conversando con...

Amedeo Galbusera intervista Laure Gauthier

Interview en français

Buongiorno Laure, e grazie per aver accettato il mio invito. Innanzitutto, mi piacerebbe parlassimo della cronacalizzazione, molto presente in particolar modo in kaspar di pietra, e nelle sue opere in generale. Al loro interno si ritrova spesso, infatti, la rivolta contro una cronacalizzazione che mette in scena il dolore; crede che il silenzio possa essere una risposta appropriata? E crede inoltre che il silenzio e la musica (così importante, quest’ultima, nella sua vita e nelle sue opere) potrebbero essere delle armi adeguate in questa lotta che lei sembra portare avanti?

Grazie a lei per avermi invitata. Prima di rispondere alla domanda, mi sento in dovere di ritornare sulla nozione di eccesso, che cerco di chiamare in causa in tutti i miei testi. L’eccesso è sempre esistito, ma ogni società ha avuto la propria lettura dell’eccesso; penso tuttavia che attualmente viviamo una forma massima dell’eccesso moderno. La poesia costituisce, naturalmente, una delle reazioni possibili agli eccessi, e in particolar modo all’eccesso di “riempimento”. Veniamo infatti riempiti di suoni, d’immagini, di fatti di cronaca, persino di cibo: si tratta di un “riempimento organizzato”, che costituisce un attacco. Tutto si fa, allora, metafora di questo riempimento, e diviene necessario giustificare ed attestare una sorta di presenza, ad esempio con foto, selfie, tatuaggi, valutazioni. Siamo obbligati, insomma, a certificare la nostra esistenza, tanto veniamo reificati dalla società consumistica. In ognuno dei miei testi, cerco di identificare attacchi e meccanismi violenti, e trovo che la violenza vada di pari passo con l’eccesso: tuttavia, spesse volte un eccesso non viene concepito o percepito in quanto violento. Nonostante viviamo in una società democratica, e nonostante le persone non vengano più torturate sulla pubblica piazza, ci sono altre torture, altri omicidi: gli attacchi perpetrati contro tutta la lingua, per ridurla a una lingua consumistica, costituiscono infatti una messa a morte dell’individuo. A venire aggredita è la capacità che ciascuno ha di pensarsi, di posizionarsi e di resistere ai meccanismi cui si viene esposti.

A mio parere, la cronacalizzazione è uno dei mali della nostra società tardo-moderna: più si è interiorizzata la violenza, più l’attrazione per questa violenza attraverso lo scritto si è intensificata. Stiamo assistendo ad una forma di sensazionalismo aggravato: ogni dramma – o quasi – viene presentato come un fatto di cronaca, e in linguaggio sensazionalistico. Un’altra tendenza di questo mondo che perde i propri punti di riferimento, è il ritorno alla biografia, al biopic: abbiamo bisogno di rassicurarci coi documenti, poiché solo questi sembrano attestare qualcosa di stabile e di “vero”.

È possibile uscire da questo “eccesso di cronaca” e di positivismo, senza cadere nell’arbitrarietà antimoderna, senza cadere in una lingua del pathos e del puro sensazionalismo? Nei miei testi, lascio molte domande aperte, mi metto in presenza di tensioni: non per semplificarmi la vita, ma al contrario per mostrare le varie forze che si affrontano. La poesia è una via di fuga al senso comune: permette al tempo stesso di lenire i dolori e di rimanere attenti ai disordini del mondo. Dire il reale, sperimentarlo, non è né attestabile tramite un semplice documento, né dicibile in una lingua sensazionalistica.

Tuttavia, molti dei miei testi sono elaborati a seguito di un lungo lavoro che parte dai documenti conservati negli archivi. Per kaspar, ho lavorato quasi come una storica per più di due anni, per riunire tutti i documenti, le testimonianze scritte sulla sua storia, ma anche attraversare tutte le opere d’arte a partire dalla sua storia. Non sono antimoderna, e non ho certo una soluzione miracolosa. Credo fermamente alla nozione di “dialettica della ragione”. A mio parere, una cultura fondata sul razionalismo non ha potuto evitare la Shoah, ma l’irrazionalità pura può anch’essa portare con sé una dittatura: bisogna allora rimanere cauti e soppesare ogni cosa.

