L'arte del tradurre

Sul Tradurre. Conversazione con Stefano Benni

Il 20 novembre 2018, presso la Sala Goldoni di Palazzo Gallenga dell’Università per Stranieri di Perugia, si è tenuto l’incontro intitolato Sul Tradurre, Conversazione con Stefano Benni, parte di un ciclo di conferenze sul tema della traduzione e della letteratura, organizzato dai Professori Roberto Vetrugno ed Enrico Terrinoni, docenti del corso di Laurea Magistrale TRIN. Il testo presentato è una rielaborazione della sbobinatura effettuata trascrivendo l’audio originale, che è stata principalmente interessata da interventi quali riformulazioni di tipo sintattico, introduzione di segni di interpunzione ed eliminazione di ripetizioni. Si osserva che il lessico non ha subito sostanziali variazioni in quanto sono state fedelmente riportate le parole pronunciate dagli oratori durante la conferenza. Qualora si siano omesse delle parti, come nel caso delle letture di testi, queste sono state indicate con i punti di sospensione all’interno di parentesi quadre: […]; in caso di intervento diretto della redattrice finalizzato a esplicitare o chiarire il contesto, le parole sono state inserite in corsivo tra parentesi quadre: [esempio]. I nomi degli oratori sono stati riportati con le iniziali: Stefano Benni (S. B.), Marguerite Pozzoli (M. P.), Enrico Terrinoni (E. T.), Roberto Vetrugno (R. V.). A seguito dei saluti e della presentazione del Professor Terrinoni, i due ospiti, Stefano Benni e la sua traduttrice francese Marguerite Pozzuoli, hanno dialogato su temi inerenti a traduzione e letteratura. Si presentano i passi salienti della conversazione e gli interventi del pubblico.

E. T.: Non so se vi è già capitato in passato di partecipare a incontri in cui autore e traduttore si confrontano e parlano di come l’opera in traduzione diventa anche un’altra cosa, diventa quasi una vita oltre la morte dell’opera, nel senso che riesce a vivere in un’altra lingua [rivolgendosi al pubblico]. […] Lascio a voi la parola per il dialogo [rivolgendosi a S. B. e M. P.].

