Interventi

Il senso ultimo del racconto: in memoria di Umberto Eco

Nei giorni dopo la scomparsa di Umberto Eco oltre a considerare quanto la morte è presente nella sua opera, sia come oggetto di riflessioni filosofiche sia come motivo nei romanzi, mi sono resa conto che questa tematica della morte si ricollega alla sua idea della narrativa come un gioco, in cui ogni mondo possibile ne apre al lettore altri possibili e altri ancora, in una serie di rinvii che allontana o differisce l’inevitabile momento della morte e che nel contempo punta oltre. Un po’ come chiosa Italo Calvino in Se una notte d’inverno un viaggiatore, romanzo che ha molte affinità con le idee narratologiche echiane: «Il senso ultimo a cui rimandano tutti i racconti ha due facce: la continuità della vita, l’inevitabilità della morte». Ricordo che il romanzo di Calvino fu pubblicato nel 1979, lo stesso anno di Lector in fabula di Eco, libro in gran parte dedicato alla questione dei mondi possibili nell’ambito della finzione narrativa, e che inoltre, come leggiamo nelle prime pagine di Sei passeggiate nei boschi narrativi, Calvino e Eco, negli anni Settanta, si erano occupati degli stessi problemi di semiologia e di narratologia.

Di affinità calviniana è anche il titolo di una relazione che Eco aveva tenuto a Fermo nel 1980: La combinatoria dei possibili e l’incombenza della morte, pubblicata nel 1981 negli atti del convegno e poi come saggio nel volume Sugli specchi e altri saggi (1985). In questo saggio molto complesso, la vita individuale o universale viene concepita, in analogia con il gioco del poker, come un sistema di sistemi o un branch system che apre la strada per diverse combinazioni di «possibili». È un sistema di ramificazioni paragonabile a un insieme rizomatico, come illustrato già nel Trattato di semiotica generale, 1975, tramite il Modello Q (ossia il modello di «Semantic Memory» secondo Ross M. Quillian). In pubblicazioni seguenti sarà descritto nei termini di labirinto, di rizoma, di rete enciclopedica, sistema in cui i nodi aprono diversi possibili percorsi, come nei racconti labirintici di Borges o di Calvino. La teoria dei «possibili» si congiunge con quella dei controfattuali studiata dalla semantica strutturale (è il caso di controfattuali espressi in frasi al congiuntivo e al condizionale come ad esempio: «Se io non fossi ora qui a Fermo qualcun altro parlerebbe in vece mia» (p. 202)), con la logica modale, con sostenitori di una concezione realistica di mondi «alternativi» e con certi autori di fantascienza. A queste visioni «ontologiche» Eco contrappone una visione «epistemica» dei mondi controfattuali, visione secondo la quale i «mondi possibili» sono «costrutti linguistici (o semiotici in generale)» che «riflettono atteggiamenti proposizionali (credere, volere, desiderare, sognare)» (p. 208). Il controfattuale, infatti, «può essere pensato, a patto di restrizioni di tipo narrativo, ovvero letterario, nell’ordine (diciamo per metafora) del desiderio. E in questo ordine il controfattuale ha a che vedere in letteratura col romanzesco e in filosofia con l’utopico». Mentre nella realtà fattuale non si può tornare indietro per cancellare ciò che è stato, ciò è possibile nei prodotti artistici e filosofici. Si può soddisfare la «passione inutile per la regressione e per la cancellazione del già accaduto solo nella contemplazione dei prodotti dell’arte e della filosofia», il che «non è poco», anche se dà luogo alla domanda: «C’è di più?» (p. 209).