Cerco sempre di situarmi in leggero “fuoricampo” rispetto archivi, e una volta che ho attraversato qualcosa, comincio a percepire i dettagli tralasciati e dimenticati che accennano al futuro. Ho costruito kaspar, in un certo senso, nel silenzio degli archivi e della storia, ma sempre appoggiandomi al reale; non avrei potuto scrivere questo testo se non avessi attraversato i documenti su questa storia, anche se ho deliberatamente scelto degli spazi-tempo (“Casa 1”, “Casa 2”, “Abbandono 1”, “Abbandono 2”, “Diagnosi 1”, “Via 1”, etc.) che si situano in un vuoto della storia. Ciononostante, bisogna fare spazio attorno a tutto ciò che è stato tralasciato, percepire quanto è sembrato leggero o insignificante; insomma leggere taluni fatti e gesti, continuarli, comprenderne oggi la forza trasgressiva, e tracciare una strada verso di noi – e ancora al di là.

Non ignoro che un individuo come Kaspar Hauser fosse anche agente, ma non credo si possa ridurlo a degli atti conservati in un archivio. Certo era importante sapere quando o come è arrivato a Norimberga, o cosa mangiasse da tale o talaltro educatore; era necessario sapere, ma non volevo romanzare. Ho attraversato l’archivio. E tuttavia, m’interessano i vuoti nella biografia, e ciò che questi ultimi indicano e chiamano in causa. A mio parere sono momenti di emergenza, e la nozione di emergenza è centrale nel mio lavoro. Sfioro il Kaspar storico; lo sfioro, ma lo faccio anche sfuggire alla Storia, così come sfioro Melusina nel mio testo di prossima pubblicazione mélusine reloaded. Riarticolo il secondario e non menziono certi passaggi obbligati, divenuti ormai tanto insignificanti quanto un luogo turistico troppo visitato: il racconto di Kaspar che arriva a Norimberga, è come il Ponte di Rialto a Venezia. Il nostro sguardo rimane dunque falsato, dal momento che la nostra società mostra in modo distorto e semplicistico certi luoghi o certe immagini.

È anche per questo motivo che ci sono degli spazi bianchi o dei momenti di silenzio all’interno dei miei testi. Sono dei momenti in cui dis-accumulo tutto ciò che è stato sepolto, poiché ritengo che la modernità sia una metafora del seppellimento: siamo seppelliti tanto quanto siamo “colmati”. Ciò significa che si pensa di farci felici riempiendoci, e il doppio senso creato dal verbo colmare si rivela, a tal proposito, alquanto interessante. Il lavoro poetico consiste quindi nel disseppellire, far apparire quanto è stato offuscato, e tutto ciò passa obbligatoriamente per dei momenti di silenzio, di ritiro. Tolgo degli elementi, ma ne faccio trasparire altri. E quel momento di silenzio in cui qualcosa tace e qualcos’altro appare è, senz’altro, musica. Anzi, ritmo. Sento una musica prima del testo, e a volte addirittura dei suoni che non scrivo, o delle immagini-suono: un “film del fuoricampo” o meglio un “canto del fuoricampo”, in cui le prime immagini dimenticate mi appaiono come dei flash, che si sviluppano in seguito. Non sono una poetessa verbo-visiva, ma faccio in modo che la disposizione grafica dei miei testi tenga conto di questo tipo di ascolto; lo spazio bianco è importante perché serve a dare momenti di riposo, indolori, di contro-ritmo.

Quindi, questo silenzio è ritmo, e a volte anche musica reale: una musica che attraversa la poesia.

In “Casa 2”, kaspar dice: “come era dolce l’armadio che frenava i terribili suoni / della vita”. Si tratta forse di un segno che la violenza era talmente insopportabile da fargli rimpiangere d’aver abbandonato la sua prigionia?

