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Carlo Pulsoni intervista Renato Minore

Colonna portante della pagina culturale de “Il Messaggero” (alla sua penna l’intervistatore deve il suo primo incontro con gli articoli dedicati alla cultura), Renato Minore è poeta, narratore nonché critico letterario. Come narratore ha pubblicato tra gli altri Rimbaud (Arnoldo Mondadori Editore), e Leopardi, l’infanzia le città gli amori, ristampato in questi giorni da Bompiani, per la poesia si segnalano La piuma e la biglia (Lo specchio Mondadori), Le bugie dei poeti (Scheiwiller), e I profitti del cuore (Scheiwiller). In veste di critico letterario ha scritto su Boine, Montale, Fellini e così via. Ha vinto vari premi tra cui il Selezione-Campiello, l’Estense, il Città di Modena per la critica, e tenuto conferenze e dibattiti in diverse capitali europee.

Il Messaggero è, a mio avviso, una sorta di quotidiano a metà strada tra un quotidiano cittadino (il giornale di Roma, per utilizzare proprio lo spot del giornale) e un quotidiano nazionale, proprio per il fatto che a Roma arrivano non solo i più importanti eventi culturali italiani, ma vi passano anche gli scrittori più in voga del panorama mondiale. Sempre ammesso che sia valida la mia premessa, cosa significa occuparsi di cultura in un quotidiano riconducibile a questa tipologia?

Mi è capitato di recente di curare un inserto del mio giornale per i suoi primi centotrentacinque anni di vita. Una sfilata di grandi firme che poi corrispondono a tutti, o quasi, i grandi nomi della letteratura e della cultura italiana. Scrittori, filosofi, poeti, grandi inviati che si ritrovano, sfogliando a volo d’uccello i fascicoli. Con un inizio travolgente, il reportage di Giuseppe Bandi, esclusiva davvero ghiotta per un quotidiano appena nato, che è restata la memoria più serrata e veritiera dell’impresa garibaldina. Un autentico tesoretto e le gemme possono chiamarsi Trilussa, lo scanzonato cantore-commentatore dei fatti del giorno sulle colonne del Messaggero belle epoque, in polemica grazie alle macchiette di costume e alle favole esopiane con i facili versificatori e gli strimpellatori in dialetto. Un’ardente querelle, la prima, forse, che si trascinò a lungo. O, dopo un’ottantina di anni, ecco il funambolico Giorgio Manganelli con gli «improvvisi per macchina da scrivere», corsivi di prima pagina, capovolgimenti del senso comune, dove la quotidianità si eleva a dimensione fantastica.

Un macramè, con raffinati colpi di tombolo in cui possono incrociarsi un d’Annunzio ancora protagonista con le sue prime teatrali o i grandi maestri della novella, come Tozzi, la Deledda, Pirandello. Che combatte una battaglia teorica e pratica per l’autonomia e la dignità dell’autore teatrale e ispira anche le scelte dei collaboratori del Messaggero della domenica, l’ebdomadario che è un vero panorama della letteratura dei primi decenni novecenteschi, da porre accanto ad esempi illustri, quali “La lettura” del “Corriere della Sera”. A usare i generi della «terza», come l’elzeviro (per lungo tempo il suo emblema spesso con il vezzo della divagazione estemporanea, erudita, allegorica, autoironica), il reportage, l’intervista, la recensione, troviamo tra i tanti Moravia, Pavese, Comisso che “provano” sul giornale testi di libri importanti. E, ancora, Morante (che poi scelse nel 1974 “Il Messaggero” per anticipare “La Storia”), Cardarelli, Alvaro, Carrà, Flaiano, Longanesi, Montanelli inviato di razza nei luoghi del conflitto. E Croce, un rapporto molto continuo quasi organico con il quotidiano, il quale ritrova la freschezza giornalistica d’una volta, a più ottanta anni, con interventi attuali, polemici, incalzanti.

Tutto avviene grazie a quella sintesi particolare tra informazione e cultura, giornalismo e letteratura che è stata appunto la terza pagina, anche per Il Messaggero, dall’età giolittiana fino all’altro ieri. Quando essa si è trasformata profondamente ed è anche diventata il crocevia di un’informazione molto attualizzata, di dibattito, di confronto, di polemiche culturali. Dal famoso «scrivere bello» su cui lanciava i suoi strali Pirandello a luogo di lettura e comprensione della società in cui viviamo.

