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L’epoca dell’ubiquità. Ilaria Tamburro dialoga con Antonello Tolve

 

Nel mese di gennaio è uscita l’ultima fatica di Antonello Tolve, La linea socratica dell’arte contemporanea. Antropologia Pedagogia Creatività, Macerata, Quodlibet, 2016. Abbiamo chiesto all’autore, critico e curatore, di parlarci del volume appena uscito.


Come nasce la riflessione sull’aspetto socratico dell’arte contemporanea, qual è l’urgenza che ti ha spinto a delineare questo percorso?

La riflessione è esito di alcune considerazioni del 2015 affrontate nell’ambito del corso di Pedagogia e didattica dell’arte di cui sono titolare all’Accademia di Belle Arti di Macerata. Durante e in seguito quelle prime considerazioni ho pensato di disegnare un percorso, uno dei tanti possibili, sull’ambiente socratico dell’arte contemporanea e – questa l’urgenza – sui collassi allarmanti della piattaforma scolastica attuale.

La linea socratica dell’arte contemporanea sembra parafrasare il titolo di un celebre testo di Filiberto Menna del 1975 (La linea analitica dell’arte moderna. Le figure e le icone), quanto c’è della lezione menniana e della critica militante di quegli stessi anni nella tua ultima riflessione?

La linea analitica di Filiberto Menna è stato e continua ad essere per me un libro fondamentale e socratico in sé, come fondamentale e socratica è l’intera riflessione di Filiberto Menna che è stato il maestro del mio maestro. Certo l’idea di utilizzare un titolo che richiamasse nell’immediato al libro di Menna è da intendersi come un riconoscimento e come un elogio intellettuale, tuttavia, più che ‘parafrasare’ quella linea, ho inteso modellare la direzione di un atteggiamento pedagogico e andragogico centrale, mi pare, non solo nell’arte di oggi, ma anche in quella di ieri e in quella di domani.

Che ruolo ha la critica nel discorso socratico dell’arte?

Il libro si divide orientativamente in tre stanze. Nella seconda che ho intitolato Intervallo critico per richiamare alla memoria L’arte e l’abitare (2001) di Angelo Trimarco, uno dei teorici più brillanti del secondo Novecento, è dedicato a tre figure che reputo fondamentali – Achille Bonito Oliva, Gillo Dorfles e Trimarco – e rappresentative del panorama critico: di un panorama che non si ferma soltanto all’analisi dell’opera d’arte, ma schiude un programma riflessivo su tutti i vari sentieri della creatività e della stessa umanità.

Nel testo includi diversi esempi relativi all’arte di insegnare con l’arte, sottolineando l’aspetto pedagogico di alcune ricerche artistiche. Fanno parte di quest’analisi nomi storici come Joseph Beuys, Piero Gilardi, Michelangelo Pistoletto e Marina Abramovic ma anche artisti più giovani come Giuseppe Stampone, Monica Alonso, Pedro Reyes e Rosy Rox, si tratta di due generazioni a confronto? Qual’ è lo scarto tra le due?

Non si tratta, in verità, di due generazioni a confronto. Piuttosto di una passeggiata, di un tragitto le cui stazioni, per me fondamentali, permettono – almeno nel mio viaggio – di individuare gli atteggiamenti socratici di alcuni artisti che trasformano l’arte in spazio educativo, di altri che partono dall’educazione per trasformarla in opera e di altri, ancora, che vivono l’arte e l’educazione all’arte come un unicum. In questa sezione del libro, quasi un’applicazione teorica, ho provato, nei titoli, a giocare con il lettore (a trovare una sorta di dialogo mancato). Leggendo attentamente i vari paragrafi dedicati agli artisti trattati è possibile, infatti, trovare richiami costanti À la recherche di Marcel Proust.

L’arte è giunta ad una nuova consapevolezza della sua funzione didattica?

La funzione didattica dell’arte è, da sempre, centrale nei procedimenti artistici. L’arte ha sempre cercato di educare alla consapevolezza o di istruire i popoli. L’intera iconografia cristiana è da intendersi, ad esempio, come un percorso di conoscenza per immagini, come la lettura visiva dei fatti narrati nell’antico e nuovo testamento.

Il testo si apre con un prologo sulle declinazioni dell’educazione planetaria e si conclude con un epilogo che dedichi ad un grande nome della Poesia Visiva, perché è proprio Tomaso Binga l”epilogo socratico’ di questo percorso?

A dire il vero Tomaso Binga è un’appendice verbovisiva, una zoomata su una grande figura che, tra l’altro non solo chiude il volume, ma lo apre perché sulla cover è presente l’immagine della lettera C del suo alfabetiere Pop del 1978. Binga (nome d’arte di Bianca Pucciarelli Menna) è importante perché, accanto al percorso sul dattilocodice, sulla scrittura desemantizzata, sulla estroflessione della parola e sulla sua foniconicità, ha costruito un intero scenario sull’alfabetiere, su un mondo che, come avvisa Benjamin, «[…] non dovrebbe intimorire i tanti bambini che, ogni anno, devono varcarla».

Il testo propone una nuova prospettiva per la lettura e la comprensione dell’arte contemporanea, resterà un unicum o avrà un seguito?

Naturalmente la riflessione porterà ad altri risultati. Ci sono molti artisti che, per spazio, non sono riuscito a far rientrare in questo volume. Penso, tra i tanti, a Bianco-Valente e al progetto A cielo aperto che portano avanti in Basilicata. In questo momento però sto lavorando anche ad altre tesi che si discostano un po’ da questo scenario e che sono legate al concetto di Atmosfera, di ecosofia.

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L'autore

Ilaria Tamburro
Ilaria Tamburro
Ilaria Tamburro, storicae critico d’arte indipendente. Laureata in Storia e Critica dell’Arte Contemporanea presso l’Università degli Studi di Salerno, si è poi specializzata in Storia dell’Arte Contemporanea presso la Scuola di Specializzazione dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Assegnista di due borse di ricerca presso il DISPAC (Dipartimento di Scienze del Patrimonio Culturale) dell’Università degli Studi di Salerno. Ha collaborato, come consulente esterno, con la Soprintendenza ai Beni Culturali di Salerno ed Avellino e con la Fondazione Filiberto Menna – Centro Studi di Arte Contemporanea di Salerno.Scrive regolarmente per diverse riviste del settore dell’arte.