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Giuseppe Uncini: Realtà In Equilibrio

Giuseppe Uncini: Realtà In Equilibrio, a cura di Giuseppe Appella

Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea

viale delle Belle Arti 131, Roma

Inaugurazione lunedì 17 giugno 2019 ore 19 – 21 Sala Via Gramsci

Apertura al pubblico 18 giugno – 29 settembre 2019 (dal martedì alla domenica: 8.30 – 19.30)

 

                                                                                                      Dove tutto può essere:

estensione diversa

                                                                                                      superficie

dimensione profonda.

                                                                                                                                               Cesare Vivaldi

 

 

Cinquantasette sculture e trenta disegni datati 1957-2008 ripercorrono le varie tappe del cammino di Giuseppe Uncini scandito da Terre, Cementarmati, Ferrocementi, Strutture spazio, Strutturespazio-ambienti, Mattoni, Terrecementi, Ombre, Interspazi, Dimore delle cose, Dimore e muri d’ombra, Spazi di ferro, Spazicementi e Tralicci, Muri di cemento, Architetture, Telai-Artifici.

La verifica di mezzo secolo di lavoro, attraverso modi primari del costruire, è soprattutto un ritorno alle origini, al paese di nascita, Fabriano, disteso nell’ampia conca del versante orientale dell’Appennino umbro-marchigiano, con un singolare centro storico che, nonostante le distruzioni e le trasformazioni, restituisce la forte presenza di una schietta struttura medioevale.

Questa struttura, di continuo presente nell’assetto decorativo delle grandi imprese di Gentile da Fabriano, alimenta le modanature monocrome di Uncini, le linee elastiche che innervandole (Cementarmato, 1961) le frastagliano con una libertà cresciuta di anno in anno, tanto da condurlo a dimensioni inconsuete e colossali (Architetture n. 206, 2006) che non si sottraggono allo studio sensibilissimo della luce, alle gradazioni di un colore che simula in apparenza un rilievo lapideo.

Temi e ricerche perentoriamente messi di fronte, in un vis-à-vis tutt’altro che azzardato, anche nei ripensamenti del già fatto, per perseguire fino alle estreme conseguenze la fisicità dell’opera, per estrarre dalla materia (olii, terre, cementi, pigmenti su supporti tradizionali, lamiere, ferri, mattoni), con l’abituale procedimento mentale, come l’ape il nettare dai fiori, una inedita carica fantastica e quella idea progettuale a lungo accarezzata nella miriade di gesti e attitudini di mestieri praticati durante la guerra come una personale università del pensiero e della mano. Perché alla vita fisica della materia, cui corrisponde il farsi corpo dell’immagine (Ferrocemento n. 25, 1965), al suo ruvido rigore (Parete interrotta, 1971), che non respinge una sua esclusiva bellezza, si accompagna in Uncini una sorta di salda e intensa memoria spirituale (La dimora delle cose – Bassorilievo n. 4, 1980) portata a sorreggere, come in Brancusi, quanto di razionale e di irrazionale nutre il fronte del proprio lavoro. Scrive: “Mi piace pensare alla mia scultura come qualcosa che possiede due vite; l’una quella che io riesco a darle con i miei ‘criteri’ di estetica, di spazio e di poesia, l’altra, quella dovuta all’uso quotidiano, vero, concreto della cosa. Naturalmente ciò che mi interessa è caricare questi vuoti di umori, di momenti poetici, insomma di farne delle cavità dense di avventure esistenziali”. Dove l’estro, l’inventiva, la capacità nobile dell’artigiano, la rivisitazione e interpretazione dei mestieri, vengono esaltati dalla simbiosi perfetta tra materiali utilizzati e attrezzi da lavoro. Gli uni e gli altri necessari per trasmettere l’energia che circola nelle forme, nelle nude strutture prive di ogni desideriodi evocare qualcosa (Spazi di ferro n. 3, 1988).