S. B.: Con Marguerite, come con altri traduttori, è nata un’amicizia in questi anni, perché dopo aver lavorato per dodici anni su dei libri non proprio semplici da tradurre, o ci si scontra, o si diventa amici. Sono diventato amico anche di altri traduttori, con altri ho avuto rapporti più formali, con un paio ho litigato furiosamente, specialmente con gli inglesi. Se ci sono degli inglesi qui… ma con gli inglesi non sono mai andato d’accordo! Chi mi conosce sa che quando faccio gli incontri parlo sempre dei traduttori e ne parlo bene perché trovo che sia un lavoro preziosissimo di cui non ci rendiamo conto. Leggiamo moltissimi testi senza renderci assolutamente conto che il ritmo, la bellezza, la prosodia di quello che stiamo leggendo è passato attraverso questa fatica, questa bella fatica, del traduttore. Se a volte sentiamo qualcosa che stride, diamo la colpa allo scrittore quando magari è il traduttore che in qualche modo non è riuscito a renderlo interessante. Fin da quando ero piccolino, secoli e secoli fa, ho avuto questa vocazione di andare a leggere i libri anche in lingua originale pur non essendo un esperto né di inglese né di francese, ma ricordo che il primo Edgar Allan Poe che ho letto, l’ho voluto leggere in inglese e ho capito molte cose. Non è obbligatorio, ma è un bello sforzo: rendersi conto di qual è la musica, qual è l’incanto di uno scrittore in lingua originale e poi goderselo, magari, anche in una traduzione. Quando poi mi sono trovato dall’altra parte, dalla parte del tradotto, ho avuto subito paura perché avevo visto delle traduzioni molto brutte. Ho avuto due o tre grosse delusioni e ho capito che l’unico modo per salvare l’anima del proprio testo, non al 100% ma l’anima, l’incanto, la musica, il sapore (ed è possibile), è non considerare il rapporto di traduzione un incontro tra due grammatiche, ma accettare l’idea che il traduttore debba essere anche un po’ artista e se lui non vuole esserlo, obbligarlo a inventare, a sforzarsi.
Questo con Marguerite è stato facile fin dall’inizio, con altri no; alcuni perché se ne fregavano, altri perché lo ritenevano un di più e dicevano: “A che cosa serve mandarci venti lettere o centoventi mail?”. Come faccio con te [rivolgendosi a M. P.] o come facevo con il traduttore tedesco. Serve perché su ogni parola può esserci un dubbio. A te [rivolgendosi a E. T.], che hai tradotto questo giovane scrittore James Joyce, credo che manchi il fatto di poter dire: “James, ho tradotto bene questi due primi aggettivi su cui tutti si stanno scontrando?”. Invece, essendo io momentaneamente vivo e Marguerite molto più giovane di me, abbiamo avuto questa bellissima possibilità di lavorare insieme e io ho sempre detto che il traduttore deve essere un po’ artista. Forse con una concentrazione diversa rispetto a quella dello scrittore, ma se rinuncia a questa sua capacità di essere protagonista del testo, perde qualcosa. Non guardarmi con quell’aria severa! [rivolgendosi a M. P.]. Ovviamente questo lo posso fare con le lingue che conosco che sono il francese, l’inglese, lo spagnolo, il giapponese che io parlo benissimo… non è vero! Però ho un traduttore giapponese con cui riesco a comunicare perché parla un italiano seicentesco molto migliore del mio e ogni tanto mi dice: “Mentre ci appropinquiamo a questo luogo, posso io colendissimo rivolgere…”. Quindi il fatto di mandarci tante mail fa sì che io sappia che la mia traduzione giapponese è, come dire, fortemente desiderata ed elaborata e che al traduttore piacciono i miei testi. Perché c’è anche un altro problema di cui non si parla mai: spesso le case editrici affidano i libri a traduttori a cui non piacciono i testi. A te è mai accaduto? Rispondi di sì con un autore italiano che non mi piace… [rivolgendosi a M. P.]. È vero, non si amano tutti i testi nello stesso modo. Io ho scoperto, ad esempio, che una traduzione di Terra vergognosa in inglese era dovuta a un traduttore che diceva: “Ah! Ma io traduco solo Simenon, la fantascienza non mi piace!” Io ho detto: “Cazzo!”, che lui non ha tradotto però ha capito, “…e perché, allora, lei si sente obbligato a tradurre un mio libro?” Lui dove non capiva, saltava. Fu un massacro, però fu anche una lezione. Quando mi dicevano: “Ti mettiamo come traduttore quella persona”, io rispondevo: “Ma il mio libro, non dico ne va pazzo, non dico lo consideri il più gran libro, ma gli interessa tradurlo? Perché se non gli interessa…”. Io ho tradotto solo due libri in vita mia, ma erano libri che mi interessavano fortemente. Dove è che ho scoperto questa cosa di quanto fossero importanti i traduttori? Ad esempio, io ho una grande passione per Raymond Queneau, lei lo sa [rivolgendosi a M. P.], e ho letto Raymond Queneau con le traduzioni di Fortini e Calvino. È una grande fortuna avere due traduttori così perché vuol dire che quando poi lo vai a leggere in francese, ti accorgi che hanno fatto un lavoro splendido. Sull’Ulisse dovremmo parlare dei mesi. Recentemente ho ripreso in mano Rabelais, Gargantua e Pantagruel, l’ho provato a leggere in francese ed è quasi impossibile per me afferrare tutte le sfumature perché lui ha reinventato il francese; però Mario Bonfantini, cinquant’anni fa, è riuscito a fare una traduzione fantastica. Mi sono reso conto anche che Rabelais, cinquecento anni prima, aveva già inventato tutto quello che credevo di aver inventato io. Questo mi ha fatto molto arrabbiare! Invece, lo so perché sei curiosa [rivolgendosi a M. P.], io amo molto Carlo Emilio Gadda, quando ho letto la traduzione di Manganaro, per non fare il nome di Carlo Emilio Gadda, sarei andato a casa sua a prenderlo a schiaffi. La trovo una traduzione orrenda perché lui di Gadda non ha capito una cosa: l’ironia. Quindi ha tradotto benissimo certi ritmi, certi argot, ma l’ironia e la poesia di Gadda secondo me non l’ha capite. Poi su questo possiamo imbastire una bella polemica e ne parlo con Marguerite Pozzoli. Nel senso che io non sono poi più riuscito a leggere Gadda in francese, lo posso leggere in italiano, ma avevo questa curiosità.