È stato attestato che Kaspar, agonizzante, rimpianse la sua “prima vita” – e dunque la prigionia – come se questa fosse preferibile alla vita poi condotta presso i suoi tutori. Si tratta di una dichiarazione sicuramente problematica, e che apre numerosi interrogativi: lascio che queste sue parole attraversino il mio testo. Ciononostante, ha sicuramente avuto anche altri pensieri. Eppure, disponiamo solo di questo momento di sofferenza in cui ha preferito l’infanzia, ancorché reclusa, all’educazione forzata che ha subìto. Solo quel momento è attestato, segno della pericolosità dell’archivio. Chiaramente non possiamo sapere se Kaspar Hauser, in altri momenti, fosse più contento – o quantomeno più sereno – in una delle case che lo hanno accolto, rispetto allo star seduto, solo, nella penombra della sua cella per diciassette anni. E dal momento che non esiste alcun documento attestante altri stati d’animo di Kaspar Hauser, si sovrainterpreta questa dichiarazione, che assume di conseguenza un’importanza incredibile. Bisogna sempre tenere presente che un documento è il riflesso di un momento e di un aspetto, e che non si può immaginare una situazione se non partendo dai documenti.

Molti poeti, fra cui Verlaine (che, in Sagesse, prende Kaspar in quanto figura di identificazione del poeta), hanno preso alla lettera certe frasi più o meno attestate, fra cui questa, ed hanno quindi deciso che fosse più “poeta” nel suo “placard”, nel suo nascondimento lontano dalla civiltà, invece che fra gli altri, in un certo senso corrotto dalla società. Ma che attitudine violenta, idealizzare la prigionia come momento poetico! È vero, un bambino abusato potrebbe anche pensare di amare il suo carnefice. Ciò non significa però che io sminuisca nel mio testo la violenza che è stata perpetrata dai tutori, dalla norma sociale che è pesata su di lui o dalle persone che lo consideravano un animale da circo. Su questo punto, il mio testo – nel solco del film di Werner Herzog consacrato a Kaspar Hauser, o del libro di Peter Handke – non accetta compromessi. Malgrado ciò, io credo che Kaspar Hauser non abbia avuto tempo per costruirsi: non era solo una vittima della società, ma anche un “enfant-placard”, un bambino maltrattato con un enorme trauma psicologico alle spalle. Dunque, denunciare il meccanismo di assoggettamento della società non deve far dimenticare il trauma principale: è decisamente complesso. Ritengo tuttavia inammissibile pensare che Kaspar Hauser fosse una sorta di poeta puro che non si vuole compromettere col mondo.

Ho tentato di non concepire Kaspar né come un poeta (si pensi, come detto, a Verlaine), né come un minorato (si pensi al film di Herzog), ma come un essere dalla capacità intellettuale media, e, anzitutto, in quanto persona che ha subìto la violenza della prigionia e la violenza dell’esposizione su pubblica piazza come un animale da circo. Evocare quest’ultima senza dimenticare la prima, fa la differenza. kaspar di pietra mostra la violenza della recuperazione poetica di quel soggetto. Il mio intento è rimettere in movimento le domande insieme ai pensieri dimenticati e lasciati fuoricampo, è accusare la società di Kaspar in quanto emblematica della società moderna e della sua pulsione normativa – finalizzata al controllo dell’individuo – ma è anche tenermi alla larga da ogni tentativo d’idealizzazione di colui che è divenuto sia fatto di cronaca che figura del poeta ideale. Si tratta, per così dire, di tentare di restituirlo a sé stesso con tutte le proprie contraddizioni.

In « Camminata 1 », lei sembra voler sottolineare un rapporto tra purezza, ingenuità e poesia. Citando dal testo: “Murato = senza esperienza = cuore puro = verbo primo = poesia!”. Eppure, come ha appena affermato, lei non concorda sul fatto che Kaspar sia un poeta (ad esempio, come inteso da Verlaine). Perché? Non sono forse, quelle appena enumerate, delle caratteristiche fondamentali in poesia?

Purtroppo, al termine di questa frase avrei fatto meglio ad aggiungere una nota d’ironia, – e non un punto esclamativo – cosa che ho avuto modo di fare nella traduzione tedesca di kaspar de pierre (kaspar aus stein, Thannhäuser, 2021).