Basta leggere i titoli: dalle iniziali Terre su carta che corrispondono a normali paesaggi memori di De Staël subito riversati in Rothko, e da un letterario Il passo del gatto (1958), emblema dell’illusoria immagine della pittura che vuole sfuggire all’oggetto-quadro e scava nelle memorie del sottosuolo, rapidissimo è il passaggio da materie cromatiche primarie, sottilmente evocative (Terre, 1957), a un solo materiale, il cemento, che muove gesti e segni e li dota con il ferro alzando armature (Primo Cementarmato, 1958-1959), regolando masse pesantissime che, tra un alfabeto e un traliccio, una dimora e un epistylium, ordiscono una città solo apparentemente impossibile (Architetture n. 206, 2006), tanto occupò i sogni dei futuristi, di Gabo e di Tatlin, di Vantongerloo, di Max Bill e di Calder, di Marino di Teana e di Etienne-Martin, di Burri e di Consagra, di Milani e di Chillida, di Somaini e di Sanfilippo.

Come molti di questi che lo hanno preceduto, Uncini, soprattutto negli anni delle trasformazioni e degli ambigui simulacri di impossibili prospettive (Ombra di due parallelepipedi N. 25 bianco, 1975), altro non fa che analizzare gli strumenti a sua disposizione, appuntirli (Ombra di piramide T. 16, 1976), in tutti i sensi, nel patrimonio culturale e nella quotidianità del suo operare, fissare, recandosi nello studio come un direttore d’orchestra in teatro per le prove, l’artigianalità della costruzione, una dinamica equilibrata di attese consumate in spostamenti minimi capaci di tessere, nell’inversione dell’assetto del reale (Dimore G 10, 1981), nella fisicità concreta dell’opera, nel puro valore di superficie (Dimore n. 50, 1985), l’oggi con il domani, quindi anche i primi con gli ultimi suoi lavori. Dove non ha fatto breccia né l’Informale né la Pop Art, tantomeno ismi, correnti e nomi (l’arte povera, il minimalismo, Carl Andre, Robert Morris, Richard Serra, Joel Shapiro, Ron Bladen) che, mentre rimettevano in questione la natura dell’arte, attraversavano la seconda metà del XX secolo stabilendo ramificazioni e parentele di linguaggi, precedenze e seguiti del postmoderno.

È evidente, allora, l’impossibilità di determinare un percorso che non abbia alla sua base quel rigore concettuale che ristabilisca in forma il luogo-spazio (Cementarmato, 1962 – Architetture n. 217, 2006), trovi nella componente materica la leggerezza (Spazicemento n. 17, 1994) e nelle strutture il rapporto linea-superfici (Architetture n. 194, 2005), ed elimini, ogni volta, nonostante la materia si presenti così com’è, dura-fredda-precaria-accidentata, ed assuma, per coincidere con il contenuto, anche il titolo-guida dell’opera, la figura dell’analogia se non del simbolo o della metafora che, invece, Uncini impara subito a far convivere con la vitalità del pensiero della scultura e della sua nascita (Cementarmato, 1959 -1960Architetture n. 193, 2005), con i problemi di procedimenti, identificazioni e orientamenti, di articolazione e statica, di equilibrio e composizione, di peso e stabilità, di tempo e durata. Scrive: “Io ho impiegato giorni e giorni per estirpare il falso che sentivo nelle mie superfici senza peso, per capire che modificare il senso delle materie e far diventare tutto pittura non era la mia strada. Altro era il mio sentire e portava a qualcosa che rompeva i margini della pittura come della scultura. Dovevo pensare con le mani, dovevo trovare nella mia natura di homo faber, in povertà e disperazione, le ragioni del mio lavoro. Dovevo azzerare tutto, scegliere il monocromo, dimenticare il quadro, la cornice e il telaio”.