Come risposta Eco rimanda a un passo delle Città invisibili di Calvino, un libro che immagina l’utopia e che come base strutturale ha l’Utopia di Thomas More. Secondo Eco, il mondo possibile, anche se può essere fantastico, utopico o controfattuale, non nasce come un’entità distaccata dalla realtà che lo ha fatto nascere, ma è parte reale di questa stessa realtà. Nella città di Fedora, una delle «città del desiderio», gli abitanti hanno immaginato altre Fedore, piccoli modelli azzurri che il viaggiatore può vedere nelle sfere di vetro che si trovano nelle diverse stanze del palazzo. Come le piccole Fedore nelle sfere di vetro così anche i «mondi possibili come costrutti epistemici sono reali in quanto sono incassati, non solo sintatticamente, nel mondo reale che li produce. Utopia è innanzitutto reale perché esiste nel mondo reale un Thomas More che produce Utopia. I possibili non sono paralleli, sono proposizionalmente uno dentro l’altro, e ciascuno partecipa un poco della realtà del proprio contenitore» (pp. 209-210). Secondo Eco le due città, quella visitata da Marco Polo e quella vagheggiata dagli abitanti di Fedora pur non essedo «egualmente reali», sono tuttavia ugualmente «presunte». Come dice Calvino, citato da Eco, «l’una racchiude ciò che è accettato come necessario mentre non lo è ancora; le altre ciò che è immaginato come possibile e un minuto dopo non lo è più». Per Eco ciò lascia pensare «che la Fedora attuale non sia poi così necessaria, e che quindi possa essere cambiata». Dando per scontata l’irreversibilità del tempo, Eco afferma per concludere: «Non si torna nel tempo a cambiare la possibilità che si è verificata: ma contemplando il controfattuale nel quale si è verificato il suo contrario, a mo’ di ripresa, saltando indietro per gioco, si balza in avanti per davvero, alla ricerca di una terza possibilità non ancora data, ma la cui possibilità è stata rivelata dal gioco della combinatoria, nostalgica dei possibili» (p. 210).

Sembra che questa terza possibilità racchiudi una prospettiva utopica, una speranza di rendere il desiderato salto in avanti in qualche modo attualizzabile, anche se «nel frattempo accade di morire», il che da Eco, nel contesto della relazione, viene visto come nient’altro che «un incidente tecnico che non tocca la purezza e la funzionalità di questo gioco sociale e culturale» (p. 210). Ci si potrebbe domandare fino a che punto questo gioco («alla ricerca di una terza possibilità non ancora data») funzioni nella narrativa di Eco, ossia se i suoi romanzi aprano delle prospettive su «possibili» diversi da quelli che si sono verificati non solo nella vita dei protagonisti, ma anche in quella dei lettori. Un esempio citato da Eco nell’ambito del gioco o del branch system mi sembra illuminante. Si tratta della morte, sotto tortura, di Zenone, come raccontata da Diogene Laerzio: «Zenone finge di confessare al tiranno il nome dei propri complici, e dice invece i nomi di tutti gli amici del tiranno» (p. 198). Sceglie così «di accettare la morte, ma di giocarla cambiando gioco, rovesciando tutte le possibilità future del tiranno e dello Stato, così che la sua morte diventa la realizzazione di una possibilità inedita e ricchissima di senso, operativa anche dopo la scomparsa di Zenone» (p. 199).

Nei romanzi di Eco (da Il nome della rosa a Numero zero) non si presentano situazioni del genere (a prescindere forse dal Pendolo di Foucault). Colpisce comunque il fatto che su tutti i protagonisti incombe la morte e non solo: molti di loro non arrivano alla fine del libro. Nell’ultimo folio di Adso in Il nome della rosa si legge che Guglielmo, una ventina d’anni dopo l’incendio della biblioteca, è stato falciato dalla peste, mentre Adso, ormai ottantenne, vede avvicinarsi le tenebre della morte. Nel Pendolo di Foucault, i tre protagonisti, Belbo, Casaubon, Diotallevi, diventano (ognuno a modo suo) vittime della rete di finzioni e di falsi che si sono tessuti intorno. Nell’ultimo capitolo dell’Isola del giorno prima, l’anonimo narratore prende congedo dal protagonista Roberto della Griva, che viene trascinato via dalla corrente che dall’Isola, lungo il 180° meridiano, porta verso nord. Nel penultimo capitolo di Baudolino, Niceta Coniate, lo storico bizantino a cui Baudolino ha raccontato le sue avventure, vede scomparire all’orizzonte il protagonista per un viaggio senza ritorno, «dritto dritto verso il regno di Prete Giovanni» (p. 524), per cui l’ultimo capitolo avrà il titolo: «Baudolino non c’è più». Giambattista Bodoni, il protagonista di La misteriosa fiamma della regina Loana muore nell’ultima pagina del libro, dopo essere stato colpito per ben due volte da un ictus cerebrale. In Il cimitero di Praga, il protagonista Simone Simonini sarà vittima dell’esplosione di un ordigno innescato da lui stesso nei corridoi sotterranei della futura metro di Parigi. E infine in Numero zero, il delirante Braggadocio viene ucciso da chi ha creduto nelle sue fantasticherie, mentre Claudio Colonna, il protagonista e narratore, temendo per la propria vita, fa ricorso all’atto narrativo: «La paura di morire dà fiato ai ricordi» (p. 19).

