmony»), un po’ di potere e uno sfondo storico–politico (giusto per l’illusione di realtà: è richiesto).

Il passaggio di Elena Ferrante da romanziera a opinionista non è affatto una sorpresa. E in fondo non cambia in nulla la strategia di marketing: le opinioni e i sentimenti sono fondamentalmente quelli del lettore medio (o quelli che il lettore medio vorrebbe avere). Senza mai nessuna forzatura o provocazione. Poco prima di avviare la collaborazione con «The Guardian», Elena Ferrante ha rilasciato una lunga intervista al settimanale francese «L’Obs» (Elena Ferrante parle enfin!, 18 gennaio), in cui attacca Weinstein, com’era prevedibile – malgrado non possa dichiarare di averne subito gli approcci: un elemento di realtà che avrebbe fatto crollare l’intero castello.

Il modo in cui affronta la questione è uno stereotipo, un tic. Secondo la Ferrante non ci sono «de grandes différences entre les femmes du quartier napolitain dont j’ai parlé et les actrices de Hollywood ou les femmes cultivées et raffinées qui travaillent aux échelons les plus élevés de notre système socio-économique» (delle grandi differenze fra le donne del quartiere napoletano di cui ho parlato e le attrici di Hollywood o le donne colte e raffinate che lavorano ai livelli più alti del nostro sistema socio-economico). Ovvero: realtà e finzione sono categorie equivalenti. E quindi aggiunge: «l’affaire Weinstein a mis en lumière ce que les femmes ont toujours su et toujours plus ou moins tu. En dépit des apparences, même en Occident la domination patriarcale est toujours fortement ancrée […]. Hausser le ton, dire “me too”, me semble une bonne chose, mais seulement si nous gardons le sens de la mesure: les excès nuisent aux causes justes» (Il caso Weinstein ha messo in luce ciò che le donne hanno sempre saputo e più o meno sempre taciuto. Alzare il tono, dire ‘Me too’ mi sembra una buona cosa, ma soltanto se conserviamo il senso della misura: gli eccessi nuocciono alle cause giuste).

Un capolavoro di moderazione («il senso della misura»), buon senso e ovvietà. Ovvero il massimo dell’ambiguità accettabile, secondo una procedura consueta della Ferrante: “È così, ma…”. Che sembra un modo per mettere in risalto la sensibilità e la raffinatezza dell’analisi, mentre in realtà serve a far coesistere nel discorso opinioni opposte: in questo caso la giustezza della protesta delle donne e insieme il punto di vista più conservatore, implicitamente maschile, del “si è sempre saputo”. Seguito dal giudizio morale – equivoco – «le donne hanno sempre saputo e più o meno sempre taciuto», che diventa lecito solo perché una donna (la Ferrante) lo sostiene. Se ci riflettiamo un attimo, la cosa provoca qualche sconcerto: si assume un’opinione diffusa, e non solo maschile, che senza essere discussa diviene una verità accettata. A parte il conformismo strisciante, a cui si ammicca: ma siamo poi sicuri che l’altra ovvietà, ovvero che la differenza di classe non faccia la differenza, sia così ovvia? Che lo sia nell’opinione comune è un’altra cosa, se si fa davvero gli opinionisti e non i ventriloqui.

La costruzione del discorso funziona sempre così nella Ferrante. Con metodo. Genericità e luoghi comuni (ovvero il degrado del senso comune), mancanza di riferimenti constatabili – sempre pericolosi – sono i tratti inconfondibili, nei romanzi, nelle interviste; anche su «The Guardian». Il titolo del pezzo uscito il 20 gennaio – I loved that boy to the point where I felt close to fainting (Ho amato quel ragazzo al punto di sentirmi svenire) –, anche se un po’ ad effetto melo, lascia immaginare una memoria commovente dell’adolescenza. In realtà tutto il pezzo pare costruito per negare consistenza al ricordo, che è intenzionalmente sfocato, frutto di uno «state of confusion»: «the more I worked on it, the more I focused on deficiencies: vague memory, sentimental uncertainties, anxieties, dissatisfaction» (più ci lavoravo e più mi fissavo sui vuoti: ricordi vaghi, incertezze sentimentali, ansia, insoddisfazione). La Ferrante non sa nemmeno se i ricordi riguardino una sola persona: tutto è vago e impreciso. Anche nel punto di maggiore accuratezza: «Precisely because of this innate contradiction, my project began to sink right away and shipwrecked conclusively when I tried to describe my first love truthfully. I made an effort to search my memory for details and I found few. He was very tall, very thin, and seemed handsome to me. He was 17, I 15. We saw each other every day at six in the afternoon. We went to a deserted alley behind the bus station. He spoke to me, but not much; kissed me, but not much; caressed me, but not much. What primarily interested him was that I should caress him. One evening – was it evening? – I kissed him as I would have liked him to kiss me. I did it with such an eager, shameless intensity that afterwards I decided not to see him again. But already I don’t know if that really happened then, or in the course of other brief loves that followed. Certainly I loved that boy to the point where, seeing him, I lost every perception of the world, and felt close to fainting, not out of weakness but out of an excess of energy» (Proprio per questa innata contraddizione, il mio progetto cominciò immediatamente ad affondare e alla fine naufragò quando mi provai a descrivere il mio primo amore in modo veritiero. Lui era molto alto, molto magro, e per me era bello. Aveva 17 anni, io 15. Ci vedevamo ogni giorno alle sei di pomeriggio. Andavamo in un viale deserto dietro la stazione degli autobus. Mi parlava, ma non troppo; mi baciava, ma non troppo; mi accarezzava, ma non troppo. Che cosa lo interessava più di tutto era che io lo accarezzassi. Una sera – ma era una sera? – lo baciai come avrei voluto che lui mi baciasse. Lo feci con un’intensità così impaziente e senza vergogna, che dopo decisi di non rivederlo più. Ma già non so se questo sia realmente accaduto allora, o nel corso di altri brevi amori che seguirono. Certamente ho amato quel ragazzo al punto che, vedendolo, perdevo ogni cognizione del mondo e mi sentivo sul punto di svenire, non per debolezza ma per un eccesso di energia).

