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Ruxandra Trandafoiu intervista Marius Lehene

Marius Lehene è un artista visivo di origine rumena, attivo negli Stati Uniti e a livello internazionale. Le sue ultime esibizioni includono mostre al Boulder Museum of Contemporary Art; alla Galleria Casa Matei presso l’Università di Arte e Design di Cluj, Romania; al Manifest – Creative Research Gallery and Drawing Center di Cincinnati, Ohio; al Pollock Gallery di Dallas, Texas; all’Ice Cube Gallery di Denver, Colorado. Nel 2013 ha ricevuto uno dei premi Dave Bown Projects Competition. Lehene è stato anche il vincitore, nel 2010, del McNeese National Works on Paper Exhibition e, nel 2007, del Positive/Negative 22 National Juried Exhibition. Nel 2013, ha pubblicato in collaborazione con il poeta Matthew Cooperman, Imago for the Fallen World (Jaded Ibis Press, Seattle). Ha ottenuto il Master of Fine Arts in disegno e pittura presso la Southern Methodist University (USA) e una laurea in Economia presso l’Università Babes-Bolyai di Cluj (Romania). Lehene vive a Fort Collins, Colorado, ed è professore presso il Dipartimento d’Arte della Colorado State University.

Cosa sta accadendo nel panorama dell’arte romena?

Molte cose stanno succedendo e velocemente. È un po’ il riflesso della quantità e della velocità delle informazioni che stiamo vivendo in tutto il mondo. Scrittori, musicisti classici, cineasti e gente del teatro hanno probabilmente preceduto il successo di cui ora godono gli artisti visivi rumeni. Come pittore, io sono più sintonizzato su ciò che succede nelle arti visive e, per questo, risponderò alla tua domanda in tal senso. Artisti come Dan Perjovschi, Mircea Cantor o Adrian Ghenie sono già noti al pubblico straniero. Ma esiste uno scenario artistico molto più ampio nel paese. Costituito da interessanti artisti, molti di essi giovanissimi, provenienti da tutto il paese, questo scenario sembra essersi concentrato, in modo bipolare, tra Bucarest e Cluj. Ciò alimenta la competizione, a volte lasciando il posto a vere e proprie rivalità, tra le due principali scuole d’arte del paese: l’Università di Arte e Design di Cluj e l’Università Nazionale delle Arti di Bucarest. Iasi e Timisoara offrono il loro contributo a questa competizione, ma raramente viene loro riconosciuto.

I professori di tutte queste istituzioni tendono ad essere abbastanza attivi come artisti. E quasi ogni artista rumeno che io conosco attualmente è anche attivo al di fuori del paese. In realtà, per le giovani generazioni, l’attività all’estero sembra essere un prerequisito per essere presi sul serio in patria. Questa situazione potrebbe avere a che fare con il fatto che sebbene ci sia una buona scena artistica, è ancora ristretto il mercato dell’arte in Romania. Ciò ci potrebbe anche suggerire qualcosa sulla fiducia in sé stessi delle proprie istituzioni artistiche rumene, sulla nostalgia dei Grand Tour… ma non ne sono sicuro.

A questo punto mi sorge spontanea una domanda a partire da quanto mi chiedi: “Che cos’è che rende rumena un certo tipo d’arte? L’ubicazione o la cittadinanza del creatore?” E “Cosa importa di più la localizzazione o la cittadinanza, se non nulla?” Comunque… è totalmente positiva la presenza costante di questi artisti in patria, dove spesso esibiscono le loro opere accanto ad artisti meno noti. Questo fenomeno ci parla anche dell’enorme sagacia di una generazione relativamente giovane di organizzatori e imprenditori culturali.