Tutti i personaggi menzionati sono creatori o costruttori di mondi possibili, mondi «doxastici» (secondo quanto immaginato, sognato, creduto, previsto, affermato, temuto o desiderato da loro) che s’inseriscono nel mondo possibile della finzione creato o costruito dall’autore, un mondo finzionale (realistico o romanzesco che sia) che per i personaggi è sempre il loro mondo di riferimento ‘reale’. I rapporti svariati tra i mondi doxastici e i mondi ‘reali’ della finzione sono paralleli a quelli che intercorrono tra il mondo della finzione e il nostro mondo storico reale. In entrambi i casi ci sono spesso, come viene sottolineato in Lector in fabula, dei rapporti d’identità: un mondo possibile e il suo mondo di riferimento hanno in comune delle proprietà «essenziali», distinguendosi l’uno dall’altro solamente per alcune proprietà «accidentali» (è il caso del romanzo storico). Se nel mondo possibile invece ci sono proprietà essenziali che non esistono o che non sono state mai registrate dall’enciclopedia nel mondo di riferimento (come ad esempio in un romanzo d’avventura), vi è solo rapporto di «accessibilità». Infatti, anche se nel mondo possibile della finzione ci si può trovare di fronte a personaggi non identificabili secondo l’enciclopedia vigente nel nostro mondo o con esseri più o meno fantastici, ciò non vuol dire che non possiamo immaginare o concepire l’esistenza di tali individui o accedere al mondo fantastico in cui agiscono. Perciò il mondo possibile della finzione è accessibile al mondo di riferimento, mentre il caso opposto non sarebbe possibile: partendo dal mondo di riferimento, posso concepire il mondo possibile, ma non viceversa. Come esempio inconfutabile di questa «irreversibilità», Eco cita la storia di Athos nei Tre moschettieri: «Athos […] non può concepire un mondo alternativo in cui esiste una variante potenziale di se stesso che non ha sposato Anne [Anne de Breuil, ossia Milady], perché egli dipende, per la sua definizione narrativa, proprio da quel matrimonio», il che però non gli impedisce d’immaginare o desiderare un mondo in cui fosse stato libero, un mondo in cui non avesse sposato «quella sciagurata» (p. 167). Athos può sognare un mondo ‘altro’, ma non potrebbe mai (a posteriori) correggere o assestare il proprio mondo ‘reale’. Eco cita, come esempio di un caso di dimensioni tragiche, Edipo re, in cui all’impossibilità di correggere ciò che è stato, si aggiunge l’incompatibilità, ossia un’ inaccessibilità reciproca, tra due mondi, quello ‘reale’ costruito da Sofocle e quello ‘falso’ immaginato da Edipo. Quest’ultimo infatti vive nell’illusione che «ci siano in gioco quattro individui: Edipo (e) che ha ucciso un giorno un viandante sconosciuto (v), Laio (l) e uno sconosciuto assassino (a) che lo ha ucciso», mentre esistono ‘in verità’ «solo due personaggi, Edipo e Laio, perché sia l’ignoto assassino sia l’ignoto viandante s’identificano rispettivamente con Edipo e con Laio. La scoperta sconvolgente della discrepanza tra realtà e ‘falso’, tra il mondo possibile ‘reale’ e il mondo doxastico, è per Edipo una buona ragione per accecarsi: «In effetti la storia di questi mondi incompatibili ci appare come la storia di una “cecità” anticipata. Come era possibile essere così cieco da non avvedersi di quanto il mondo delle proprie credenze fosse inaccessibile al mondo della realtà?» (p. 171) (si veda anche I limiti dell’interpretazione, p. 203). Alcuni personaggi romanzeschi di Eco saranno vittime, a mio avviso, di una simile incompatibilità tra mondi, oltre che dell’impossibilità di tornare indietro per correggere o assestare il proprio passato. È il caso di Belbo e di Baudolino. Vedremo in seguito se per questi personaggi esiste una sorta di «terza possibilità non ancora data», ossia se i «possibili» immaginati e costruiti da loro possono contenere qualche prospettiva di riscatto.

