Si ripubblica, su gentile concessione di Renato Minore, questa intervista a Umberto Eco, apparsa inizialmente su “Il Mondo” del 26 aprile 1976 e poi nella sua forma definitiva in Mass-media, intellettuali, società, Roma, Bulzoni editore, 1976.
A colloquio col filosofo che ci ha insegnato a «leggere» Charlie Brown. UMBERTOECOMICS
Con le minime varianti, è la ripetizione della prova terribile ma necessaria in cui si cimenta l’eroe di ogni mito, che nel nostro caso specifico diffonde il verbo della massmediologia in lande ancora non evangelizzate. Dunque: c’era una volta (all’inizio dei consumistici anni Sessanta) un giovane e brillante filosofo che si era rodato sui criteri formali del bello medievale e sulle epifanie joyciane. Ma il nostro eroe scalpita nel torpore accademico, è giustamente impaziente, già flirta con profitto nell’industria culturale. Così, quando suona la diana di una importante assise scientifica, gioca la carta della provocazione.
Tira fuori da una valigetta trecento fascicoli di Superman (quello che vola nello spazio più veloce della luce e infrange le barriere del tempo), e, citando Heidegger, Husserl e Abbagnano, comincia a parlare del pianeta Krypton. Un’ombra di sorpresa e di terrore piomba sul viso dei teologi protestanti olandesi, dei francescani belgi, dei domenicani spagnoli, degli storici dell’arte e dei filosofi di professione: venuti a Roma per parlare e sentire parlare della demitizzazione nella nuova teologia, fanno conoscenza per la prima volta con lo gnomo Mxyz-ptlyk cui il nerboruto protagonista delle strip fa pronunziare il nome alla rovescia (Klypzyxm) nelle sue galattiche vicende.
L’aneddoto che Umberto Eco mi racconta all’inizio del nostro incontro ha il suo giusto epilogo. Gradualmente Clark Kent compie la più prodigiosa delle sue trasformazioni nel Superman cui tutto è lecito: anche riciclare l’iniziale sgomento in curiosità e attenzione. I comics cominciano a circolare tra quella udienza così severa e alla fine il giovane filosofo ci rimette una cinquantina di fascicoli che spariscono nelle ampie maniche di domenicani e francescani.
Da quell’epoca «oscurantistica» le vittorie si sono ripetute, la prova mitica è diventata routine. Venendo a patti, il nemico ha capitolato su tutto il fronte. Università cattoliche come Lovanio producono oggi tesi su Paperino; il fumetto è presente nella scuola come occasione di riflessione critica, di analisi figurativa e linguistica. Ma lasciamo stare i comics che fanno sempre più effetto quando si parla di mass media. Chi non è introdotto al jeu de massacre del divismo grazie anche alla Fenomenologia di Mike Bongiorno, arrivata di recente (con la ristampa del fortunato Diario minimo di Eco) alla diffusione a tappeto degli Oscar mondadoriani?
Nel frattempo, l’impaziente filosofo di tredici anni fa è diventato uri quarantatreenne docente universitario (cattedra di semiologia a Bologna, la prima in Italia), un affermato saggista, un critico del costume di casa, un manager editoriale. Confessa di essersi occupato da sempre di comunicazioni di massa «perché a me il romanzo giallo, il romanzo di fantascienza, il fumetto divertono, li consumo senza pudore e senza problemi anche perché mi sono accorto che non mi impediscono di sentirmi Chopin o Beethoven e di leggermi Stendhal»
Riconosce di non divertirsi allo sport, di non amarne i reportages, così le uniche due volte che ha scritto sulla «chiacchiera sportiva» in senso adorniano lo ha fatto al di fuori del suo registro normale: dall’alto, da «apocalittico». Ma è inevitabile; Eco sorride: «Anche un criminologo deve avere segrete tendenze al crimine per capire il problema in tutta la sua complessità, sennò si arriva a quei casi mostruosi di pedagoghi che non amano i bambini e sono delle Pagliuca».
Certo, l’itinerario che dai trascendentali in San Tommaso porta al basic italian di Mike Bongiorno è «un itinerario privato». Ma ci sarà pure una ragione collettiva e generazionale per cui all’inizio degli anni Sessanta è sorta una più articolata attenzione ai fenomeni della cultura di massa: perché il primo viaggio di Flash Gordon ha superato l’impasse della curiosità alla «Lascia o Raddoppia?» ed è diventato oggetto di discussione tecnica e culturale?