Occorre considerare questo concetto della scultura, o ordine creativo, sotteso all’impostazione dei manufatti “su una frontalità spaziale assolutamente innovativa” che utilizza, a partire dalle gabbie, ciò che Emilio Villa chiama ideologia strumentale per una disciplina strutturale che si distingua come segno di identità, motivo primo, in Uncini, del suo fare in costante evoluzione e del riscontro frontale messo in atto da Cemento lamiera (1959) a Artifici n. 5 (2008), che accertano tangenze e differenze con il minimalismo da Uncini contraddetto proprio con il rifiuto della serialità o del modulo e la persistente “umana” progettualità attiva fin dal 1960, quando comincia a mettere a nudo i procedimenti tecnici: congiunge e disgiunge, chiude e apre, giustappone, materializza lo spazio e il segno e se quest’ultimo è una presenza, l’altro è una misura. Scrive: “Io lavoro con il cemento e il ferro. Questi materiali li uso con proprietà, nel senso che non li camuffo, che non me ne servo per trarre degli effetti particolari, al contrario li adopero come si adoperano nei cantieri, per costruire le case, i ponti, le strade, per costruire tutte le cose di cui l’uomo ha bisogno. Alla base di tutto questo c’è la necessità di costruire, di organizzarsi, c’è quel principio creativo che è all’origine di ogni progresso umano, questo è quanto nei miei oggetti voglio esprimere”.

Questo principio, divenuto nel corso degli anni, per tappe di avvicinamento alla sperimentazione della tridimensionalità, tracciato preciso di una riflessione dominante, vero e proprio abbiccì del costruire, coniugazione progressiva di chiaro e scuro in relazione all’oggetto, grammatica espressiva (alzare muri, colonne, archi e portali che, senza nostalgia, ricordano i muri della sua infanzia, studiare incastri, spigoli e contrafforti, cementare l’ombra), acquisisce un ritmo di linguaggio che dal Cementarmato n. 10 (1961) si sedimenta nel Ferrocemento n. 14 (1963), dalla Parete interrotta (1971) si posiziona nelle Dimore (1982), dagli Spazi di ferro (1990) si colloca negli Spazicemento (1998), ovvero una immagine-oggetto che apprende il concetto di rarefazione per un criterio razionale che, in seguito, anima una struttura funzionale e dinamica a sua volta implosa ed esplosa in una energia che è calcolata organizzazione del lavoro, tesa a disegnare e a delimitare un proprio spazio, pluridimensionale, con una fisionomia personale, estesa alle case in cui abitare, ai mezzi con i quali procedere, allo studio in cui realizzare, agli stessi amici da frequentare con poetico candore.

Passo dopo passo, inanellando idee e possibilità che le materie sollecitano e la geometria suggerisce, cubi e parallelepipedi, prismi e piramidi, corpi e volumi, accolgono la loro ombra e l’abbandonano. Il vuoto si fa pieno, il pieno diventa vuoto immediatamente riempito dall’occhio di chi guarda, in una operazione concettuale che non ha nulla di illusionistico. Nelle percezione totale dello spazio tridimensionale, ogni cosa è diventata materia concreta. Nelle dichiarazioni del 10 settembre 1963 e del 3 luglio 1965, relative al “Gruppo Uno”, si insiste sulla geometria come matrice vivente, metodo formale, realtà delle sostanze, mezzo e non fine, ovvero geometria come grammatica del fare e sintassi della percezione.

Il pensiero e la suggestione di Argan sono evidenti, quanto il mistilinguismo di Villa e il furor mathematicus di Sinisgalli. Lo studioso aveva notato nel lavoro di Uncini la predisposizione alla geometria come veicolo e conseguenza, che rimanda, negli spazi di ferro della fine degli anni Ottanta, ad alcuni principi del costruttivismo. Le linee vengono considerate nel loro valore descrittivo ma sono come adduttori di energie proprie dell’oggetto; al volume, non più idoneo a rendere la misura dello spazio, si sostituisce la solidità e la trasparenza; il ritmo, fissato dal segno-ferro che moltiplica e articola i rapporti di piani disciplinandoli con l’incidenza luminosa, assume proporzioni di natura cinetica, traduce la nozione di tempo, accoglie l’inatteso e l’incalcolabile. Lo spazio, anche quello dello studio dove in “grandiosa viva solitudine” si ripercorre l’architettura dell’antico per comprendere le sperimentazioni dell’era tecnologica, diventa parte integrante dell’opera che fa delle sue strutture un tessuto organico, un reticolo di tensioni, un instrumentum imaginis.