Nel Pendolo di Foucault (1988), i protagonisti, tre amici impiegati in una casa editrice milanese, inventano per gioco e per passatempo una nuova versione della Storia, basandosi su combinazioni inedite di fatti storici più o meno frammentari che, grazie all’inserimento in nuovi contesti, cambiano significato. In questo processo di semiosi interpretativa, la combinatoria di possibili già registrati dall’enciclopedia storica genera altri possibili, che nel loro insieme costituiscono una gigantesca falsificazione della Storia. Con questa loro nuova versione della Storia, il cosiddetto Piano, i tre amici intendono parodiare la frenetica ricerca da parte di un gruppo di occultisti, da loro chiamati i «diabolici», di un misterioso «piano» o «Segreto» che alcuni Templari, sopravvissuti alla disfatta del loro ordine nel 1314, avrebbero tramandato a certi gruppi neo-templari del Novecento. Uno degli esiti del Piano è che il presunto Segreto sarebbe un riferimento al misterioso Umbilicus Mundi, che potrebbe essere indicato dalle oscillazioni del Pendolo inventato nel Settecento dal fisico Léon Foucault e ora esposto nel Conservatoire des Arts et Métiers a Parigi. Inizialmente, per i tre amici, la costruzione del Piano non è che un divertente gioco semiotico, un modo di contrapporsi alla paranoia interpretativa dei diabolici. In contrasto con questi ultimi, per i tre amici non si tratta di rivelare o scoprire un determinato Piano che avrebbe determinato lo svolgersi della Storia, ma di inventarlo. Vengono però mano a mano tanto presi dal gioco, da dimenticare che stanno giocando, per cui cadranno quasi nella stessa «sindrome del sospetto» dei diabolici. Come questi ultimi, anche loro incominciano a trascurare le differenze fra i singoli dati storici e a fissarsi su analogie e coincidenze casuali, «perché a voler trovare connessioni se ne trovano sempre, dappertutto e tra tutto, il mondo esplode in una rete, in un vortice di parentele e tutto rimanda a tutto, tutto spiega tutto» (p.365). Jacobo Belbo, dimentico del fatto che stanno «costruendo un falso», si immedesima sempre di più, «come un diabolico qualsiasi, nella Grande Storia che stava stravolgendo» (p. 322). È il più ossessionato dei tre. Durante tutta la sua vita, è stato in cerca dell’«Assoluto”, di una sorte di «Polo Mistico», che ora crede di trovare nel Segreto dei Templari. Capisce troppo tardi in che «vortice di falsità» si sta perdendo, un vortice in cui il falso diventa la causa ‘vera’ del pericolo che incombe su di lui. Come dice Casaubon, che è anche il narratore: «noi abbiamo inventato un Piano inesistente ed Essi non solo lo hanno preso per buono, ma si sono convinti di esserci dentro da tempo […]. Ma se inventando un piano gli altri lo realizzano, il Piano è come se ci fosse, anzi, ormai c’è» (p. 490). Dopo aver quasi compiuto la costruzione del Piano, i tre protagonisti si accorgono di aver prodotto un falso che i loro nemici scambiano per la realtà. Convinti che Belbo sia in possesso della mappa per individuare l’Umbilicus Mundi, i diabolici lo invitano a recarsi a Parigi per un appuntamento nella notte di San Giovanni nel Conservatoire des Arts et Métiers. Contrariamente a quanto loro si aspettano, Belbo non si arrende. Con la corda del Pendolo al collo, minacciato di morte, se non parla («”Ora tu parlerai”, disse Agliè, “parlerai, e non rimarrai fuori da questo grande gioco. Tacendo, sei perduto”»), ma lui tace (p. 471). Invincibile, pronuncia solo un insulto in dialetto piemontese che equivale a quel «No» che è anche il password richiesto dal suo computer Abulafia.