M. P.: Non parlerò di Manganaro perché so che lui si è innamorato pazzamente di questo libro di Gadda e quando dici che bisogna anche essere un po’ innamorati di un testo per tradurlo, è vero.

S. B.: Si sarà innamorato ma ha perso la testa, insomma. Come succede spesso, non l’ha più visto.

M. P.: Io pensavo a quello che hai scritto in una poesia [rivolgendosi a S. B.]: “Tradire, tradurre, tramare sono trappole, forse, del male”; ma alla fine dici: “Tradire, tradurre, tramare son necessari all’amore”. Ho pensato a questo anche perché, quando si traduce Stefano Benni, non si può assolutamente essere fedeli, poi la questione della fedeltà è una grandissima domanda; in francese si direbbe che non si può rester près du texte, nonostante in genere io preferisca allontanarmi il meno possibile dal testo, rispettare il ritmo, etc. Ho imparato moltissimo traducendo Stefano Benni anche perché mi ha dato consigli, mi ha indirizzato, mi ha detto dove andare, dove non andare. Mi ha anche sgridata all’inizio perché forse gli rivolgevo delle domande molto cretine così una volta mi ha detto: “Ma perché non ti compri un buon vocabolario Devoto?”. Quando poi ci incontravamo a Parigi o ad Arles, in un bar, parlavamo dei libri, di Margherita Dolcevita, e mi ha aiutato a trovare il nome del cane perché io per Pisolo pensavo a Roupillon perché roupiller vuol dire ‘sonnecchiare’ e mi ha detto che era bello perché avremmo potuto anche chiamarlo Roupillon de Roupic, con un soprannome. Quindi abbiamo aggiunto qualcosa in più nella traduzione francese. Non abbiamo avuto numerosissime discussioni, ma ogni volta mi sono state molto preziose per sapere in quale direzione dovevo andare, come dovevo orientarmi. Anche perché tradurre non è solo essere innamorati di un testo, significa anche non essere sordi e sentire la voce che parla attraverso quel testo. Ogni autore non ha solo la sua voce, ma può avere anche, secondo il romanzo, secondo il libro, una voce diversa. So che, ad esempio, Giorgio Pressburger in tre o quattro libri non ha la stessa voce in ognuno. Nei libri di Stefano, non solo la voce è diversa, ma ci sono, in uno stesso libro, cinque, sei, sette, moltissime voci che si incrociano perché, come sapete, è anche un uomo di teatro, dunque, disegna i personaggi anche attraverso il loro modo di parlare e poi gioca con i livelli di lingua, gioca con le pastiche… è come tradurre jazz, in cui ci sono una gran quantità di musiche e anche cambiamenti di tono. In una stessa frase, si può avere un tono molto alto in cui poi inserisce una parola bassa che introduce l’ironia, che cambia, dà questa forza ed energia al testo.

