Piero Boitani è professore Ordinario di Letterature Comparate all’Università “La Sapienza” di Roma, ha insegnato Lingua e Letteratura Italiana all’Università di Cambridge, dove ha conseguito il PhD. Attualmente è docente di Letterature comparate all’Università Svizzera Italiana di Lugano (USI). È un famoso dantista, medievista, anglista, studioso della Bibbia e delle sue ri-scritture e del mito; ha anche lavorato come traduttore. Nella sua lunga carriera ha conseguito molti riconoscimenti e premi, tra cui il Premio Feltrinelli dell’Accademia dei Lincei per la Critica Letteraria (2002) e il Premio De Sanctis (2010).
Lei ha scritto un bellissimo libro su Ulisse e la sua “ombra”. In che modo le tre tradizioni che compongono la sua figura archetipica (imbroglione, modello dell’eroe classico e figura christi) si estendono all’uomo (e all’eroe) moderno?
Forse nessuna delle tre si estende propriamente all’eroe moderno, certamente non quella della figura Christi. L’imbroglione ritorna talvolta, per esempio nella Nascita dell’Odissea di Giono. L’eroe classico è quello che compare più spesso, spesso obliquamente: per esempio in Kavafis e Seferis. La figura che domina in epoca moderna è quella dell’Ulisse dantesco: l’esploratore puro, dal Rinascimento e poi dal Romanticismo sino ai nostri giorni.
Nel nostro mondo sempre più piccolo e sempre più tecnologico, come, secondo Lei, gli antichi grandi miti sopravvivono? Può esistere una nuova mitopoietica “post-moderna”?
I miti antichi, quelli davvero forti, sopravvivono sempre, perché sono archetipici, cioè fanno parte del nostro bagaglio mentale, psichico. Così è, si sa, di Edipo. Così è di Ulisse: 2001. Odissea nello spazio è una rivisitazione in chiave tecnologica del mito di Ulisse e funziona benissimo. Benjamin interpretava la parabola di Kafka su Ulisse e le Sirene proprio a partire dalla tecnica. Non sono la tecnologia e il mondo rimpicciolito che possono fermare il mito forte, anche se c’è stato un periodo in cui ciò è sembrato accadere. Ma il Modernismo, che sembra in un primo momento recepire la distruzione o l’irrilevanza del mito, poi lo impiega alla grande: vedi l’Ulisse di Joyce. E il Postmodernismo fa lo stesso, da Borges a Berio.
Lei è sia un grande dantista che un grande esperto di medioevo inglese. È noto che, mentre la lingua di Dante è in gran parte comprensibile ad un parlante contemporaneo a causa dello statuto puramente letterario e scritto dell’italiano per molti secoli, la lingua di Chaucer non è altrettanto trasparente e l’inglese è notevolmente cambiato nei secoli. Pensa che questa differenza, cioè l’accessibilità o meno dei grandi testi delle origini senza traduzione, sia stata (e sia ancora) determinante nelle due letterature e culture?
Non sarei più tanto sicuro che l’italiano di Dante sia comprensibile oggi. Persino Leopardi viene pubblicato con ‘testo a fronte’! Tuttavia, è vero che il medio-inglese di Chaucer è più incomprensibile dell’italiano di Dante. Anzi, nei paesi di lingua inglese oggi neppure Shakespeare è più immediatamente comprensibile ai giovani. Sì, questo ha delle conseguenze sulla differenza che esiste tra le due culture, l’italiana più tradizionalista e classicheggiante, l’inglese o americana più aperta al presente. Però limiterei il fenomeno agli ultimi trent’anni circa. Sino agli anni Sessanta, sia in Italia sia in Inghilterra e in America la lingua e la letteratura nazionali che s’insegnavano a scuola erano quelli della ‘grande tradizione’. Nelle scuole e nelle università inglesi si imparava non solo il medio-inglese, ma addirittura l’antico inglese, l’anglo-sassone. Quando T.S. Eliot, in apertura della Terra desolata, scriveva che “April is the cruelest month, breeding / lilacs out of the dead land” ecc., tutti capivano che questa era una riscrittura dell’inizio dei Canterbury Tales di Chaucer, “Whan that Aprille with his shoures soote / The droghte of March hath perced to the roote”. Oggi questo non è più vero, in Inghilterra e in America, ma anche in Italia. Siamo sicuri che un giovane italiano medio sia in grado di riconoscere le citazioni dantesche, spesso esplicite, in Se questo è un uomo di Primo Levi?
Dopo la rivoluzione scientifica e l’inizio dello studio del cielo stellato dal punto di vista fisico, matematico e cosmologico, le stelle e l’universo assumono, oltre alla visione “poetica”, una connotazione scientifica che affascina e influenza molti artisti moderni (per citare solo due dei Suoi esempi, Van Gogh e il Calvino di Palomar). Crede che questo “sdoppiamento” (scienza/poesia) nella concezione moderna delle stelle possa essere in letteratura ciò che nel teatro è stato lo “strappo del cielo di carta” di Pirandello, che separa Oreste da Amleto?
Io ho sempre pensato, con Aristotele, che l’impulso fondamentale della meraviglia sia all’origine della filo-sofia (cioè delle scienze fisiche, filosofia naturale, e della filosofia tecnicamente parlando) e delle arti. Lo scienziato antico – che so, Ipparco, Eratostene – non è molto diverso dal moderno, perché anche lui studia le stelle dal punto di vista matematico, dunque diverso dal poeta. Ma anche nell’antichità le teorie scientifiche influenzano la poesia: per esempio Lucrezio e Virgilio. E questo continua nel Medioevo, islamico e occidentale. Poi in epoca moderna. Ed è presente tuttora: gli ultimi esempi nel mio libro sono due poeti contemporanei, Haroldo de Campos in Brasile ed Ernesto Cardenal in Nicaragua. Insomma, io credo poco allo ‘sdoppiamento’, alle “due culture” di C.P. Snow. Ci sono ben – ci sono sempre stati – poeti che sanno poco o nulla di scienza e scienziati che sano poco o nulla di poesia e d’arte. Ma non sono moltissimi, e gli esempi importanti vanno tutti nella direzione opposta. Dove manca la poesia è, direi, nella finanza, nella tecnica, nel commercio. Un finanziere in genere compra un quadro come investimento. Un amministratore delegato va alla Scala perché gli fa immagine. Insomma lo sdoppiamento mi pare esista tra il letterato e lo scienziato da una parte e l’uomo della tecnica e del denaro dall’altra. Una volta ad Assisi, alla fine di una lezione su Ulisse che l’Unicredit mi aveva chiesto di fare per i suoi direttori d’agenzia dell’Italia centrale, uno di questi mi domandò se, ecco, insomma, potessi spiegargli cosa fosse la frode (avevo parlato dell’Ulisse di Dante come consigliere fraudolento). Scoppiai in una risata omerica, e gli dissi che il banchiere era lui, e quindi doveva sapere cosa fosse la frode assai meglio di un letterato.
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L'autore
- Lucia Busso ha conseguito Laurea Magistrale e Dottorato in Linguistica con lode all'Università di Pisa, seguita dai professori Alessandro Lenci e Florent Perek. Attualmente lavora come post-doc alla Aston University di Birmingham, dove si occupa di Construction Grammar, Linguistica Forense e Psicolinguistica. I suoi interessi di ricerca spaziano tra approcci Usage Based al linguaggio, Linguistica dei Corpora e linguistica sperimentale.
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