scrivere nelle varie lingue d'Italia

Debora Vitali intervista Marco Scalabrino

Marco Scalabrino è nato nel 1952 a Trapani. Lo studio del dialetto siciliano, la poesia siciliana, la traduzione in Siciliano e in Italiano di autori stranieri contemporanei, la saggistica sono i suoi principali interessi culturali. Ha pubblicato alcune raccolte di poesia (la più recente è La casa viola, Edizioni del Calatino, 2010), parecchi saggi critici su poeti siciliani del ’900 e contemporanei (fra i più recenti Parleremo dell’arte che è più buona degli uomini, CFR Edizioni, 2013; Giovanni Meli. La vita e le opere, Edizioni Drepanum, 2015; Alessio Di Giovanni. La racina di sant’Antoni, Edizioni Drepanum, 2016). È stato componente della equipe regionale del progetto L.I.R.e.S. promosso dal Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca – Ufficio Scolastico Regionale per la Sicilia, per lo studio del dialetto siciliano nella Scuola. Si adopera per diffondere la lingua e la letteratura siciliana collaborando con periodici culturali, cartacei e in rete, nazionali e internazionali.

Nell’articolo Dialetto siciliano, cenni di etimologia e peculiarità lei riporta che in uno studio il Centro Ethnologue di Dallas ha affermato: «Il Siciliano è differente dall’Italiano standard in modo abbastanza sufficiente per essere considerato una lingua separata; è inoltre una lingua ancora molto utilizzata e si può parlare di parlanti bilingui». Come si pone in merito a questa affermazione? Si sente linguisticamente ed ideologicamente bilingue?

Mille grazie, intanto, per la graditissima attenzione. L’asserzione da lei richiamata, benché rispettabilissima, risale a qualche anno or sono e come tutto a questo mondo, almeno nella seconda parte: “una lingua ancora molto utilizzata e si può parlare di parlanti bilingui”, temo stia precocemente invecchiando. L’UNESCO e altri enti linguistici internazionali hanno pure riconosciuto il Siciliano quale lingua e tuttavia, per contro, vi si specifica: “in pericolo di estinzione”. Linguisticamente sì; nulla di ideologico.

Franco Loi afferma: «Quella lingua che noi chiamiamo dialetto ha un potere in più: ha il potere di attraversare l’anima di un individuo, di portare con sé l’esperienza ancestrale di un popolo». Cosa rappresenta per lei il Siciliano? Com’è nata l’idea di produrre e tradurre poesia e racconti in Siciliano?

La prima lingua che ho ascoltato, la prima lingua che ho imparato, la prima lingua con la quale ho interloquito con i miei simili è stata la parlata siciliana della mia città; la lingua d’‘a minna, come l’appellò il nostro illustre poeta ramacchese Vito Tartaro. È stato un atto naturale; nessuna strategia, nessuna forzatura è stata praticata. Non ho scelto io il dialetto siciliano; è lui che ha scelto me! L’italiano l’ho appreso dopo, a scuola; l’italiano si è sovrapposto al dialetto, si è imposto sul dialetto, si è sostituito al dialetto. Per lunghi anni è stato cosi. Poi (d’un tratto?) il dialetto – evidentemente mai del tutto piegato, mai del tutto sconfitto, mai del tutto sbaragliato ma solamente sopito, ingabbiato, proscritto – s’è presa la sua rivincita! S’è scrollato di dosso decenni di abbandono, di negazione, di rifiuto e, in tutta la sua bellezza, dovizia, duttilità, nel rigoglio delle sue nobili millenarie radici greche, latine, arabe … si è fatto, si è elevato, si è eletto, prepotentemente, a lingua della mia poesia. Mi viene giusto da considerare – anche in relazione alla precedente domanda – che sono in buona sostanza bilingue, ho adeguata competenza in entrambi i registri linguistici; perché mai, arrendendomi peraltro a una devastante sudditanza culturale in voga, dovrei rinunciare a uno di loro, a quello per giunta che più mi appartiene, a quello al quale più appartengo? D’altronde, sappiamo bene, la bontà di ciò che si dice/scrive non insiste per assioma sullo specifico codice di comunicazione che si adopera quanto sulla qualità intrinseca del pensiero che si esprime e sulla forma che tale pensiero assume. Quanto a me, per farla breve, scrivo in Siciliano perché il mio sentire è siciliano, i miei pensieri nascono in siciliano, il mio animo è profondamente, convintamente siciliano.