Molti artisti rumeni della generazione dal periodo del regime comunista stanno acquisendo visibilità, in maniera retrospettiva, attraverso l’influenza che hanno sugli artisti più giovani. Geta Bratescu (1926), Ion Grigorescu (1945) e Ana Lupas (1940, più che un’artista d’installazione) sono artisti di una generazione precedente, per lo più concettualista. Nonostante non siano più attivi, essi continuano ancora a essere esposti e quindi ad influenzare le generazioni successive. Calin Dan (1955) e Matei Bejenaru (1963) seguono, nei loro modi idiosincratici, il percorso concettualista. Alla stessa generazione degli ultimi due appartengono le opere marcate da una tagliente critica socio-politica prodotte da Dan Perjovschi (1961). Alcuni dei più giovani artisti si trovano ancora in una fase di confluenza fra concettualismo e critica sociale, ma allo stesso tempo li trascendono: Andra Ursuta (1979.), soprattutto attraverso delle installazioni, e Alex Mirutziu (1981), attraverso performance e video incentrati spesso su questioni di genere e identità sessuale. Le questioni di potere e di genere sono centrali anche nel lavoro della fotografa Alexandra Croitoru (1975). Attiva principalmente negli Stati Uniti è Rozalinda Borcila (1971), che ha iniziato come new media artist, ma ora sta virando verso una linea più vicina all’attivismo sociale. Protean Mircea Cantor (1977) fa del suo meglio per evitare qualsiasi etichetta, è il vincitore dell’edizione 2011 del Premio Marcel Duchamp.

Gli artisti appena menzionati sono quelli che, penso, non siano pittori. Dico questo perché ritengo che i pittori ancora dominano la scena in Romania. Plan B Gallery (Cluj / Berlino) e il suo direttore, Mihai Pop (oltretutto, uno dei promotori del centro culturale indipendente Paintbrush Factory, Cluj), ha contribuito a lanciare le carriere di molti artisti rumeni interessanti, per lo più pittori, tra i quali Serban Savu (1978), Ciprian Muresan (1977, la cui pratica è un po’ più variata) e – in particolare – Victor Man (1974) e Adrian Ghenie (1977). Ubicata nella Paintbrish Factory e gestita da Daria Dumitrescu è la Galleria Sabot che rappresenta, tra gli altri, gli artisti Aline Cautis (1975), Vlad Nanca (1979), Mihut Boscu Kafchin (1986) e Radu Comsa (1975).

A Bucarest, imprenditori culturali, galleristi e curatori come Cosmin Nasui, fondatore della Galleria Nasui e cofondatore dell’influente rivista d’arte on-line Modernism.ro, sta facendo un lavoro molto buono, per quanto posso osservare da lontano. Infatti, Bucarest possiede un buon numero di interessanti gallerie, uno scenario molto più atomizzato di quello di Cluj. All’estero, Mihai Nicodim della Nicodim Gallery (Los Angeles), passa al vaglio il lavoro di diversi artisti rumeni, tutti pittori – fra essi, Razvan Cinghiale (1982) e Zsolt Bodoni (1975), ma anche Ghenie, Savu e Muresan. Mihai ha anche esposto il lavoro di Mirutziu. Un paio di anni fa, la Nicodim Gallery ha aperto una filiale a Bucarest e ha ampliato il ventaglio di artisti con i quali lavora. La Ana Cristea Gallery (New York) ha esposto le opere di alcuni dei suddetti artisti insieme al pittore di Bucarest, Bogdan Vladuta (1971). Irina Protopopescu, direttrice della Slag Gallery (New York), aggiunge alla lista degli artisti romeni da menzionare che espongono all’estero, Dumitru Gorzo (1975) e Dan Voinea (1970), entrambi pittori e laureatisi all’Università Nazionale delle Arti di Bucarest, uno risiede a New York, l’altro a Berlino. Il pittore Marius Bercea (1979) è attivo sia in patria che all’estero, nel Regno Unito e negli Stati Uniti.

Questi sono solo alcuni esempi, potrei andare avanti con quest’elenco. Non posso fare a meno di notare la predominanza degli uomini, riflesso di un sistema patriarcale troppo lento a cambiare. Sono sicuro che ci sono nomi importanti che non ho citato e sono sicuro che le etichette che ho affibbiato agli artisti sono relative; comunque, è prerogativa dell’artista negare qualcuna e tutte queste etichette. Per me resta interessante il fatto che, mentre l’arte contemporanea rumena inizialmente è stata quasi esclusivamente notata all’estero, questo successo esterno ha – in modo indiretto – iniettato nuova linfa anche alle scene locali, apportando la loro solidità e effervescenza. In questo momento, si percepisce un senso d’ottimismo nelle arti visive rumene; avrei dovuto scavare a fondo per trovare, per esempio, qualcosa del genere nel panorama dell’arte americana, dove il cinismo la fa da padrone.