Eco rievoca quei tempi con assolato distacco che di tanto in tanto si illumina nel fuoco d’artificio del paradosso a lui così congeniale. Parla innanzitutto delle resistenze. Da destra, con piglio umanistico, si sosteneva che, come continua pedagogia del consenso e dei consumi sino, i mass media avrebbero prodotto una generazione di colletti bianchi. E resistenze da sinistra dove l’attenzione a questi problemi era allora spesso considerala sociologismo di stampo neocapitalista «contro una sana visione dialettica». Come salutare antidoto, da usare anche contro la stagnante atmosfera idealistica degli «untorelli crociani», c’erano le ricerche americane sugli effetti della televisione. E c’erano gli studi della Scuola di Francofone, soprattutto quelli di Adorno. Ma come era letto il fine saggista dei Minima Moralia? «Adorno non era l’autore che parlava di comunicazioni di massa, ma era visto come un pensatore marxista che meditava sulla crisi di disfacimento della società borghese. D’altro canto alcuni di noi, giustamente, rimproveravano alla Scuola di Francoforte di aver fatto molta teoria, ma pochi esempi, pochissima analisi».
Di qui il gusto di intervenire con le Rita Pavone e i Mickey Mouse. La nuova generazione intellettuale degli anni Sessanta valuta inoltre criticamente il libro, il giornale, il settimanale utilizzando le pagine di libri, giornali e settimanali. Stimola un processo di «promozione del prodotto positivo» per cui arrivano, o stanno per arrivare, i cantautori di tipo sofisticato al posto di Claudio Villa, i Peanuts con Charlie Brown si affiancano al grottesco casareccio e qualunquista dei salumi jacovittiani. Il film di quegli anni scorre inesorabile: i prodotti della civiltà dei consumi analizzati con la stessa freddezza tecnica con cui si analizza ogni evento culturale; l’oscillazione tra l’avanguardia e il kitsch della cultura di massa; i Beatles che lavorano per Poussez e Poussez che lavora per i Beatles. E si potrebbe continuare: Bongiorno che lavora per Eco ed Eco che lavora per Mike.
Ma è un film che mostra inevitabilmente le toppe e le lacerazioni d’ogni vecchia pellicola. Arriva il ’68, l’effetto di shock è di tutti. Viene smentita ogni teoria generale della comunicazione di massa. Eco fa il punto: vengono smentiti gli «integrati», pur circolando tra masse che un tempo ne erano sprovviste, i prodotti culturali non hanno creato alcuna coesione sociale. E vengono smentiti gli «apocalittici»: da una generazione pesantemente avviata ai riti del consumismo e del generale livellamento, viene la risposta più estesa e consapevole a questi fenomeni.
«La catena di smentite del ’68» sostiene Eco «ha continuato. Basta pensare a tutti i discorsi che si sono fatti in Italia sulla televisione, centro di potere democristiano che per vent’anni ha addottrinato il paese e ha prodotto cosa? la sconfitta elettorale della De e la vittoria dei comunisti».
La conclusione è che Bernabei è stato l’involontario press-agent di Berlinguer? L’iperbole può anche funzionare, ma i problemi sono altri, riguardano la circolazione del messaggio televisivo: «Come sanno tutti ì fabbricanti di sapone che fanno pubblicità, se non va poi la ragazza porla a porta a rafforzare il messaggio, questo non passa. Lo avevano già scoperto i sociologi empirici i quali però non si erano chiesti perché il messaggio non passa, perché i mass media non creano opinioni ma le rafforzano».
Solo un’attenzione di tipo nuovo, sganciata dagli studi tradizionali all’americana, può aiutare a capire il fenomeno. Un’attenzione, inutile dirlo, visto che il nostro interlocutore è Umberto Eco, di natura «semiologica». La lettura e il consumo dei messaggi televisivi, fumettistici, pubblicitari variano caso da caso, secondo disposizioni non personali ma culturali: «La società, composta da gruppi e livelli che si basano su codici e convenzioni diverse, è una circolazione, un disfacimento e una ristrutturazione continua di sistemi e di norme. Il ’68 è venuto a dirci che nel mondo giovanile, ma non solo lì, si stavano formando sistemi culturali difformi e : non lo stesso a Parigi, non lo stesso a Berlino. Pertanto, la estesa presenza delle comunicazioni di massa andava come la luce sopra un diamante a rifrangersi in mille direzioni rispetto alla ricchezza dei sistemi culturali di base».
Ma allora non è più possibile il futuro di Orwell, con un potere centrale che distribuisce tutti i messaggi, come nell’agghiacciante metafora filmica del «Rollerball » di Norman Jewison? Eco è perentorio: «Il 1984 rimane fantascienza, il che però non è una conclusione ottimistica. Il 1984 avverrà, o forse è già avvenuto, proprio perché la pluralità delle risposte rende l’universo della cultura di massa una sorta di tempesta molecolare, in cui la potenza del dominio è data dall’assenza di leggi e di previsioni».