Come Zenone, così anche Belbo sceglie in extremis di cambiare gioco, di non stare più al gioco imposto dai suoi nemici. Il suo «No» significa la negazione e la denuncia sia delle pazzie esaltate degli occultisti che della propria ossessione del Pendolo, che per lui era il simbolo, la figura, di una visione cosmica secondo la quale tutto rimanda a tutto e contemporaneamente a un unico «Punto Fermo» che domina l’universo. La conseguenza di questa scelta, che è anche una sorte di «terza possibilità», viene espressa da Casaubon, testimone della scena allucinatoria nel Conservatoire, che descrive come Belbo, dopo aver oscillato al di sotto del Pendolo, disegnando nel vuoto la figura dell’albero dei sefirot, diventa lui stesso, dopo essere «sfuggito all’errore del mondo e dei suoi moti, […] il punto di sospensione, il Perno Fisso, il Luogo a cui si sostiene la volta del mondo» (p. 473), il che vuol dire che al di fuori dell’uomo e della sua ragione non esiste nessun «Perno Fisso». Arrivato nella casa di campagna in Piemonte, dove legge i files e diari di Belbo, e riflettendo sull’accaduto, Casaubon conclude che l’amico ha detto “no” al non senso e scelto il ragionevole:

Avrebbe potuto inventare una mappa qualsiasi, citare una di quelle che gli avevo mostrato, tanto, col Pendolo appeso a quel modo, quella banda di forsennati l’Umbilicus Mundi non l’avrebbe mai identificato, e se pure l’avesse, avrebbero perso altri decenni a capire che non era quello. Invece no, non ha voluto piegarsi, ha preferito morire.

Non è che non abbia voluto piegarsi alla foia del potere, non ha voluto piegarsi al non senso. E questo vuol dire che egli in qualche modo sapeva che, per fragile che l’essere sia, per infinita e senza scopo che sia la nostra interrogazione del mondo, c’è qualcosa che ha più senso del resto (pp. 493-494).

Casaubon ha la sensazione che gli manchi ancora qualcosa per capire questa scelta di Belbo. Sfogliando le carte delle memorie dell’amico, trova un quaderno, in cui Belbo evoca un episodio della sua infanzia, il giorno in cui, ai funerali di alcuni partigiani, aveva l’occasione di suonare la tromba e che, suonando una lunghissima nota finale, gli era sembrato di toccare il sole. Si era congiunto, così commenta Casaubon, «con l’unico Punto Fermo che l’universo avesse mai avuto: con quello che egli faceva essere, per quell’istante solo, col suo soffio» (p. 501). Per cui, come continua Casaubon, «la verità è brevissima (dopo, è solo commento)» (ibid.). Nell’ultimo capitolo del romanzo (intitolato «Malkut» ossia «il Regno della Terra»), Casaubon proclama la stessa idea di una ‘verità’ che non si colloca nei grandi sistemi o racconti globalizzanti, ma nei piccoli fuggevoli frammenti di terrena realtà con cui, attimo dopo attimo, saranno confrontati gli esseri umani. In termini semiotici si tratta di un passaggio dalla semiosi ermetica, procedimento interpretativo caratteristico dei diabolici e adottato (anche se a volte per gioco) dai tre protagonisti, alla semiosi secondo la teoria peirceana. La ragionevolezza conquistata da Causabon racchiude, anche se troppo tardi, la sua «terza possibilità», possibilità forse di riscatto: «Ora so qual è la Legge del Regno, del povero, disperato, smandrappato Malkut in cui si è esiliata la Saggezza, andando a tastoni per ritrovare la propria lucidità perduta. La verità di Malkut, l’unica verità che brilla nella notte dei sefirot, è che la Saggezza si scopre nuda in Malkut, e scopre che il proprio mistero sta nel non essere, se non per un momento, che è l’ultimo», affermazione in cui risuonano le già citate parole calviniane («l’una racchiude ciò che è accettato come necessario mentre non lo è ancora; le altre ciò che è immaginato come possibile e un minuto dopo non lo è più»).