Come hanno fatto gli artisti rumeni (in patria e all’estero) a navigare sulla via della transizione dal comunismo al capitalismo, da un sistema di controllo a un altro?

Questa è una domanda difficile, ma sono d’accordo con la tua idea implicita che il controllo rigido e centralizzato esercitato dal regime comunista ha lasciato il posto a una nuova, anche se più soft, forma di controllo. Durante la transizione rumena questo non è stato solo il dominio delle decisioni economiche – il controllo del mercato capitalista con la sua spinta al profitto – ma anche uno stato di controllo. A differenza di altri stati ex comunisti, nei primi anni ’90 la Romania ha adottato una transizione “lenta” verso la democrazia e il capitalismo (lascio al lettore decidere se la connessione tra i due termini sia ancora così naturale e necessaria). Non è stato in realtà una questione di strategia quanto piuttosto il risultato del fatto che la “rivoluzione” rumena non sia stata dopotutto una vera rivoluzione, ma un cambio di guardia di un gruppo di leader comunisti con uno nuovo (aspetto che, per esempio, “Le Figaro” aveva già messo in risalto, appena dopo un paio di settimane dal processo farsa e dall’esecuzione sommaria dei Ceausescu nel giorno di Natale del 1989). Gli alquanto cupi decenni che si sono susseguiti sono stati funestati dalla corruzione giunta fino ai piani più alti di governo e da un sentimento diffuso di privazione dei diritti sociali, così come dalla ampia emigrazione, soprattutto verso l’Europa occidentale. Molta di quell’atmosfera persiste ancora fino ad oggi.

Quest’umore si è concretizzato in alcune delle migliori opere d’arte che sono state fatte in quegli anni. Il decennio si può sintetizzare nella simbolica “Mineriade”, quegli strani momenti nel 1990, 1991, e di nuovo nel 1999, quando i grandi gruppi di minatori sono stati chiamati (dai capi di governo nei primi due casi, dai leader sindacali nell’ultimo) a combattere per le strade della capitale contro l’opposizione politica formata principalmente da studenti e intellettuali che protestavano pacificamente. Penso che tanto questa realtà vissuta così come il ricordo del comunismo spieghino la propensione per la materia oscura e per l’humour nero che si riscontrano sia nelle arti visive sia nel cinema post 1989. Si può anche spiegare la ricorrenza di temi e figure comuniste – come le immagini dei Ceausescu nelle opere di Ghenie, l’architettura ghetto-comunista di Bogdan Vladuta, le persone e situazioni che appaiono grigie, rotte, schiacciate verso il basso, come nelle scene di Serban Savu, o il dislocamento e l’ideologia delle opere di Mircea Cantor. Se mi è permesso congetturare, vorrei anche aggiungere che il trauma del comunismo, in generale, non è ancora stato affrontato dalla società rumena e, in quanto tale, continua a incombere sulla nazione, il che include anche gli artisti. Non ci sono stati processi ai leader comunisti e gli archivi della polizia segreta (Securitate) non sono stati resi pubblici fino a poco tempo fa e solamente in parte, con la legge che tutela le ex alte cariche dell’apparato comunista. La generazione dei nostri genitori – coloro che hanno trascorso tutta la loro vita adulta sotto il comunismo – è stata segnata, credo, da un inconfessato complesso di colpa dovuto alla mancanza di qualsiasi forma di dissenso significativo durante il comunismo.