Siffatto dialetto, pertanto, non teme cimento. La mia attività di traduzione coincide con un’opera di promozione scaturita da una consapevole assunzione di responsabilità nell’implicito giudizio positivo di poeti senza limiti geografico-temporali e linguistici. Autori che si collocano dalla classicità, Orazio e Catullo, con uno smisurato balzo, ai nostri giorni, taluni addirittura viventi: Peter Thabit Jones, Iacyr A. Freitas e Jacques Thiers; autori di disparate regioni dell’Europa e delle Americhe: Peter Russell, George Bacovia, Nat Scammacca, Horacio Castillo; alcuni planetariamente noti: Wislawa Szymborska, Charles Bukowski, Edgar Lee Masters, fianco a fianco ad altri scarsamente conosciuti o pressoché sconosciuti in Italia: Duncan Glen, Paul Snoek, Robert Garioche Hugh Mac Diarmid. Tutti autori nondimeno di spessore, di valore, che trovano, tramite il mio tributo, una ribalta, una piccola finestra per affacciarsi ed entrare a far parte della cultura siciliana. Le mie traduzioni – preferisco però che le si appellino adattamenti – si propongono di restituire l’inconfutabile nobiltà, la straordinaria contemporaneità pure nella millenaria storia, l’innegabile capacità del dialetto siciliano di confrontarsi tuttora a testa alta, in tutta dignità, armonia, compiutezza, con ogni altra lingua, cultura, civiltà del nostro pianeta.

Il Siciliano benché tuttora vivo – tant’è che nel libro rosso dell’UNESCO relativo alle lingue del mondo in pericolo viene inserito nella categoria sesta ovvero in quella delle Lingue non in pericolo con una trasmissione sicura della lingua alle nuove generazioni – è un sistema linguistico che giorno dopo giorno va perdendo i pezzi? Qual è il rapporto e la posizione del dialetto siciliano rispetto alla scienza, alla tecnologia e alle contaminazioni linguistiche? E inoltre, se quella del Primo raduno di poesia siciliana svoltosi a Catania il 27 Ottobre 1945 può essere considerata la data di inizio del movimento rinnovatore della poesia dialettale siciliana, come si manifestò questo rinnovamento e che fase sta attraversando la lingua siciliana oggi?

S’è detto poc’anzi – anticipando quasi la sua domanda – come di recente quella valutazione sia stata riveduta. Non possiamo difatti, in proposito, non osservare che il Siciliano, benché tuttora vivo, sia comunque un linguaggio che giorno dopo giorno paga un prezzo salatissimo alla scienza, alla tecnologia, alle contaminazioni. Il mondo si va trasformando (nel volgere del Novecento in Sicilia si sono alternate le civiltà rurale-artigianale e quella finanziaria-industriale, entrambe a loro volta soppiantate dalla civiltà mediatico-globale); l’uomo per conseguenza cambia, nella quotidianità, nel costume, nella tensione ideale, e la lingua – che l’uno e l’altro, il mondo e l’uomo, Ludwig Wittgenstein docet, è chiamata a rappresentare – deve fare di continuo i conti col proprio ultra-millenario spendersi, col fronte magmatico dei tempi moderni, con l’arrembante tecnicizzazione e inglesizzazione, deve contemperare l’uomo nella sua evoluzione e deve adattarsi, attrezzarsi, espandersi giacché, ci ammonisce Ottavio Lurati: “La sua sopravvivenza è legata alla capacità di adeguarsi al mondo che evolve”.