Si è accennato sopra che Belbo (come anche in parte gli altri due protagonisti del Pendolo di Foucault) si trova in una situazione paragonabile a quella di Edipo. Come Edipo, che era stato così cieco da non rendersi conto della discrepanza tra il mondo in cui s’immagina di vivere e il mondo in cui ‘realmente’ vive e è vissuto, così anche Belbo sta confondendo immaginazione e realtà, «smarrendo quel lume intellettuale che ci fa sempre distinguere il simile dall’identico, la metafora dalle cose» (p. 367), per cui non è neanche in grado di prevedere sino a che punto gli sarà fatale la pretesa dei diabolici che il Segreto, inventato per dare un senso al Piano, sia vero.

Il paragone con il destino di Edipo vale anche per il protagonista di Baudolino (2000). Ritornando nell’aprile del 1204, durante la quarta crociata, dal suo lungo viaggio nei paesi fantastici dell’Oriente, Baudolino si ferma a Costantinopoli, dove fa conoscenza con lo storico bizantino Niceta Coniate, a cui, mentre la città è in fiamme, racconta le sue avventure, fra le quali l’invenzione della famosa lettera del leggendario Prete Gianni e la storia della morte del suo amato padre adottivo, l’imperatore Federico Barbarossa. Le circostanze di questa morte, avvenuta durante la terza crociata, sono abbastanza oscure. Secondo la tradizione storiografica, Federico morì annegato nel fiume Göksu in Cilicia, nel sudest della Turchia, forse perché, attraversando il fiume, fu disarcionato dal suo cavallo, forse perché si era immerso nel fiume per rinfrescarsi nelle sue acque. La storia raccontata da Baudolino è diversa (pur essendo il risultato lo stesso di come raccontato nella versione storiografica): Federico morì per avvelenamento o per asfissia, durante il pernottamento in un castello di proprietà del signore armeno Ardzrouni, cultore di scienze magiche, a poca distanza dal fiume. Il giorno dopo, Baudolino e i suoi amici, sentendosi colpevoli per non aver protetto meglio l’imperatore contro potenziali attentatori e desiderandogli una fine più gloriosa, portano il cadavere al fiume per fingere la morte per annegamento. È il vecchio Pafnuzio che, alla fine del romanzo, cieco ma chiaroveggente come Tiresia in Edipo re, rivela la verità: Federico non era morto; aveva aspirato i vapori di un «cattivo carbone» che qualcuno aveva messo nel camino della sua camera e, perduti i sensi, era caduto a terra, ma «agli occhi di chi dopo» lo ritrova, sembrava morto; anche «il medico più esperto» avrebbe creduto «di vedere un cadavere» (p. 515). Secondo Baudolino inoltre, quando Federico era stato ritrovato, «era gonfio» e sentenzia Pafnuzio: «Un morto non si gonfia stando sott’acqua. Accade solo a un vivo che sott’acqua muore» (ibidem). Ora per Baudolino tutto è tremendamente chiaro: lui stesso ha fatto annegare il suo carissimo padre adottivo, mentre era ancora vivo e avrebbe potuto salvarlo. Scoprendo la discrepanza tra realtà e ‘falso’, tra il mondo ‘reale’ e il mondo doxastico, Baudolino si rende conto che tutto ciò che era accaduto dopo la morte di Federico, i quattordici anni di viaggio nel lontano Oriente alla ricerca del Regno del Prete Gianni, viaggio già di per sé pieno di ‘falsi’ e di contraffazioni, era iniziato con una bugia. Nella sua disperazione, prende posto in cima a una colonna per un anno di espiazione. Sceso dalla colonna, decide di ritornare in Oriente, non per ripetere il viaggio già fatto, ma per rifarlo senza