La continua negazione di questa realtà attraverso discussioni circa l’esistenza di momenti sporadici di dissidenza perpetua solo gli effetti che questo periodo storico (il comunismo) continua a esercitare sulla società romena, anche nella sua produzione artistica. Ciò che alcuni pensatori chiamano “resistenza attraverso la cultura” non era in realtà una forma di dissidenza, ma piuttosto una strategia di sopravvivenza individuale (morale ed etica), un ritiro dalla scena politica e pubblica. I fautori dell’idea che ci sia stata una “resistenza attraverso la cultura” fanno leva sull’argomentazione di Adorno, ossia che semplicemente la lettura, la scrittura e la pittura si costituiscono come un paradigma che punta alla possibilità di uno spazio diverso da quello “ufficiale”, comunista, unico. Il problema, a mio avviso, è che queste attività erano abbastanza invisibili per la maggior parte della società, quindi probabilmente non hanno rappresentato nessun paradigma alternativo. Un’intervista del 27 settembre 2010 di Gabriel Liiceanu alla scrittrice Herta Muller (premio Nobel di origine romena), è indicativa di questo conflitto di idee tra gli intellettuali che hanno lasciato il paese e sono critici e coloro che sono rimasti in Romania e si dilettano in disconoscimenti feticistici, sentendo il bisogno di negare l’assenza pratica di dissidenza.

Per tornare alla domanda, ciò che maggiormente hanno fatto gli artisti negli anni successivi al 1989 è stato, in primo luogo, rimanere perplessi, ripetendosi la domanda “E adesso cosa facciamo?”, e, in seconda battuta, hanno provato a recuperare le forme d’arte realizzate (spesso invisibili) sotto il comunismo – delle quali molto poche appartenevano, come lo stereotipo indica, al Realismo Sociale. Viaggiare all’estero, che da allora fu possibile, e incontrare il variegato panorama dell’arte contemporanea, in particolare dell’Europa occidentale, è servito un po’ agli artisti rumeni per (ri)definire sé stessi. Ma questo è stato comunque un periodo pieno di speranza… Hanno fatto un buon lavoro a lungo termine nonostante il fatto che il primo decennio dopo il 1989 sia stato quasi interamente una delusione per loro. Fenomeni bizzarri avevano imperversato la scena artistica dei primi anni ’90; oltre alla persistenza storicamente compensativa di idee di destra tra gli intellettuali di alto profilo che si diffondevano in qualche misura lungo la scena artistica e che erano la vetta del più strano di tutti i fenomeni, esisteva l’anacronistico neo-bizantinismo che è stato attivo per un po’, soprattutto in pittura e scultura, non solo come una nicchia al servizio della chiesa, ma anche come qualcosa che si potrebbe definire “moneta di scambio intellettuale”. Questa tendenza sembra essere svanita. Gli artisti ora sembrano aver del tutto accettato l’ultima fase del capitalismo, il modello della società dell’informazione – o come lo volete chiamare. A partire soprattutto dalla metà degli anni 2000, gli artisti che ho citato, da un giorno all’altro, diventano protagonisti in Occidente – inizialmente in Europa Occidentale (Germania, Regno Unito, Francia), in seguito molto rapidamente negli Stati Uniti. Molti, soprattutto giovani, curatori e galleristi hanno cominciato partecipando a fiere d’arte, hanno utilizzato le nuove tecnologie di comunicazione con efficacia e, occasionalmente, hanno aperte delle gallerie con delle filiali all’estero – Plan-B Gallery (Cluj / Berlino) è un esempio di questa strategia di successo. Più che altro, ciò che è in ballo è l’abbraccio acritico del capitalismo di mercato. Almeno tra i fenomeni visibili dal mio punto di vista limitato… Sento che questa osservazione non vale di per sé solo per il mercato dell’arte (distributori, gallerie, case d’asta), il che sarebbe naturale, ma penso che sia giusto dire che si applica alla stragrande maggioranza degli artisti. Sarà interessante vedere cosa riserva il futuro delle arti visive rumene perché ritengo che sia imminente che molti artisti, per esempio Dan Perjovschi, inizieranno ad affrontare in maniera diretta (come la tua domanda lascia intendere) la realtà della situazione globale di restringimento delle libertà personali e civili, la sorveglianza universalizzata, la politica aggressiva, la criminalizzazione razziale e religiosa, etc.

Abbiamo lavorato insieme in un progetto sulla visibilità. Perché la visibilità è importante?