Un fondamentale strumento creativo, in Uncini, è la carta. Registra, quindi, non solo la storia del paese d’origine. La carta è il corpo primigenio delle idee e il contenuto dell’opera, proprio come il cemento o gli altri materiali. La sua fisicità gli sollecita, senza mai farsi racconto o decorazione, un disegno essenziale, statico, anche quando predispone un telaio geometrico facendone un veicolo del pensiero, sceglie i volumi in base a preoccupazioni di carattere esemplificativo, alza strutture quasi dovesse dimostrare un teorema che non esclude, nella logica progettuale, possibilità fantastiche. Scrive: “Non ho mai preteso una teoria senza parole, non ho mai cercato nella mia opera il luogo dove si formasse il significato. Non è un caso che, tanti anni fa, alla domanda su quale fosse lo scultore che mi interessava maggiormente, rispondessi senza esitazione: Giotto”.

In tutto questo, la luce magica di Roma, che in alcuni momenti ha fatto pensare a sconfinamenti in atmosfere metafisiche evocative ed affabulanti, ha un ruolo significante, e non solo per il lavoro svolto sulle ombre, spostando l’attenzione dalla forma reale alla forma virtuale dell’oggetto. La sua presenza, definita da Uncini, come l’ombra, “concetto spaziale”, realtà artificiosa che muta la forma durante il suo crescere, è strettamente connessa al colore che nelle prime opere sviluppa il forte sentimento dell’antico, del paesaggio costruito dall’uomo, tipico degli affreschi di Giotto, Masaccio e Piero della Francesca, ovvero della civiltà della cultura occidentale al suo massimo splendore, e nelle ultime, schiacciando i volumi, raccoglie la lunga esperienza sulla necessità di non alterare la struttura della materia facendosene sua natura nell’incontro con la tecnica. Tanto da disegnare liberamente, con un ritrovato gusto dell’avventura e del non finito, accenni di architetture inquadrate in uno spazio a misura umana, strutture di relazione tra se stesso e la scena che ogni giorno, dalle valle del Clitunno ai colli di Montefalco, gli si offriva dalle antica mura di Trevi.

 