Tutto viene detto e insieme contraddetto: «Lo feci con un’intensità così impaziente e senza vergogna, che dopo decisi di non rivederlo più». Con grande pathos, nel dire come nel contraddire. Ma quel «così… che…» non indica una conseguenza, è un espediente per legare due cose che non stanno insieme: puro gioco verbale. E visto che tanto pathos potrebbe lievitare all’infinito, ma deve stare in x battute: «I expected and wanted more, and was surprised that he, on the other hand, after wanting me so much, found me superfluous and ran away because he had other things to do» (Mi aspettavo e volevo di più, e fui sorpresa che lui invece, dopo avermi tanto voluto, mi trovasse superflua e fuggisse perché aveva altro da fare). Per chiudere il romanzo bisogna far morire o (in modo più vago) sparire il personaggio, che non ha di meglio, ma qualcos’altro da fare… Del genere: vado a comprare le sigarette. In questo caso però chi ha abbandonato chi? Tutte e due soluzioni sono offerte al lettore. Che cosa può significare verità («truthfully») in un contesto del genere? In modo trasparente per la maschera Ferrante rappresenta una soglia invalicabile.

Involontariamente comica – se eliminiamo il pathos – la scena rispecchia perfettamente la situazione di vuoto, o meglio di pura finzione che si dispiega in un vuoto pneumatico di realtà. È il difetto di realtà che come sempre muove la scrittura: «I made an effort to search my memory for details and I found few» (Ho fatto uno sforzo per cercare dettagli nella mia memoria, ma ne ho trovati pochi). Parlando delle cose, la maschera Ferrante parla sempre di se stessa, tautologicamente, in quanto side effect – un autore ci vuole – di un processo di scrittura che non può che parlare di sé, privo com’è di qualunque referenzialità e per statuto non attendibile: una prigione a cui la maschera obbliga. E dunque le banalità: lui 17 anni, lei 15, topico. Come potrebbe essere diversamente?

Lo svenimento non introduce un eccesso di realtà: resta la descrizione di un’esperienza vuota, che alimenta un discorso in cui ogni dato referenziale è abolito: persino quello di chi ha fatto l’esperienza. Che per scelta è una maschera priva di responsabilità: recita la parte scritta da altri. Potrebbe essere accaduto come no, secondo la strategia collaudata di sfumare i contorni troppo netti, includendo tutte le ipotesi e permettendo a chi scrive di restare un passo indietro rispetto alla scrittura e alla finzione dell’autore–maschera che scrive, senza mai esporsi.

Sembra una deficiency, ma è una furbizia: produce una vaghezza e una assenza sistematica di prese di posizione, o meglio una compresenza di posizioni diverse in cui è impossibile per il lettore non riconoscere qualcosa di sé. Quella che sembra una morbida scrittura della nuance è una scrittura che gira in automatico entro un repertorio dato e girando in automatico produce discorso. Esportata in inglese la strategia della Ferrante mostra la sua vera natura. Senza sfondi sociali (Napoli) e senza labili riferimenti politici, diventa un prontuario maneggevole e ubiquo di luoghi comuni, per la cui riuscita la sottrazione di realtà è appunto irrinunciabile.

Finché la Ferrante racconta patetiche storie adolescenziali e se la gioca coi sentimenti va pure bene e non ci sono problemi: si resta invischiati nella trappola del feuilleton ben architettato a cui i romanzi hanno fidelizzato il lettore. Va pure bene se attacca Weinstein: è un’operazioni del più bieco conformismo, che non infastidisce nessuno. È quasi un segno di bon ton. Confondere il genio con il marketing dell’ovvietà è forse un po’ troppo e comporta qualche pericolo. Il punto è infatti un altro: se il conformismo della Ferrante si rivolge su argomenti di una certa sensibilità politica e sociale? E che cosa si intende per conformismo? In un momento forcaiolo come il presente la nozione stessa di conformismo propone qualche rischio. È accettabile che l’opinionista di un giornale o di un settimanale sia una maschera dietro cui non sappiamo chi sia il vero ghost writer? Significa esprimere opinioni, anche delicate, senza metterci letteralmente la faccia. Non è molto diverso dall’entità collettiva di Anonymous, salvo che in quel frangente sappiamo in linea di massima chi usa la maschera, o perlomeno le sue posizioni ideologiche e sociali . Nel caso di Elena Ferrante proprio no e la pratica del “luogocomunismo” rappresenta una trappola molto più seducente, visto l’operazione anestetica che si compie nella melassa della lingua. Dentro ci può passare di tutto, senza appunto nessuna responsabilità: immaginare Elena Ferrante come Anonymous è leggermente inquietante. Più di Anonymous.

intervista in formato pdf

02/12/2018

L'autore

Stefano Giovannuzzi
Stefano Giovannuzzi
Insegna letteratura italiana moderna e contemporanea presso l'Università degli Studi di Perugia.