Beh, innanzitutto, nell’era dell’informazione il successo sembra coincidere sempre più a fondo con la visibilità. La scena artistica mondiale comincia ad assomigliare sempre di più a Hollywood e il mercato dell’arte sempre più all’industria della moda. Al centro di tutto è la visibilità e, sicuramente, i media con le loro prevedibili inclinazioni. Questo è il lato spettacolare della faccenda, come nel caso di Guy Debord, ed è una situazione che viene promossa attivamente tanto dalle gallerie quanto dai collezionisti. Tuttavia, ha un impatto sull’aspetto più serio della visibilità, cioè il fatto che sottintende sempre una certa politica. Jacques Rancière ne parla in modo eloquente. Vedere è un’attività intenzionale. Ciò che si percepisce non è necessariamente tutto ciò che è esteriore, ma solo ciò verso cui dimostriamo una certa sensibilità. Intesa in questo modo, la sensibilità cambia dal punto di vista storico; nuovi oggetti e fenomeni (che si trovano già lì) possono diventare visibili. Rancière lo denomina “la distribuzione del sensibile”. È una questione appena percettibile, ma sono d’accordo con lui, le arti contribuiscono al mutare delle sensibilità e, in quanto tale, ogni estetica è anche una forma di politica e viceversa. La percezione della realtà è il campo di battaglia… Certo, da una certa prospettiva materialista, qualsiasi cosa è sempre lì per essere vista, ma resta il fatto che aspetti che erano centrali possono diventare marginali, e aspetti precedentemente periferici possono occupare il centro della scena come risultato di un cambiamento quasi impercettibile nella “distribuzione del sensibile”. Questa sottile percezione è di per sé problematica perché questi cambiamenti di sensibilità, prodotti da nuove forme di visibilità da parte di certi tipi di arti visive, comportano spesso qualcosa che ci riguarda senza che il nostro essere ne venga a conoscenza. Cosa e chi sia visibile dice molto su dove si trovi la nostra attuale “distribuzione del sensibile”.

L’attuale visibilità di alcuni artisti mostra anche la genealogia del loro lavoro e di sé stessi. Questa genealogia non sarebbe diventata di per sé visibile; c’è bisogno di un evento (ad esempio, l’affermazione del lavoro di un artista contemporaneo) per renderla visibile. Ciò si verifica solo in modo retroattivo. Penso che stia avvenendo e che continuerà a succedere nell’arte romena – la visibilità della generazione attuale renderà visibili i loro predecessori (in un modo che nessuno di loro vorrebbe avere). Così, le nuove generazioni creano le proprie genealogie rendendo visibili, in maniera retroattiva, prove artistiche che erano assolutamente sconosciute al grande pubblico (anche all’interno del paese).

Nella mia memoria è vivido l’esempio di Harun Farocki. Insieme al cineasta rumeno Andrei Ujica, ha fatto un film sulla fine del regime comunista di Ceausescu in Romania, “Videograms of a Revolution”. Credo che Farocki mostri particolarmente bene (in tutte le sue opere) questo cambio nella visibilità; presenta allo spettatore delle immagini che materialmente erano già presenti in bella vista (come se fossero un oggetto ritrovato, che è il suo filmato), ma li risistema in modo da rendere visibile ciò che potrebbe essere rimasto nascosto in piena vista. La visibilità è per lui, come sottolinea R. N. Rodowick in un recente articolo su Art Forum, una politica di percezione. Ciò che si nasconde in piena vista può essere chiamato ideologia, uno schermo attraverso il quale certe cose diventano visibili e altre sono escluse addirittura dalla possibilità di essere percepite. Lo schermo ideologico non è mai vissuto come immagine; non appena ci si concentra su questo schermo viene sostituito da un altro. Sembra essere una condizione “sine qua non” per la coscienza – che il suo ultimo schermo filtrante sia esso stesso imperscrutabile. Ma il procedimento stesso, credo, può essere reso visibile, come ci mostra Farocki e come provano a spiegarci tutti questi sforzi artistici, che mettono al loro centro la visibilità.

Ritorni spesso in Romania (mentalmente, fisicamente e artisticamente, attraverso viaggi e ricordi). Come riesci a dare un senso ai molteplici luoghi che abiti tutti allo stesso tempo?