Oltre a essere giornalista, sei anche un raffinato critico letterario, scrittore e poeta. Quanto incide questa tua “seconda attività” nella scelta degli argomenti di cui ti occupi?

Non mi sono mai sentito un’anima scissa e ferita da tanto accumulo di scritture. Il giornalista chiedeva riflessi pronti, lo scatto di un centometrista nella volata bruciante. E poteva frenare quello scatto con la maggiore durata riflessiva richiesta al critico magari sullo stesso terreno e poteva camuffare il tutto, con una necessaria agitatina per l’uso del cocktail, nello sguardo dello scrittore e del poeta che è sempre (come sapeva Goethe) una forma superiore dell’occhio. E ripartendo da quest’ultimo anello, quello della scrittura più dichiaratamente creativa, sicuramente per minimi spostamenti qualcosa di quell’attenzione e di quella concentrazione ho cercato di farle scivolare nelle pratiche più volatili del giornalismo culturale, nelle diverse forme della recensione, dell’elzeviro, dell’inchiesta, della semplice informazione a uso e consumo di un ipotetico lettore. Insomma travasi da una parte e dall’altra all’interno di una condizione in fondo sempre di equilibrio anche difficile. Magari precario, perché l’informazione poteva non servire del tutto al poeta e la folgorazione del fare versi poteva portare fuori strada, rendere inutilmente “poetica” l’informazione.

Utilizzi uno stile differente a seconda del luogo sul quale scrivi (giornale, libri)? Cosa significa per te fare cultura nei media?

Una volta, almeno, c’era l’Elzeviro e capitava che Roberto Ridolfi – lo straordinario biografo di Machiavelli – ne scrivesse uno sul fiocco rosso dei bovi del Mugello. La terza pagina occupa un posto sicuramente nevralgico della storia del nostro giornalismo. Snodo insostituibile per capire i rapporti tra letteratura e informazione. Un pezzo consistente della prosa di casa nostra, di quella più consistente e visibile dal pubblico. Che attraversa un lungo periodo della storia italiana, appunto dal giolittismo fino agli settanta. Il cui successo è dovuto senz’altro alla fragilità della società civile, alla debolezza del ceto intellettuale, alla arretratezza del sistema informativo, alla predisposizione dello scrittore al bello scrivere, alla stoccata eccellente.

E ora, che ne è della cultura di terza pagina, come si fa informazione culturale? Ogni giorno si è chiamati a scegliere, a mediare, a sperimentare. Sul corpo dì una materia che si è di molto allargata, che cerca sempre più agganci con la società, che ha perduto un suo modo di essere senza per questo sapere esattamente dove dirigersi.

Dove iniziano e dove finiscono i confini dell’attualizzazione e della spettacolarizzazione imposti dall’incalzante presenza della TV e dei nuovi media? I libri che sempre di meno si recensiscono sono occasioni per reali approfondimenti tematici oppure semplici pretesti divagatori? Le pagine culturali sono lo specchio della classe intellettuale che vi si riflette magari spesso in modi troppo autoreferenziali? Non si esagera forse a parlare dei libri di coloro che ogni giorno scrivono per delle testate su cui appaiono anticipazioni, interviste, recensioni, con l’inevitabile sospetto che si tratti di una forma di complicità più o meno velata? Grandi questioni in un universo che si trasforma ogni giorno con sbandate e assestamenti sullo scenario (contraddittorio?) di una domanda culturale forte e indifferenziata e di una (apparente) marginalità della materia per ragioni di mercato c di audience.

Qual è attualmente il mezzo che ritieni più idoneo per trasmettere o anche per produrre cultura?

Oggi i canali di informazione e di produzione di sapere culturale si sono profondamente trasformati e con la rete (e le sue grandi possibilità) è nato anche un nuovo modo di parlare di libri, di scrittori, di “premiarli”. Muoversi tra blog e siti letterari significa molto spesso entrare nel vivo delle questioni, conoscere scrittori nuovi e nuove modalità espressive.


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