S. B.: Scherzando, una volta ho detto: “Sono tradotto in parecchie lingue, anche in italiano!”. Perché una volta un uomo, credendo di farmi un complimento, mi ha detto: “Però lei non scrive in italiano!”. “No, io scrivo in italiano, ma l’italiano è una lingua meravigliosa! Ci sono tante occasioni in cui parlo male dell’Italia, ma non posso parlar male dell’italiano che è una delle lingue più belle del mondo perché è una lingua meticcia, polifonica perché è un po’ latino, un po’ greco, un po’ arabo, perché ha dieci argot diversi. Queste sono le musiche che ho ascoltato quando ero giovane, una per una, e allora perché avendo a disposizione quest’orchestra di voci, non dovrei usarla?”. E allora mi risponde: “Però ha un linguaggio troppo complesso”. È la complessità della mia lingua che è meravigliosamente varia. Quindi, anche con Marguerite, ogni volta ci siamo soffermati a dire: “Ecco, qui è una parola che ha una desinenza greca, qui è il latino, qui è un dialetto del nord, questo è un dialetto del sud, qua è una parola-mostro, quindi è inutile che la cerchi nel vocabolario perché non esiste”. Quindi una scrittura orchestrale probabilmente è più difficile da tradurre rispetto a una scrittura che ha una meravigliosa musica ma che è un quartetto o un assolo. Sicuramente la scrittura di Joyce è una scrittura almeno di quattro orchestre che si scontrano in due treni; non si può dire che la lingua di Joyce sia solo inglese perché è la lingua joyciana. Quindi in questo senso comunicare con l’autore vuol dire moltissimo; quando lei mi chiedeva: “Ma questa parola qui esiste?” Io le rispondevo: “No, però nella mia testa vuol dire questo”, oppure: “È dialetto del nord o del sud; c’è un equivalente, un dialetto provenzale, un dialetto normanno, etc.”. Ovviamente tradurre così comporta una maggior fatica, ma se un traduttore ci tiene a un buon risultato, non vedo perché non debba fare questa fatica, che è una fatica artistica, cioè di chiedere alla propria scrittura di più, come lo scrittore chiede alla propria scrittura, in continuazione, di andare più nel profondo, nell’etimo, anche il traduttore si deve chiedere: “Sì, ho tradotto, ma posso tradurre meglio una brutta parola? Posso avvicinarmi ancora di più?”. Non grammaticalmente, ma verso l’incanto o l’incubo. Con Marguerite mi sono sempre trovato molto bene perché un po’ di francese lo parlo. E devo dire anche con Schmidt Henkel il traduttore tedesco, anche se io parlo malissimo il tedesco, ma la sua disponibilità era tale che alla fine la parola la trovavamo, nonostante la grande differenza di timbro tra l’italiano e il tedesco. Mentre tra l’italiano vocalico, il francese vocalico e lo spagnolo vocalico ovviamente c’è una vicinanza di timbro, tra l’inglese e l’italiano c’è da farsi tremare le vene dei polsi. Quindi quando mi dici che traduci Joyce [rivolgendosi a E. T.], quattro righe di Joyce probabilmente diventano sette righe in italiano. Quindi lì è un discorso di rifrazione molto difficile, però se ci sei riuscito e sei contento, vuol dire che alla fine hai fatto un lavoro che è il lavoro di un artista, il traduttore è un artista senza la A maiuscola, ma neanche lo scrittore lo è. È necessaria una sintonia tra traduttore e autore e, secondo me, senza questa sintonia il rischio è che un traduttore traduca benissimo alla sua maniera, ma che poi l’autore non si ritrovi più nel testo. Ad esempio, Alain Sarrabayrouse era un grande traduttore, ma non mi ritrovavo in lui come nei tuoi testi. Era molto bravo, sì, era molto bravo ma ci scrivevamo poco, allora non c’era Internet. Internet è un grande mezzo di aiuto, secondo me, per i traduttori perché, anche alle 4 di notte, si possono avere dei dubbi. E quindi eravamo molto poco in contatto, però sì, era molto bravo.

M. P.: Non voglio dire che il traduttore debba essere un pedante, anzi, non deve assolutamente esserlo, ma se si traduce Achille piè veloce, non solo c’è la cultura di base sull’Iliade e l’Odissea, ma è meglio aver letto Les fleurs bleues di Raymond Queneau perché è come un testo che sta sotto il testo italiano. Se traduco Di tutte le ricchezze, c’è Martin Eden, che sono andata a leggere per via del libro, c’è Le notti bianche di Dostoevskij, c’è spesso anche Dino Campana; c’è tutta una biblioteca all’interno. Tu ogni tanto mi hai anche regalato dei libri; sei tu che mi hai fatto scoprire Sylvia Plath, che è una delle tue scrittrici e poetesse preferite [rivolgendosi a S. B.]. Tradurre è anche entrare nel mondo, nella testa, nella biblioteca dell’autore.

Anche in Margherita Dolcevita c’è un pezzettino che è un po’ una riscrittura, o forse neanche una riscrittura, di Lolita di Nabokov. Non è che questo aggiunga una difficoltà, io direi che allarga anche il mio mondo, la mia cultura. Quello che mi è sempre piaciuto nella traduzione è che si può tradurre degli autori assolutamente diversi tra loro e arricchire costantemente il proprio mondo. Io ero insegnante di francese, dunque avevo in mente Baudelaire, Rabelais, degli scrittori che mi hanno nutrita. Quando ho tradotto ero già vecchia, avevo quarant’anni, e non è stato male perché avevo già un bagaglio che mi ha permesso, di tanto in tanto, di andare a pescare qua e là qualche termine di Rabelais, di Raymond Queneau, che mi aiutavano a entrare anche nel tuo mondo.