illusioni, perché stando sulla colonna aveva «capito molte cose» (p. 523). Per essere perdonato vuole pagare tre debiti, il primo e il terzo di ordine umano: il primo l’erigere una cappella nel posto dove era morto ed era stato seppellito l’amico Abdul, il terzo il ritrovare Ipazia, la donna-capra amata, e il loro figlio o figlia, «e proteggerli come [suo] dovere» (ibidem); il secondo debito è dell’ordine dell’utopia e dell’umano: arrivare al regno del Prete Giovanni perché aveva «fatto una sacra promessa al [suo] buon padre Federico, per non dire del vescovo Ottone». All’obiezione da parte di Niceta che quel regno non esiste: «”Ma avete toccato con mano che non c’è!”», risponde: «”Abbiamo toccato con mano che non ci siamo arrivati. È diverso”» (ibidem). E insiste sulla sua idea che quel regno non possa essere una menzogna: «”non poteva mentire il vescovo Ottone, e la voce della tradizione, che vuole il Prete da qualche parte» (ibidem). Nel suo ultimo viaggio Baudolino si dirige verso l’Utopia, nella speranza di raggiungere il regno, speranza presumibilmente vana, perché ormai è vecchio e per ritornare in quei luoghi «ci vorranno anni e anni» (p. 524). Dopo di che, siccome «Baudolino non c’è più», ci sarebbe da raccontare la sua storia. Su consiglio di Panufzio, Niceta decide di cancellare Baudolino dalla «grande Istoria» che sta scrivendo (p. 525), per evitare che nel futuro altri «forsennati» si mettano «a vagare senza sosta, per secoli e secoli» (ibidem) in cerca del regno. Ma per fortuna, prima o poi, ci sarà qualcun’altro, qualcuno «più bugiardo di Baudolino» (p. 526), ossia l’autore, a raccontarne la storia. È quello stesso autore che, nel saggio La forza del falso (2002), vede in questi forsennati viaggiatori delle forze positive che hanno influito sulla Storia e in particolare sull’espansione dell’Occidente verso l’Oriente.

La «terza possibilità» di Baudolino, implicita nella sua morte in un al di là della fine del romanzo, viene infatti resa esplicita in un brano di La forza del falso, in cui Eco fa presente che la lettera del Prete Gianni, pur essendo un ‘falso’, ha avuto un ruolo decisivo nell’apertura dell’Occidente verso l’Oriente: «Attraverso il fantasticare geografico si è via via rafforzato un progetto politico. In altre parole, il fantasma evocato da qualche scriba in vena di falsificazioni (genere letterario stimabilissimo all’epoca), ha agito come alibi per l’espansione del mondo cristiano verso Africa e Asia, amichevole sostegno del fardello dell’uomo bianco» (p. 305). In Baudolino, il primo a parlare di un lontanissimo regno, governato da un leggendario Prete Gianni, un regno situato in un oriente impreciso, è il vescovo Ottone di Frisinga, il maestro del giovanissimo protagonista. Ma è Baudolino che, da studente a Ratisbona e a Parigi, scrive la primissima versione della lettera del Prete, un ‘falso’ o apocrifo che, anche se costruito all’interno del mondo possibile della finzione, sarà alla base di testi realmente esistenti, testi che hanno ispirato e legittimato numerosi viaggi di espansione e esplorazione. Non è perciò solo all’interno del romanzo, ma anche al di fuori di esso, che la finzione influisce sui fatti storici e sullo svolgersi della Storia. Per cui la «terza possibilità» di Baudolino, realizzandosi in una sorta di zona franca tra finzione e Storia, avrebbe delle ripercussioni che oltrepassano le strette condizioni storiche del suo tempo.