NOTIZIE BIOGRAFICHE

Giuseppe Uncini nasce a Fabriano (AN) il 31 gennaio 1929. Negli anni della Seconda Guerra Mondiale è costretto, con la famiglia, a trasferirsi in un piccolo centro delle Marche, Cerreto D’Esi (AN) dove ha modo di apprendere attività e tecniche derivate dai mestieri artigiani e dai lavori agresti del luogo. Si iscrive anche all’Istituto d’Arte di Urbino ma potrà frequentarlo solo per un breve periodo. Tra il 1948 e il 1949 impegna le sue giornate nelle industrie grafiche di Fabriano e di Falconara Marittima come disegnatore litografo e si dedica alla pittura e al disegno. A Fabriano, nel 1953, incontra Edgardo Mannucci che lo sollecita a trasferirsi a Roma e lo ospita nello studio di via Margutta, nella stanza che fino a poco tempo prima era stata di Alberto Burri. Ha modo, perciò, di entrare in contatto con alcune figure dell’arte, residenti o di passaggio nella capitale (Giuseppe Capogrossi, Pericle Fazzini, Afro, Mirko, Franco Gentilini, Corrado Cagli, Nino Franchina, Ettore Colla, Giulio Turcato, Leoncillo, Libero De Libero, Alberto Burri, Emilio Villa, Willem De Kooning, Conrad Marca-Relli), abituali presenze in quella sorta di cenacolo qual era diventato lo spazio, spesso condiviso, nel quale Mannucci lavora. Nel 1955 partecipa alla VII Quadriennale di Roma, nel Palazzo delle Esposizioni. Nel 1956 inizia il ciclo delle “Terre” usando carbone, cemento, polvere di marmo e terre, riceve il “Premio d’incoraggiamento per la pittura” alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna ed espone a Francoforte in “Abstrakte italienische Kunst”. Nel 1958-1959 nascono i primi “Cementarmati”, fatti di cemento e metallo, e per le sollecitazioni di Emilio Villa, è alla Galleria Appia Antica, insieme a Lo Savio, Manzoni e Schifano. Del 1961 è la prima personale alla galleria “L’Attico” di Roma e l’inizio del suo insegnamento (che durerà fino al 1983) nell’Istituto d’Arte di Roma.
Nel 1962 fonda con Gastone Biggi, Nicola Carrino, Nato Frascà, Achille Pace e Pasquale Santoro il “Gruppo 1” al cui interno lavorerà sino al suo scioglimento, avvenuto nel 1967. Il Gruppo, guidato da Giulio Carlo Argan in quegli anni attento studioso di Gropius e della Bauhaus, analizza il rapporto tra arte e scienza, accentua l’utilizzo di forme geometriche riferibili al costruttivismo, è interessato agli effetti ottici e ai nuovi materiali. Nel 1963 nascono i “Ferrocementi” e nel 1965 le “Strutturespazio” (sculture interamente in metallo che sviluppano il rapporto fra la struttura e lo spazio tridimensionale) con le quali partecipa alla IV Biennale Internazionale di San Marino, alla IX Quadriennale Nazionale d’Arte di Roma, all’International Art Exhibition di Nuova Delhi e alla XXXIII Biennale di Venezia. Dopo la partecipazione a “Trigon 67” di Graz e all’Expo di Montreal, la Strutturaspazio-luce (Strutturaspazio con ombra), del 1967, dà l’avvio a un ulteriore capitolo della sua ricerca, la costruzione delle “Ombre” che, nel 1968, stimolano Palma Bucarelli a commissionargli la Porta aperta con ombra che sarà sistemata, come divisione di due ambienti, nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. Segue, nel 1969, la serie dei “Mattoni con ombra”. Gli incontri con la Galleria Christian Stein a Torino (personali nel 1968, 1971, 1975, 2002) e con lo Studio Marconi a Milano (personali nel 1973, 1976, 1980 e 1995) segnano altri momenti importanti della sua carriera che vede nel 1972 la prima “Collina artificiale” e il gruppo delle “Ombre”, nel 1973 la partecipazione alla X Quadriennale di Roma (“La ricerca estetica dal 1960 al 1970”), nel 1976 il ritorno alla Biennale di Venezia, nel 1977 la presenza nella mostra “Zestien Italianse Kustenaars” al Museo Boymans-Van Beuningen di Rotterdam, nel 1978 la nascita degli “Interspazi”  e nel 1979  l’inizio del ciclo dedicato alla “Dimora delle cose”.

Gli anni ottanta sono caratterizzati dalle “Dimore”, dai “Muri d’ombra” e dagli “Spazi di ferro”, dalle partecipazioni a “Arte Italiana 1960-1982” (Hayward Gallery, Londra 1982), alla XLI Biennale di Venezia con una sala personale  (1984), al “Periplo della scultura contemporanea” (Chiese Rupestri Madonna delle Virtù e San Nicola dei Greci, Matera 1988), dal Premio Antonio Feltrinelli per la scultura assegnatogli dall’Accademia Nazionale dei Lincei e dal 6th Henri Moore Grand Prix Exhibition dall’Hakone Oper-Air Museum di Kanagawa-Ken (1988).

Nel 1990 partecipa alla rassegna “La otra escultura. Treinta aňos de escultura italiana” a Madrid, Barcellona e Darmstadt; nel 1992 è presente nella XII Quadriennale; nel 1993 nasce il ciclo “Spazicemento”; nel 1994 inizia la collaborazione con la Galleria Fumagalli di Bergamo (personali nel 1995, 1997, 2002, 2007, 2010) e partecipa a “The Italian metamorphosis 1943-1968” (Solomon R. Guggenheim Museum, New York); nel 1995 riceve il “Premio Presidente della Repubblica per la scultura” assegnatogli dall’Accademia Nazionale di San Luca e partecipa alla XLVI Biennale di Venezia; nel 1998 inizia la serie dei “Tralicci”; nel 1999 espone al PS1 Contemporary Art Center di New York in “Minimalia” e alla Galerie der Stadt di Stoccarda in “Zeitgenössiche Kunstaus Italien”.