S. B.: Hai citato Campana parlando del libro Di tutte le ricchezze, quando si entra nel mondo della poesia, allora tutto diventa più misterioso. La poesia con il testo a fronte è già un grande aiuto però, insomma, io mi sono innamorato di Omero perché ho avuto la fortuna di avere un professore che me lo faceva leggere in greco. Quindi specialmente per la poesia, nonostante ci siano traduttori straordinari, la fatica di andare a leggere il testo in lingua originale bisogna farla, è quasi necessaria, perché si tratta di una lingua di una precisione estrema. Non è neanche la rima, basta che ci sia un salto metrico e la poesia diventa un qualcosa d’altro; non a caso Baudelaire si può leggere in sette traduzioni diverse, poi ognuno sceglie quella che preferisce. In Di tutte le ricchezze c’era questo poeta […] che era un po’ un Campana, un po’ Ligabue, insomma, un pazzo rinchiuso in manicomio. Neanche io ho avuto molti consigli da dargli perché lui scriveva delle poesie in rima, scriveva delle poesie in verso libero e quindi a un certo momento c’è stata anche la tentazione di lasciarlo in italiano ma poi invece Marguerite è andata dentro e ha fatto un lavoro della madonna e c’è riuscita. Poi però alla fine abbiamo messo anche le poesie in italiano. […] Per le poesie, direi che uno sforzo è necessario. Io adoro i poeti russi, ma non so il russo, però mi sono ascoltato Majakovskij che si leggeva e qualcosa ho capito, ho capito la forza e l’energia che veniva da una poesia di Majakovskij. Poi è ovvio che Majakovskij, letto da Carmelo Bene, per me è e sarà sempre Majakovskij letto da Carmelo Bene. Ma non è il vero Majakovskij, è un resa; però l’anima di Majakovskij, l’energia di Majakovskij, il dolore di Majakovskij c’è, perché Carmelo Bene era un genio, ma sentirlo in originale, in questa lingua durissima, roca quale è il russo, per me è stato una rivelazione. Da quel momento non sono più riuscito a leggere Majakovskij senza pensare a quella musica. Tu hai sentito la voce di Joyce? [rivolgendosi a E.T.] Quando ho sentito Eliot leggere La terra desolata sono rimasto malissimo perché la leggeva con una calma, con una tranquillità, senza un accento… e perché? Perché lui era il poeta e la sua poesia per lui andava letta in quel modo, senza enfatizzare, mentre invece io ne avevo fatto una specie di operetta rock. Ma dopo averlo sentito, ho pensato che nonostante non fosse quello che mi aspettavo, la musica di Eliot era quella e io avrei dovuto rispettarla. Ho fatto un audiolibro dell’opera e quella voce che cantava così flebilmente La terra desolata ha cambiato totalmente la mia impostazione dell’audiolibro. È una fatica, ma chi ha detto che leggere deve essere facile? Per leggere bisogna sforzarsi e anche se non si conosce il greco, possiamo benissimo farci leggere un pezzo dell’Iliade da qualcuno che sa il greco e sente la musica. A volte siamo veramente molto pigri nella lettura e il risultato è che poi succede qualcosa che ci sorprende totalmente come, ad esempio, che un giorno senti Anthony Hopkins leggere Dylan Thomas e dici: “E questo da dove arriva? È qualcosa che io non avevo, una possibilità che io non avevo”. Il traduttore deve essere sempre pronto a sentire la voce dell’autore in modi differenti. Diceva Eliot: He do the police in different voices, ‘fa la polizia il verso dei poliziotti con differenti voci’, per dire che a volte in letteratura, uno scrittore può avere nove cuori, dieci voci, dieci stili e anche se la modernità vuole chiudere tutti gli scrittori dentro a delle scatoline, per fortuna, gli scrittori che piacciono a me scappano dalle scatole ed è difficile definirli. Mettimi Joyce in una scatola e poi scrivici “Joyce: complesso”, ma vaffanculo! Cerchiamo di far uscire gli scrittori dalle scatoline per metterli dentro a degli scatoloni più grandi e per farlo abbiamo bisogno del prezioso lavoro dei traduttori con cui a volte ci si scontra. Anche noi qualche volta ci siamo scontrati, no? Non in modo forte [rivolgendosi a M.P.].