Purtroppo i risultati storici dell’invenzione di ‘falsi’ non sono sempre così positivi. I mondi possibili possono essere falsi storici, come è in gran parte il Piano nel Pendolo di Foucault, o documenti falsi che, come viene illustrato in Il cimitero di Praga (2010), hanno avuto degli effetti negativi, disastrosi, sulla realtà storica. Nel Cimitero di Praga, Eco elabora un fatto storico a cui aveva fatto riferimento nel Pendolo di Foucault e trattato più per esteso in La forza del falso: la storia del prodursi, nel corso dell’Ottocento, dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion, documento falso che fatalmente venne preso sul serio dai nazisti. Come in Baudolino, anche nel romanzo più recente, i fatti storici sono determinati dal genio inventivo del protagonista, con la differenza però che Baudolino agisce per il bene, per affetto o amore, mentre Simonini agisce per il male, per interesse e per odio. Baudolino lascia aperta la prospettiva di una «terza possibilità», esclusa nel caso di Simonini che è incapace di pentirsi dei propri misfatti e non ha neanche il desiderio di correggere ciò che è stato o di aspirare ad altro. L’unica «terza possibilità» possibile comporterebbe lo smascheramento del ‘falso”, la denuncia di una delle più gravi falsificazioni antisemite, di cui è colpevole la Storia. Per Eco infatti era urgente raccontare ancora una volta questa storia, su cui non si è mai sufficientemente indagato, non più come parte di un saggio, ma come romanzo, perché spera, come sottolinea in una conversazione con Claudio Magris («Corriere della sera» del 29 novembre, 2010), che un romanzo sia più persuasivo di un saggio e potrebbe forse avere qualche influsso su coloro che continuano a prendere i falsi Protocolli sul serio e in tal modo incidere positivamente sulla Storia. Questo sarebbe il «senso ultimo» del romanzo, per cui «si balza in avanti per davvero».

Bibliografia:
1975: Trattato di semiotica generale, Milano, Bompiani.
1979: Lector in fabula, Milano, Bompiani.
1985: Sugli specchi e altri saggi, Milano, Bompiani.
1988: Il pendolo di Foucault, Milano, Bompiani.
1990: I limiti dell’interpretazione, Milano, Bompiani.
1994: Sei passeggiate nei boschi narrativi, Milano, Bompiani.
2000: Baudolino, Milano, Bompiani.
2002: Sulla letteratura, Milano, Bompiani.
2010: Il cimitero di Praga, Milano, Bompiani.
2015: Numero zero, Milano, Bompiani.

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L'autore

Ulla Musarra Schroeder
Ulla Musarra-Schroder ha insegnato scienze letterarie all'Università di Nimega (Olanda), e all'Università di Lovanio (Belgio). Si è specializzata soprattutto in teoria della letteratura e narrativa moderna e contemporanea. Ha partecipato come relatrice a molti congressi e ha pubblicato numerosi articoli su scrittori scandinavi, francesi, italiani (Italo Svevo, Luigi Pirandello, Italo Calvino, Umberto Eco, Claudio Magris, tra gli altri). I suoi libri più importanti sono: Le roman-mémoire moderne. Pour une typologie du récit à la première personne, Holland University Press, Amsterdam 1981; Narciso e lo specchio. Il romanzo in prima persona, Bulzoni, Roma 1989; Il labirinto e la rete. Percorsi moderni e postmoderni nell'opera di Italo Calvino, Bulzoni, Roma 1996; Italo Calvino fra i cinque sensi, Franco Cesati Editore, Firenze 2010. Ha collaborato recentemente a vari volumi di saggi sull'opera di Umberto Eco.