Quanto al movimento rinnovatore della poesia dialettale siciliana, esso è un capitolo ampio e intrigante tanto da non potersi liquidare con poche sommarie battute. L’evento del 27 Ottobre 1945, quel Primo raduno di poesia siciliana, ne costituì la formalizzazione, ma i prodromi si erano manifestati sia lì, a Catania, che a Palermo. Nel capoluogo di regione un “primo nucleo di poeti che comprendeva le voci più impegnate dell’Isola”: Ugo Ammannato, Miano Conti, Paolo Messina, Nino Orsini, Pietro Tamburello, Gianni Varvaro, prese il nome del maestro ciancianese e si denominò Gruppo Alessio Di Giovanni. Il gruppo nondimeno non trattò come quegli delle voci del feudo né dei derelitti di solfara, non professò alcun francescanesimo, non si rifece al Verismo ormai posto in archivio, né si riconobbe nel Felibrismo del quale Di Giovanni, su designazione del premio Nobel Frédéric Mistral, fu “ambasciatore” in Sicilia. La guerra, con tutto il suo funesto bagaglio di rovine, aveva stravolto la realtà e con essa la letteratura e la poesia siciliane. Ecco allora l’esigenza di rifondare non solo la società civile ma altresì il linguaggio, di porsi in maniera nuova al cospetto di entrambi e la nascita, su queste basilari premesse, del movimento rinnovatore della poesia dialettale siciliana. Sul versante ionico nel frattempo, nella Catania del ’44, il gruppo di cui Salvatore Camilleri era l’animatore (Mario Biondi, Enzo D’Agata, Mario Gori e altri già appartenenti all’Unione Amici del Dialetto) si ribattezzò Trinacrismo, movimento i cui principi vennero illustrati in un articolo apparso su Il Manifesto di Bari nel Febbraio 1946. Alle due compagini si aggiungevano spesso: Ignazio Buttitta da Bagheria, Elvezio Petix da Casteldaccia, Antonino Cremona da Agrigento e da Catania Carmelo Molino e Salvatore Di Pietro. Denominatore comune di tutti loro fu l’impegno; un impegno che non ammetteva alcuna dipendenza politica, un impegno inteso come partecipazione anche “coi nostri atti di poesia alla costruzione di una società libera e giusta cosciente ormai di potere progredire solo nella pace e nella concordia fra i popoli”. La stagione del Rinnovamento della poesia dialettale siciliana si estese fra il 1945 e la seconda metà circa degli anni Cinquanta (per inciso, l’ultima manifestazione pubblica del Gruppo si svolse nell’anno 1958 presso il Circolo di Cultura di Palermo, diretto da Lucio Lombardo Radice, il quale promosse un incontro sulle correnti contemporanee della poesia siciliana). Oggi in Sicilia c’è parecchio fermento, ma è tutta un’altra storia; ben poco a che spartire con quella esperienza.

«Oggi la poesia dialettale – scrive Giovanni Vaccarella nella prefazione a Poesia dialettale di Sicilia – è poesia di cose e non di parole, è poesia universale e non regionalistica, è poesia di consistenza e non di evanescenza. […] Il lettore di questa poesia è pregato di credere che nei veri poeti l’oscurità non è speculazione, ma risultato di un processo di pene espressive, che porta con sé il segreto peso dello sforzo contro il facile, contro l’ovvio. Perché la poesia non è fatta soltanto di spontaneità e di immediatezza, ma di disciplina. La più autentica poesia dei nostri giorni è scritta in una lingua che parte dallo stato primordiale del dialetto per scrostarsi degli orpelli e della patina che i secoli hanno accomunato, per sletteralizzarsi e assumere quella condizione di nudità che è la sigla dei grandi». Cosa ne pensa in merito a questa affermazione?

Al tempo, il 1955, ineccepibile e valida tuttora per chi volesse farla sua. L’asserzione di Giovanni Vaccarella, del resto, rimanda a Charles Baudelaire, il quale già nel XIX secolo pose fine al concetto romantico della ispirazione intesa quale dono di Dio e sostenne che la cosiddetta spontaneità altro non è che la ricompensa dell’esercizio giornaliero.

Antonio Corsaro nella prefazione a Poeti siciliani d’oggi osserva che «i dialettali non sono mai stati estranei alle vicende della cultura nazionale, anche se, disuguale è il loro piano di risonanza». Cosa ne pensa?

Assolutamente vero! Aggiungerei che il Poeta, oggi più che mai, è cittadino del mondo. I Poeti dunque, dialettali o meno, hanno il dovere della responsabilità; non possono e non debbono essere “estranei” alle vicende sociali e politiche né del loro proprio paese né del mondo intero. Il futuro dell’uomo e quello del poeta sono indissolubilmente legati; se il mondo crolla crolla per tutti, lui compreso.

Nella prefazione di Na farfalla mi vasau lu nasu Pietro Carbone afferma che «la poesia è un’esperienza di significato e di suono», due elementi con i quali è necessario confrontarsi nel momento in cui si decide di tradurre. Soprattutto quando non si tratta di tradurre parole, ma, come avvertiva Pound, di tradurre la poesia o di raggiungere, come osservava Céline, una «resa emotiva dello stile». Traducendo autori classici e contemporanei di due continenti e di disparate regioni dell’Europa, che posizione ha assunto nei suoi lavori? È possibile codificare un metodo oppure, come afferma Girolamo Marcuso, nel caso pratico entrano in gioco dei «fattori troppo soggettivi per essere codificati»?