M. P.: Poco fa abbiamo avuto una discussione a tavola con una persona che diceva: “Nelle traduzioni si perde sempre qualcosa, non bisogna leggere le traduzioni, etc.” e io ovviamente cercavo di difendere, non solo il mio lavoro, ma anche la figura del traduttore e di fronte a me c’era una signora che legge moltissimo e che ha risposto: “Ma guarda che anche quando leggi perdi qualcosa; non è che tutti i lettori carpiscono tutto in un libro. Il traduttore sì. Può perdere qualcosa ma cerca di recuperarlo in un altro modo; quello che in una riga non può tradurre in modo perfetto (poi cosa vuol dire tradurre bene, tradurre perfettamente?), lo recupera qualche linea dopo”. Ricordo la famosa scena del caffè di Eduardo De Filippo, credo in Quei Fantasmi, dove chiede quale sia il miglior modo per fare un caffè buonissimo. Anche il traduttore cerca di dosare, di mettere un po’ di questo, un po’ di quello, di togliere o aggiungere quando necessario, soprattutto in francese che può rivelarsi una lingua tremenda perché molto tirannica rispetto alla struttura della frase, alle preposizioni, etc. Ma si può giocare moltissimo su delle cose minime. Lo diceva anche Umberto Eco che tradurre è dire quasi la stessa cosa ed è in questo ‘quasi’ che bisogna vedere cos’è che conta di più per il traduttore.

È vero che potrei sacrificare qualcosa del significato se devo conservare il ritmo o la musica, che mi sembrano delle cose importantissime non solo in poesia, ma anche in prosa. Stefano mi ha aiutato a inventare le parole in francese, per esempio, c’era il cavolo diavolo ne La Compagnia dei Celestini, e lui mi ha fatto pensare a le loup-garou, il ‘lupo mannaro’, suggerendomi di chiamarlo le chou-garou. […] Un po’ più difficili sono i nomi dei bar, ad esempio, il Bar Fico, che sembra molto semplice ma non lo è. Per mantenere il gergo avrei potuto scegliere chouchotte, ma chouchotte è femminile, oppure minés, les minés ma alla fine ho optato per le Bar Branché, perché branché è una parola che usava anche Mitterand e così sono venuti fuori anche gli stuzzifichi che non erano gli amuse-bouche, ma amuse-branchés. Anche per tradurre il Bar Peso ho dovuto cercare moltissimo anche perché è un po’ il contrario del Bar Fico e alla fine ho scelto le Bar Plouc.

S. B.: “Peso” è dove la gente non vuole una pastina ma vuole una torta, vuole sentire sbattere il bicchiere di vino, non gli puoi dare mezzo bicchiere di vino, ti ammazza!

M. P.: Piccoli tradimenti: la pasta alla separati (lui dà moltissime ricette di cucina) in cui ci sono due cose che non vanno d’accordo.

S. B.: Se ricordo bene, è quando riesci a fare uno spaghetto con il pomodoro, lo spaghetto va da una parte e il pomodoro dall’altra e il risultato è che non si amalgamano i sapori. Quando cucini in fretta e fai due cose e ognuna va per i cazzi suoi quindi se sei un cattivo fuoco…

M. P.: Io ho cambiato un po’, non ho tradotto con le pâtes a la séparé, ma pensando alla politica ho scelto le pâtes en cohabitation forcée. […] Poi ci sono i nomi, c’erano i “dodici bananoni”.

S. B.: Dodici che?

M. P.: Bananoni…

S. B.: Oddio… questo non me lo ricordo, chi erano i “dodici bananoni”?

M. P.: Questi li ho un po’ trasformati e sono diventati: batbanane, non il batman, ma il batbanane.

S. B.: Ma dove ho messo i “dodici bananoni”?

M. P.: In Bar Duemila.

S. B.: Devo essere responsabile di quello che scrivo! Ah sì! C’è un bambino che gioca con un videogioco e i bananoni sono come dei mostri che deve distruggere.

M. P.: E poi il superpicchiotrivella.

S. B.: Il superpicchiotrivella, sì. Qui c’entrano anche i cartoni animati, hai presente l’onnipotenza plastica dei cartoni animati? Dove un personaggio è un po’ lupo, un po’ uomo, come Pippo. Ci sono delle parole che sono dei cartoni animati, cioè, che si possono allungare.