Non penso che ci riesco; essi (i luoghi) ci riescono con me. Io certamente utilizzo l’opera per elaborare tutto ciò, ma non è un processo totalmente cosciente. Può essere che questa molteplice localizzazione si manifesta nel mio lavoro come una simultaneità di prospettive. Queste prospettive provengono da ambienti diversi e tempi diversi, ma diventano contemporanee, come schegge appena dopo un’esplosione. Non so se ciò sia preciso… Ma io non sto cercando il suo controllo. Non sono convinto che avrei potuto anche se ci avessi provato… È una cosa che osservo del lavoro e del mio modo di pensare, cioè, i pensieri vengono dopo. Queste cose possono essere analizzate in maniera retrospettiva, ma sono vissute direttamente per lo più come una nebulosa di scariche emotive il cui il magnetismo è difficile da definire. In parte, questo senso di dislocazione è alla base della mia partenza dal mio paese natale. In quel preciso momento, immediatamente, si sono moltiplicati gli spazi in cui vivo (nel vero senso della parola). Ogni ritorno in Romania mi ricorda che mi sento slegato dagli Stati Uniti, troppo, e che sono diventato contemporaneamente un estraneo nel mio paese natale; insomma, che non vi è più “casa” possibile. Ciò non lo dico in nessun modo tragico, tutto il contrario; il più delle volte queste dislocazioni si fanno sentire a livello personale come assurdità che, come sappiamo, sono la fonte di ogni senso d’umorismo.

Penso anche che un forte senso di moltiplicazione dello spazio lo vivevamo già sotto il comunismo, vero? La sfera pubblica era la sfera delle bugie della propaganda, mentre la sfera privata ha permesso di custodire qualche spiraglio di autenticità; erano due mondi distinti. Inoltre, una molteplicità di significati si applicava a ciascuna di queste sfere – eravamo molto consapevoli del fatto che ogni affermazione nella sfera pubblica ha creato una frattura interna tra ciò che si diceva e ciò che si poteva/doveva leggere tra le righe (l’esempio classico sono i reportage sulle “democratiche” elezioni comuniste). Ogni regola esplicita aveva sempre regole implicite (invisibili) che ne hanno gestito la sua applicazione. Queste regole implicite erano quelle che contavano davvero – abbiamo sviluppato l’istinto a ricercare continuamente le regole nascoste. Penso che ci portiamo dietro quest’abitudine ad avere una percezione reticente – si nota anche nel modo in cui mi pongo verso le tue domande; il mio primo impulso non è quello di individuare ciò che la domanda dice, ma da dove è venuta, in altre parole cerco il suo fondamento ideologico.

Non deve sembrare che stia cercando d’isolare questo senso di dislocazione delle società comuniste. Credo sia presente ovunque. Ognuno di noi mantiene dei ruoli durante tutto il tempo – la nostra vita professionale e la vita privata sono spazi distinti. Anche il passato, per esempio, può essere concepito come “un paese dal quale noi tutti siamo emigrati” (Rushdie), uno spazio comune a tutti noi che attraversa confini nazionali e altre determinazioni identitarie. I cambiamenti tecnologici esercitano su di noi una constante pressione ad adattarci al loro ritmo e, implicitamente, ci troviamo in perenne dislocazione. Tutto ciò, ancora una volta, coinvolge tutti, indipendentemente dalla posizione fisica che ognuno di noi occupa. Quindi, se la dislocazione è associata al migrante, il migrante allora è già una figura paradigmatica della società globale contemporanea. E il migrante si muove con le proprie abitudini percettive dettate dall’esperienza di abitare una sorta di multiverso spaziale. Queste abitudini si manifestano non tanto come una questione di fiducia. Sono riflessi. Se riesci a mantenere una certa distanza da loro, ti rendi conto che sono parte di atti interpretativi, centrati sulla soggettività. Questi riflessi sono arte, come quando il migrante guarda qualcosa (un’esperienza) e gli assegna una serie diversa di sistemi di categorizzazione. “Che cosa sto guardando? Sono sicuro? Tutto ciò è reale? Lo posso anche vedere in un altro modo?”, sono domande che sorgono istantaneamente e involontariamente popping-up. Ma queste non sono domande di mero riconoscimento, il che d’altra parte accadrebbe inconsciamente; segnalano un impegno estetico. Hanno passato al microscopio non solo ciò che si percepisce, ma la percezione stessa (il soggetto) con tutte le sue illusioni di identità. E, a proposito, quel concetto – l’identità – è uno di quelli di cui il migrante arriva a dubitare profondamente. Perché ci si rende conto di quanto sia facile fabbricarla, quando i suoi contenuti sono sempre in funzione di richiami da fuori, convalidati solo dal proprio discorso.