In verità, non si tratta affatto di sottolineare un rapporto di uguaglianza, ma anzi di indicare che tutte queste equazioni sono inappropriate. Quest’unica riga riassume tutti i malintesi attorno alla storia di Kaspar Hauser: non è possibile condensare la poesia in un’equazione. Non nego che ci fosse della poesia in Kaspar, dal momento che ogni persona è comunque portatrice di poesia. Ciononostante, non penso fosse poeta in senso stretto. La cronaca riporta che Kaspar amava la musica e che cercava di suonare, ma era stato troppo sconvolto per riuscirvi. Epperò non credo si possa confondere un trauma, e dunque l’espressione di un handicap, con la poesia. In un certo senso, ogni bambino maltrattato e rinchiuso in una cella per diciassette anni potrebbe effettivamente parlare una lingua bizzarra, ma non riesco proprio a guardare a questa lingua come pura e poetica, oppure come ad una lingua “originaria” non corrotta dalla “tremenda” civiltà. Non ritengo proprio possibile pensarla in questo modo. Sicuramente Kaspar ha subìto un’educazione normativa a proposito della propria lingua, cosa che si rivela il riflesso di un pensiero normativo. E tuttavia, ci tenevo a non fare di Kaspar un poeta a priori. Faccio davvero fatica a capire come Françoise Dolto – nel piccolo saggio che gli consacra – abbia potuto definirlo cristico e puro, e ad evocare i suoi occhi blu straordinari. C’è tutto un immaginario attorno a kaspar, una ricostruzione, un’idealizzazione della sua cosiddetta “ingenuità”.

Col mio testo, non ho la pretesa di risolvere il mistero; tento solo di avvicinarmi a certi aspetti, di dar loro vita, ma anche di dialogare insieme a lui con le mie stesse domande, ispiratemi dalla nostra società.

Amo scrivere a partire da quelli che potrebbero essere chiamati “luoghi comuni”, ossia figure comuni conosciute da un grande numero di persone, e che hanno dato luogo a molteplici opere o riscritture: l’Inferno di Dante, Melusina, François Villon, Kaspar Hauser e molte altre.

Per rispondere alla domanda, direi che kaspar non è presente nel testo in quanto poeta, ma in quanto soggetto, un essere legato alla lingua che diviene oggetto di fatti di cronaca e di idealizzazione.

Sono state prodotte moltissime cronache su di lui, si è trattato del primo fatto di cronaca europeo conosciuto, e che ha generato un turismo che oggi chiameremmo “turismo nero”. Questo fascino del macabro esiste tuttora, e si esprime forse ancora di più che all’epoca: la nostra società si avventa in continuazione sulle storie sordide contenute nei fatti di cronaca. Chiunque è scandalizzato dalle esecuzioni in pubblica piazza, eppure in molti leggono volentieri in che modo una donna sia stata violentata o in che modo un bambino sia stato torturato.

Penso che se la lingua e la scrittura dei fatti di cronaca fosse diversa, non si potrebbe riuscire a leggere di queste vicende. Interrogo quindi il nostro rapporto alla violenza ed alla sua rappresentazione. E al tempo stesso la violenza individuale e le violenze istituzionali.

In « Casa 3 », confronto la storia di Kaspar Hauser con quella di un altro fatto di cronaca della stessa epoca: la chiamo “l’enfant cochon”, colei che “vive tra le bucce”. Mi baso su una notizia reale di una bambina che è stata rinchiusa dai suoi genitori in un trogolo per maiali, e che viveva a quattro zampe. A diciassette anni, quando è stata scoperta, i suoi tutori l’hanno violentata. Si è parlato molto meno di questa bambina tra i fatti di cronaca, poiché era di origine non nobile e – penso – poiché non si trattava di un uomo. Faccio di kaspar un amico di questa bambina “dimenticata dagli archivi”, di cui non si è parlato, e che resta senza poesie. 

Tornando sempre a « Marcia 1 », kaspar afferma: “Ho costruit con i tutori i miei primi ricordi, ne ho / fatt un album, fabbricato mio malgrado / una crcronologia”. Lei crede che la cronologia e il tempo siano importanti in poesia? O può esistere una poesia fuori dal tempo?