Il discorso provoca molti stimoli. Proprio negli anni caldi della contestazione si parla di «guerriglia semiologica». Si dice: la vita del messaggio dei mass media è dove arrivano chi lo riceve, e non quando parte. Eco conia anche il mot d’ordre: non si dà l’assalto alla poltrona del direttore della televisione, ma ci si siede davanti ad ogni teleschermo per far discutere la gente su ciò che vede.
Come gli studenti tedeschi che fermano per le strade il lettore dei giornali Springer e gli insegnano come leggerli, o come non leggerli. Cosa resta di quella utopia oggi che, in ogni caso, parlare male della disinformazione televisiva è uno sport assai praticato e che esiste un’opinione pubblica più sensibilizzata ai problemi della manipolazione possibile con i mass media? «L’azione svolta da tanti piccoli gruppi» dice Eco «da sola non sarebbe bastata ad influenzare il pubblico. Ma ha in gran parte cambialo il volto della grande stampa dove è incominciala in modo abbastanza martellante la rilettura critica dei messaggi del giornale, della pubblicità, della televisione. In questo modo si è preparato un pubblico più teso e vigile».
Sorge un problema. Rispetto alla possibilità ormai scongiurata di uno spettatore che beve tutto quello che la televisione gli dà, ci stiamo avvicinando ad una situazione, specie tra i giovani, di rifiuto totale. Non si crede a nulla, neanche «al bollettino meteorologico e spesso a ragione» mi suggerisce Eco. Ma per lui è «un normale contraccolpo particolarmente sentito in Italia dove c’è stata una televisione che ha fatto molto per non essere più credibile. E la cosa andrà a posto da sola creando degli atteggiamenti da un lato di vigilanza e dall’altro non di rigetto isterico ad ogni costo. A Milano sono nate alcune stazioni radio, di cui una tutta musica e sport e un’altra tutta politica e cultura. Immagino che il pubblico proverà io shock nel sentire una radio che canta Bandiera Rossa e una radio che non arriva neppure a quel minimo di impegno che è il giornale radio».
Ma Eco non ha dubbi in proposito: stimolato «anche» da un tipo di critica che viene dall’alto, che si svolge sui normali canali di comunicazione, «quello stesso pubblico imparerà a conoscere questi diversi modi di fare radio, come oggi conosce benissimo la differenza tra “Stop” e “Rinascita”». L’accusa in questo caso potrebbe essere di razionalismo illuminista, ma Eco, come sempre, non nasconde il suo atteggiamento «molto enciclopedista», anzi se ne assume ogni responsabilità.
Mi viene un ultimo dubbio: ma insomma non esiste più alcuno demonio da esorcizzare, nessun apocalittico che lancia anatemi? Gli intellettuali italiani sono tutti allineati, leggono Diabolik e analizzano con gli strumenti idonei, magari semiologici, le papere serotine di Nuccio Fava e di Bruno Vespa? «L’intellettuale – mi viene risposto – è vittima della divisione del lavoro, nel suo caso della divisione dell’odio. Si crea una forma mentis per cui riesce a gustare Omero e sente il resto come rumore. E la nozione classico-umanistica: io vivo nella villa piena di rose e ligustri, discuto di Virgilio e non mi interessano le orde barbare che passano poco distanti e saccheggiano le città. Non mi interessano neppure i sentimenti e i valori estetici dei barbari e dei mercenari. In fondo per capire le orde gote visigote unne avevamo dei valori, ci sono voluti degli antintellettuali che a quei tempi erano i vescovi. Proprio i vescovi hanno cercato di capire i valori delle orde barbariche e di integrarli nella propria cultura». Ma se ci spostiamo a tempi più prossimi? «L’intellettuale avverte spesso i mass media come disturbo, per pigrizia ne rifiuta l’ analisi critica che imporrebbe una riciclazione dei propri strumenti intellettuali. Certo, non si può leggere un film western e una canzone televisiva usando le stesse categorie che si usavano per leggere una lirica petrarchesca. Questa pigrizia è tentazione continua, quindi si ripropone in nuove forme e nuove astuzie».
L'autore
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Renato Minore (Chieti, 1944) si occupa da sempre di poesia e letteratura, sia come scrittore che come critico. Autore di numerose raccolte poetiche, con la sua ultima O caro pensiero (Nino Aragno editore, 2019) ha ottenuto il Premio Viareggio Rèpaci per la poesia nel 2019. Narratore e saggista, vive ormai da molti anni a Roma, dove ha insegnato presso l’Università di Roma e la Luiss e, come critico letterario, scrive per «Il Messaggero», di cui è stato inviato culturale.