Qual è il rapporto tra l’arte (cultura) nazionale e l’arte (cultura) della diaspora?

Beh, penso che ballino una specie di danza fuori tempo. Non molto diversa è la relazione generale della diaspora con la comunità nazionale… In quel ballo, entrambe mettono a confronto le limitazioni e le incongruenze dei loro rispettivi punti di vista sull’altro. Ognuna pensa di capire l’altra perfettamente, ma ognuna possiede ancora un’immagine obsoleta dell’altra. Quando si incontrano, vi è la possibilità di misurare le disparità, per distinguere il passo nella danza… Penso che le differenze fossero normalmente più sostanziali in passato, adesso le due (culture) stanno diventando sempre più simili, ma, nel caso romeno, non a causa di continui scambi (che in campo culturale non sono così frequenti e intensi come potrebbero essere), piuttosto a causa di fattori esterni. L’integrazione europea e la globalizzazione hanno ridimensionato le differenze tra gli stimoli della cultura al panorama nazionale e, dall’altra parte, gli scenari di risposta dell’arte prodotta dalla diaspora. Anche l’alienazione, che è così strettamente associata solo alla diaspora, è molto diffusa al giorno d’oggi all’interno dei confini nazionali. Non c’è bisogno di lasciare il proprio paese per sentirsi come un estraneo.

Ciò è ancor più vero in Romania, dove decenni di corruzione dopo il 1989 sottopongono una generazione dopo l’altra a un costante stato di privazione dei diritti civili. E forse questa dislocazione e privazione dei diritti segna la produzione culturale sia degli artisti rumeni, sia di quelli della diaspora, mentre allo stesso tempo riecheggia tra i rumori globali dello stesso tipo. L’argomento hegeliano che l’arte (come una fase dello sviluppo dello Spirito) è morta, ha reso l’arte rilevante solo come una sorta di produzione dell’identità culturale. Se la vediamo in questo modo, può valere la pena scindere l’arte della diaspora e quella nazionale può valere la pena se si sondano le intuizioni di ciò che è (in ogni caso) intrinseco all’arte romena e ciò che è estrinseco (che reagisce ai diversi contesti). Tuttavia, la globalizzazione giudica quest’ “arte come produzione” di comparazioni “tra identità culturali” tanto più rilevanti quando tutti sembriamo crescere sempre più con la stessa cultura globale. Le differenze culturali stanno rapidamente diventando storia e una reazione a questo processo è naturale. L’arte in quanto produzione di identità culturali assume necessariamente la forma di un’archeologia – per arrivare a qualcosa di culturalmente specifico deve tornare indietro nel tempo e nello spazio e dare un giro, come si fa spesso in questi giorni, dolorosamente auto-consapevole. L’arte della diaspora, credo, può contribuire a rendere tutto ciò esplicito, così come il suo rivolgersi al passato tende ad essere più evidente perché coinvolge una componente spaziale più facile da notare. Questo tentativo di tornare indietro prende, ovviamente, le sembianze di un’impossibilità – i suoi risultati reali non sono mai un recupero.

Il mito dell’eterno ritorno è, credo, inevitabile per qualsiasi diaspora. Ma non è una cosa semplice soprattutto per gli artisti, perché il ritorno spaziale si sovrappone in larga misura con un ritorno all’infanzia, sia come luogo sia come stato d’animo; forse è una tendenza artistica generale per tentare di tornare a una infanzia pre-linguistica (nel senso di Agamben), dove ci sono solo percezioni e non significati; dove il “verde” può essere vissuto come tale e non come “l’erba verde di casa”, etc.

Scegli uno dei tuoi lavori e parlaci del suo processo creativo, rifallo, ridipingilo per noi.