“Tradurre poesia è uno dei possibili modi di fare poesia”, attestò Eugenio Montale. Ho affrontato l’attività di traduzione dopo accurati studi e dopo avere fatto miei parecchi degli assunti che nel tempo ho appreso. Luca Guerneri rilevò che “il confronto con l’altra lingua diventa spesso un braccio di ferro con la propria”; Alba Olmi che “si tratta di una trasposizione di testi, non di parole o frasi, da una cultura all’altra e che è l’opera stessa da tradurre a suggerirci i percorsi”; Paul Ricoeur che “il traduttore forza la propria lingua a rivestirsi di estraneità e la lingua straniera a lasciarsi de-portare nella sua lingua materna… perché non solo i campi semantici non si sovrappongono, ma le sintassi non sono equivalenti, l’andamento delle frasi non veicola le stesse eredità culturali”. Tradurre poesia è dunque impresa nella quale, per quanto impegnativo, è gratificante e perentorio riuscire. Ciò perché la traduzione, questo genere letterario a sé, è per forza di cose re-invenzione in certa misura del testo originale, è un passe-partout che ci introduce a un inconsueto trip letterario, è uno star-gate che ci spalanca l’altrui universo. Un universo composito, intriso di fantasia e parimenti radicato nella attualità, crudo e allucinante e altresì tenero e sognante, un universo che se per taluni caratteri rinveniamo sotto casa per taluni altri ci svela spaccati, scene, luoghi esoterici, misteriosi, mitici: la Poesia di ogni latitudine, di ogni lingua, di ogni vocazione. Gli esiti non lasciano trasparire il lungo studio e il grande amore che sono stati necessari; i vantaggi e gli svantaggi connaturati al passaggio da una lingua all’altra; l’iniziativa personale richiesta al traduttore e induca anzi il lettore alla considerazione che le poesie sembrano essere state concepite, nel nostro caso, in Siciliano.

Leggendo le sue poesie e traduzioni salta subito all’occhio la ricerca linguistica sottesa ai suoi lavori. Il recupero di parole inedite, ricercatissime, portatrici di suoni e storie lontane, mai scontate e a volte troppo dure per essere intese ad una prima lettura, la porta ad operare in uno spartito ricchissimo, a tratti desueto. In questa operazione di immersione nelle profondità linguistiche e poetiche, lei, traduttore e autore, come ne riemerge? Che spazio mantiene fra lei e l’autore originario del testo?

“Un concetto – assevera Attila József – è lo stesso sia per un filosofo cinese che per uno ungherese o inglese. Chiunque può esporlo con le proprie parole. Il concetto quindi, in quanto spiritualità, è dell’umanità intera. Ogni filosofia infatti è traducibile in ogni lingua, perché importante è che vi sia concordanza concettuale, non verbale e se in una lingua non vi fosse una parola specifica per un concetto, noi possiamo sempre parafrasarlo ed esprimerlo, ciò nonostante, perfettamente”. Se il linguaggio da me schierato nel suono e nel significato può profilarsi di primo acchito poco comprensibile, può a sua volta sembrare lingua straniera, è perché da traduttore-autore sono andato a ricercare nelle vastissime plaghe del dialetto le parole, le locuzioni nominali, verbali, aggettivali, giusto quelle e non altre, che potessero rendere al meglio i sensi e le sensazioni dei frangenti inusitati che esso andava a veicolare, che potessero costruire una sintassi di immagini non sempre latrici di sensi scontati e ciò malgrado atte a ri-creare non solo i significati ma anche il “tono” dell’originario testo poetico. Rispetto a ciò, probabilmente, esso pare quindi esorbitare le parole comunemente spacciate nell’esangue e frettoloso linguaggio quotidiano. Una precisazione però, al fine di evitare di incorrere in facili equivoci e di scongiurare erronee impressioni che potrebbero derivarne, a beneficio soprattutto dei non iniziati alle finezze linguistiche, è doverosa. In effetti io non pratico e non adopero parole rare o desuete, arcaiche o dismesse. Tutti i miei termini sono frutto di una lunga, assidua, entusiasta frequentazione del dialetto, di ieri e di oggi, dell’occidente e dell’oriente dell’Isola, degli studi dei testi di quei poeti, letterati, cultori che nel tempo, nei secoli ormai, al nostro dialetto hanno votato le loro esistenze. E pertanto, essi sono termini tutti del dialetto siciliano; termini che al meglio realizzano il mio pensiero.