La domanda è appassionante, e al tempo stesso molto complessa. Proprio come il tempo! Risponderò quindi nel modo più dettagliato possibile. Nel mio testo les corps caverneux, scrivo: “Nulla succede fuori dal tempo, fuori dal suono del tempo nulla succede”. Questo mi pare risponda già in parte alla domanda. Ogni testo poetico, ogni poesia abita il tempo differentemente. Kaspar è un testo poetico che si sviluppa nel tempo, e la progressione è organizzata in sequenze (“Casa 1”, “Casa 2”, “Via 1”, “Marcia 1” etc.). Tali sequenze sono costruite come piccoli spazi-tempo, delle bolle in cui abitare. Tutto si ascrive al tempo. Ogni azione, ogni frase. Dare al lettore il tempo – che va percepito in tutta la sua complessità – è una delle sfide della scrittura. Della scrittura poetica, particolarmente. Rinunciando a certi aspetti narrativi, non si rinuncia però a sviluppare la percezione del tempo; è anche la ragione per la quale scrivo libri poetici che si svolgono al di là della pagina. Questo permette di sviluppare il rapporto al tempo, e di complicarlo.

La cronologia di kaspar di pietra diventa quasi un rumore di predazione, ragion per cui scrivo “crcronologia”. Si tratta di una critica indirizzata ad una certa temporalità e ad un certo rapporto al tempo moderno, ossia il tempo della cronologia e dunque lineare – così pericoloso, dal momento che rappresenta una temporalità fittizia. Mi piacciono in modo particolare i film di Werner Herzog, poiché riesce a contrapporre il tempo circolare del sogno (e delle società non industrializzate) al tempo lineare dell’Occidente razionalista. La poesia aiuta a sentire il tempo diversamente, e permette di non rimanere succubi dei calendari. La poesia può sviluppare altri spazi-tempo, che permettono di proteggerci, e di prendere atto in modo diverso degli attacchi esterni, di manifestare nuovamente la coscienza di altre temporalità rimosse dalla nostra società. Veniamo spinti a semplificare il nostro rapporto al tempo, ad andare veloci ed in modo lineare, senza darci modo d’immaginare un’altra società o altre vie d’uscita.

Semplificare ad oltranza il rapporto al tempo, significa negare la complessità dell’essere umano, soprattutto la sua capacità d’immaginare, e quindi la sua capacità di resistere al sistema consumistico. La poesia – come l’arte, in generale – può giocare un ruolo importante nel confrontare i lettori a spazi-tempo complessi: può restituire alle persone la loro complessità, facendo sì che ne prendano coscienza, e può anche aiutare a rendersi conto delle risorse insospettate di questa complessità, che passano per una lingua libera e refrattaria a tutte le costrizioni, come la lingua poetica.

Perciò, mi piace molto, in francese, il tempo futuro anteriore, in quanto esprime un’azione che sarà conclusa nel futuro prima di un’altra, anch’essa nel futuro. È un esercizio psichico importante, garanzia di libertà, immaginare una tale prospettiva al futuro anteriore. Perché spesso, la nostra libertà non è altro che un cambio dell’angolazione da cui osserviamo la vita, del nostro posizionamento rispetto agli altri. La poesia assume in questo senso anche una dimensione “futurativa”. Anche se baso i miei testi su fatti passati, credo che la poesia abbia il ruolo di Cassandra, di annunciare cioè futuro. Il mio progetto melusine reloaded è una distopia che si fonda su elementi della leggenda della fata medievale, e sviluppa degli aspetti “futuristi”, una società che ha degradato il proprio sistema sociale e ambientale. Destreggiarsi tra queste tensioni fra passato, presente e futuro: questa plasticità è una delle dimensioni politiche della poesia, anche se questa non sviluppa “temi” precisi, e mette piuttosto in presenza di tensioni.

 

 

 

L'autore

Amedeo Galbusera
Amedeo Galbusera si è laureato in Lingue e Letterature Straniere Moderne presso l’Università degli Studi di Bergamo con una tesi dal titolo “Bernard Noël: Le musicien du silence”, avente come relatore il poeta Fabio Scotto. Presso il medesimo ateneo frequenta attualmente il corso di laurea magistrale in Intercultural Studies in Languages and Literatures.

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