È difficile rispondere direttamente a questa domanda perché non riesco a mantenere la distanza dal mio lavoro, non mi fido così tanto di me stesso da poter esprimere un punto di vista su di esso. Quando lavoro, faccio una cosa e quando ne parlo, ne faccio un’altra. Quindi, se accetti questo presupposto, farò del mio meglio per disquisire “attorno” al mio lavoro… La maggior parte dei ragionamenti su di esso giungono dopo che il lavoro è stato svolto e alcuni di essi li hai già ascoltati in precedenza. Di questi pensieri, io non m fido affatto. Credo agiscano di più creando, da zero, scenari in cui il lavoro ha un senso, piuttosto che identificare qualcosa di oggettivamente vero al riguardo. Essi sono riflessivi nella stessa misura in cui lo erano in primo luogo le opere… credo… Se ti do l’impressione che io sappia di cosa tratti la mia opera, ricorda che in realtà io non lo so – sto cercando di seguirne il filo; cerco di stargli dietro inseguendo i suoi “dérapages”. A questo punto, da qui in poi possiamo interpretare una storia di Italo Calvino: tu sarai il Gran Khan e io farò da Marco Polo, cercando di dipingere per te qualcosa di invisibile…

Posso dirti per prima cosa che cosa ho fatto fisicamente, materialmente, nelle mie opere più recenti (2015). In poche parole, lavoro per strati: faccio qualcosa e poi faccio qualcos’altro su di esso (mi sembra di parafrasare Jasper Johns in questo momento). Questo procedimento continua fino a quando il semplice riconoscimento dei soggetti visivi non è più possibile nelle opere e tutto si trasforma in qualcosa che è più di una sensazione. (Sentendo me stesso pronunciare queste parole, mi rendo conto che è un’idea praticamente identica a quella di “straniamento” di Sklovskij.) La mia attuale serie di opere (2015) si basa su immagini sovrapposte realizzate per comunicare tra di loro attraverso l’uso di vari pettini fatti a mano utilizzati per raschiare un corpo intonso di vernice ed esposto sotto le immagini. Questa procedura fisica della pittura non è una novità, l’artista afroamericano Jack Whitten lo utilizzava ampiamente negli anni ’70, ma non lo faceva in maniera oggettiva. Nella mia opera, posso aggiungere immagini come schermi sopra al di sopra di altre immagini; tendo sempre a mettere qualcosa in questo modo, a livello visivo. Mi piace quando appare la schermata superiore come qualcosa che è troppo vicino da poter essere osservata direttamente ed è riconoscibile solo come un ostacolo. O quando nessuna immagine di un numero di quelle che competono tra di loro sembra avere il sopravvento… Il risultato è esso stesso forma, non si può sfuggire. Ad eccezione dei casi in cui sorge come un mormorio o un ronzio (come nella musica classica indiana, o – chissà – come i dispositivi di volo utilizzati in recenti attività militari)… gli strati inferiori sono essi stessi molteplici, negando la possibilità di discernere visivamente un ultimo, finale, strato di significato.

Due anni fa ho creato un’installazione di video clip giustapposti, registrati a partire di un veicolo in movimento e proiettato attraverso una scultura scheletrica che creava, in realtà, un impedimento per la formazione di qualsiasi immagine chiara. Ecco dove si origina per me questo tipo di pensiero visivo. Negli spessi strati di fondo sovrapposti dei miei ultimi lavori, ci sono disegni basati su foto recenti che ho scattato nella mia città d’origine, Cluj (alcune viste sono letteralmente quelle della mia infanzia dal mio condominio, viste che in un certo senso vedo per la prima volta), ma combinate, in un caso, con un parco giochi degli Stati Uniti dove si trova un giovane ragazzo, in un altro caso con un’immagine dalla “rivoluzione” del 1989 (Iliescu al telefono). Le vedo – in entrambi i casi – in funzione di una storia (forse di un linguaggio), accesso a qualcosa che in realtà è negato per interferenza, non appena si mettono “a fuoco”, le si guarda a fondo. M’interessa fare allusione a una visione periferica; le immagini utilizzate sono immagini di una periferia spaziale e storica, dopo tutto…

[Traduzione di Marco Paone]

Scarica l’intervista in inglese

 

Lehene: Between blocks of flats, 2014

 

Lehene: Ashoka Pillar, 2015


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L'autore

Ruxandra Trandafoiu
Ruxandra Trandafoiu
Ruxandra Trandafoiu is Reader at Edge Hill University