Dopo la mostra del 2000 in Palazzo Fabroni a Pistoia, nel 2001, alla Städtische Kunsthalle di Mannheim, prima importante retrospettiva del suo lavoro che vede presenti anche i “Muri di cemento”. Partecipa, inoltre, alla mostra “La scultura italiana del XX secolo” che, in occasione de “L’anno dell’Italia in Giappone 2001” fa tappa in cinque musei: Yokohama Museum of Art, Kagoshima City Museum of Art, The Museum of Modern Art, Ibaraki, Museum of Contemporary Art, Sapporo, e Shimane Art Museum. Nel 2003 viene nominato Presidente dell’Accademia Nazionale di San Luca. Il 2004 è l’anno delle “Architetture”. Nel 2008 in occasione della Fiera di Bologna viene presentato al pubblico il “Catalogo Generale dell’opera di Giuseppe Uncini” a cura di Bruno Corà. Lo stesso anno gli viene commissionata un’opera per il Parco delle Sculture del Mart di Rovereto, realizzata nel 2009, e inizia a lavorare al progetto per la mostra antologica itinerante da tenersi tra il 2008 e il 2009 allo ZKM di Karlsruhe, al Mart di Rovereto e al Landesmuseum Joanneum di Graz. Scompare a Trevi (PG), dove si era trasferito negli anni novanta, in una vecchia villa appena fuori le mura della città, il 31 marzo 2008.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

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E. Crispolti, Uncini, catalogo della mostra, L’Attico, Roma 1961.

G. C. Argan, P. Bucarelli, N. Ponente, Gruppo Uno, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1963.

M. Volpi, Uncini, catalogo della mostra, Galleria Qui Arte Contemporanea – Editalia, Roma 1970.

F. Menna, Giuseppe Uncini. Opere dal ‘59 al ’73, catalogo della mostra, Studio Marconi, Milano 1973.

G. Dorfles, Le ombre di Uncini, catalogo della mostra, Studio Marconi, Milano 1976.

L. Carluccio, Giuseppe Uncini, catalogo della mostra, Studio Marconi, Milano 1978.

E. Tadini, La dimora delle Cose, catalogo della mostra, Galleria Rondanini, Roma 1980.

G. M. Accame, Uncini. Figure del pensiero, Edizioni TxT, Rimini 1984.

G. C. Argan, Giuseppe Uncini Premio Antonio Feltrinelli, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 1988.

G. Appella, Giuseppe Uncini, in G. Appella, F. D’Amico, P. G. Castagnoli (a cura di), Periplo della scultura italiana contemporanea, catalogo della mostra, Chiese Rupestri Madonna delle Virtù e San Nicola dei Greci, Matera, Edizioni della Cometa, Roma 1988.

G. M. Accame, Giuseppe Uncini. Le origini del fare, Edizioni Lubrina, Bergamo 1990.

M. Meneguzzo, Giuseppe Uncini. Oeuvres 1959/1996, catalogo della mostra, Studio Simonis, Galerie Vivas, Parigi 1996.

F. D’Amico, Uncini. Cementarmati 1958/1961, catalogo della mostra, Fabio Sargentini Associazione Culturale L’Attico, Roma 1997.

B. Corà, Giuseppe Uncini. L’immaginaria misura, catalogo della mostra, Palazzo Fabroni, Pistoia, Gli Ori, Prato 2000.

M. Fathe, V. W. Fierabend, M. Meneguzzo, Giuseppe Uncini. Raumaus Fläche und Struktur, catalogo della mostra, Städtiche Kunsthalle Mannhein, 2001.

B. Corà, Giuseppe Uncini. Catalogo ragionato, Fondazione VAF – Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, Milano, 2007.

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N. Carrino (a cura di), Giuseppe Uncini. Scritti manifesti interviste dalle Terre agli Artifici, Accademia Nazionale di San Luca, Roma 2009.

B. Corà, I. Tomassoni, Giuseppe Uncini. I primi e gli ultimi, catalogo della mostra, Centro Italiano arte contemporanea, Foligno, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, Milano 2011.