Prima dell’inizio di Na farfalla mi vasau lu nasu lei riporta la frase di Salvatore Camilleri: «…mai poeta ha percorso la sua strada / senza avere a fianco altri compagni di viaggio, / altri poeti, / senza ricevere e senza dare a quelli che vengono dopo». Quali sono i suoi “compagni di viaggio” e cosa spera per i poeti siciliani che verranno dopo? Potrebbe indicare gli autori che hanno influenzato la sua attività come scrittore e traduttore?

Certamente e volentieri! Perdipiù perché gli uni e gli altri – quasi – coincidono. In verità, i miei compagni di viaggio sono stati e sono, in prevalenza, anche i miei maestri. Amo ricordare Salvatore Camilleri, Salvatore Di Marco, Carmelo Lauretta, Paolo Messina, Pietro Tamburello e Salvo Basso ed Enzo D’Agata, che tutti ho avuto la ventura di conoscere di persona, nonché Antonino Cremona, Alessio Di Giovanni, Nino Orsini, Nino Pino e altri. Ai poeti siciliani che verranno auguro di essere benedetti quanto e più di me e di imbattersi in compagni di viaggio e in maestri altrettanto formidabili.

La casa viola è una raccolta licenziata nel 2010: questa quarta silloge rappresenta una tappa importante del percorso poetico ed estetico iniziato oltre dieci anni prima con Palori. Potrebbe parlarci del suo cammino artistico e del processo grazie al quale è arrivato a una poesia ricca, dai moduli espressivi inconsueti e impegnativi, semanticamente e contenutisticamente forte?

è ben arduo rispondere a questa domanda. In estrema sintesi potrei dire che il tutto si risolve nella devozione esclusiva alla Poesia! Estendendo un po’ il concetto, la fausta combinazione dell’innato talento e della imprescindibile spinta creativa congiunta ai “sudati studi” e alla lucida determinazione di perseguire dei risultati. Quei compagni di viaggio, quei maestri, quegli autori che ho tradotto me ne hanno spianato la strada.

Nella prefazione a La casa viola Flora Restivo Cugurullo afferma: «mi limiterò a dire che i veri nemici della poesia in siciliano […] sono proprio certi poeti siciliani: quelli che adorano il respiro corto della provincia, della strada, del quartiere, del loro condominio, non in quanto veramente innamorati di questa realtà, il che renderebbe la loro scelta stimabile (il tolstojano “descrivi il tuo villaggio e sarai universale”), ma perché inidonei a proiettarsi oltre quegli angusti limiti, quelli che, forse in debito di fervore creativo, una bella mattina si svegliano e si improvvisano studiosi, ricercatori, dialettologi, filologi, appassionati, analisti letterari, con esiti di grossolana qualità, quelli che pensano di salvare il dialetto non con trasfusioni di sangue rosso e vigoroso, ma acriticamente mummificandolo nei metri, nei temi, nei ritmi, trascurando il dettaglio che il processo di mummificazione avviene post mortem e, in questo disgraziato fuoco, bruciano il semplice assunto che la poesia deve essere principalmente trasmissione di idee e riflessioni atte a farsi emozioni e collegare anime, coscienze, cervelli, cuori, che la sua voce canta, ride, piange, danza col vento e incide la roccia, distrugge e ricrea come vuole l’infinito». Potrebbe indicarci la sua posizione in merito alle spinte interne, esterne e contemporanee che il Siciliano sta affrontando?

Dal mio remoto avamposto lo stato di salute della poesia nella mia Isola mi sfugge, né mi pervengono distintamente le spinte alle quali i poeti dialettali miei conterranei sono oggi esposti. Ho contezza tuttavia che sono in tanti ancora a scrivere, per cui… speriamo bene.

In questo momento sta lavorando a qualche progetto poetico o narrativo? Ha in mente qualche traduzione?

Di recente ho ultimato la traduzione in siciliano della raccolta di poesie di una autrice statunitense di prossima pubblicazione a New York; in atto sto curando, presso una associazione culturale della mia città, una rassegna denominata “GALLERIA LETTERARIA” che si protrarrà fino alla primavera ventura e nel 2018 conto di pubblicare, sempre a New York, una selezione trilingue (siciliano, italiano e inglese) dei miei testi.

Intervista in formato pdf

L'autore

Debora Vitali
Debora Vitali
Debora Vitali è nata a Perugia nel 1988. Si è laureata in Filologia Moderna presso l’Università di Perugia con una tesi in Filologia romanza. Insieme a Fabrizio Scrivano e Laura Diafani ha curato la realizzazione del volume "La fiaba prima della fiaba nella novella italiana dal Due al Seicento". È appassionata di letteratura italiana medievale e contemporanea. Attualmente insegna italiano e storia nella provincia di Ancona.