M. P.: […] Parlando del ritmo, hai citato Magrelli che nel suo libro sulla traduzione afferma che c’è un erotismo del ritmo, nel senso che quando l’autore velocizza una situazione, si percepisce. Tradurre Achille piè veloce mi ha resa molto felice, perché ci sono tutte quelle musiche e quei momenti in cui lui si addormenta e poi si sveglia e dunque cambiamenti di ritmo. Ad esempio, nella scena in cui mentre dorme viene assalito da scrittodattili. Lui lavora in una casa editrice, dunque deve leggere molti manoscritti e sogna che da quei manoscritti escano dei piccoli personaggi che lo assillano.

S. B.: Anche scrittodattilo è un’invenzione. Quelli che dicono che la scrittura è una cosa antidiluviana, quindi lo pterodattilo, adesso quello che non arriva per Internet, allora, quando ho scritto il libro, era considerato uno scrittodattilo. Questo è uno scrittodattilo, cioè, “non arriva”. Dunque lui ha gli scrittodattili in tasca; gli scrittodattili cominciano a parlare e lui ha delle allucinazioni.

E. T.: Ci sono situazioni che non sappiamo come risolvere, come la traduzione di Orso Bruco, perché ha molti rimandi, lei [rivolgendosi a M. P.] poi ha tradotto persino L’Artusi, quindi siamo all’interno di una logica molto complessa. L’Orso Bruco rimanda a talmente tante cose che forse richiede una riscrittura, una ricreazione. Nel caso in un cui un traduttore ricrea, perché a volte è costretto di fronte a certi giochi, come ad esempio per Saltatempo che probabilmente sarà stato molto più facile di Orso Bruco, un autore come si sente quando è costretto a vedere il suo testo vivere un’altra vita?

S. B.: In realtà è una sfida, se il traduttore traduce con una parola che ha inventato lui o lui è capace di fare meglio oppure accetta la sfida; qualche volta Marguerite inventa una parola e io non son capace di fare meglio, qualche volta, come per Roupillon e Roupic. È una sfida. Questo accade ovviamente quando lo scrittore ha una minima padronanza della lingua straniera, che ho acquisito sforzandomi di leggere in altre lingue, non per snobismo, ma perché amo talmente i libri che voglio leggerli nella lingua in cui sono scritti. Sono quei casi in cui l’invenzione è qualcosa di diverso, nasce qualcosa di diverso, però se funziona, se fa ridere, allora va bene. A volte, mentre scrivo, mi rendo conto che c’è forse qualcosa di intraducibile, tipo gli insulti in emiliano nella battaglia tra Achille ed Ettore, però dico: “Cazzi del traduttore! Probabilmente ci riuscirà, se c’è riuscito Celati con Céline…” Quando c’è qualcosa in cui non ti riconosci più, allora è molto triste, perché comunque hai faticato per scriverla, o anche quando trovi errori di interpretazione (non ne ho visti molti, ma qualcuno sì), quando vedi che il traduttore salta a piedi pari una cosa che era problematica, allora mi incazzo!

M. P.: Avevo preso questo esempio che mi ha creato grandi difficoltà: è un dialogo estratto da La Compagnia dei Celestini in cui due ragazze fanno una graduatoria ideale di charme dei loro compagni di classe.

S. B.: Quello è il gergo dei quindicenni che io ho studiato a fondo perché mio figlio aveva quindici anni quando l’ho scritto e parlano un argot che conoscono solo loro al mondo, però molto efficace. Ad esempio, il puffo non esiste quindi c’è lo schtroumpf. Però è chiaro, si capisce che taglia puffo vuol dire che non è dotatissimo. Anche le parolacce sono molto difficili da rendere perché non devono essere né molto di più, ma neanche molto di meno. Il famoso problema di Céline, cioè Céline bestemmia o no? Per me sì, però in molte traduzioni ci sono dei “Per Dio” che secondo me non sono per lui “Sacré Dieu”, queste cose qui, sono vere bestemmie, specialmente nelle sue invettive.

M.P.: L’ultimo esempio che ho preso è della poesia, quelle famose poesie in Di tutte le ricchezze di cui ti avevo mandato una prima stesura. Io non ero sicura di me stessa, ma non ero neanche del tutto scontenta e te mi hai detto: “No! Mettile in italiano”, che era veramente una condanna tremenda. Ho fatto una cosa che non avevo mai fatto, ho chiamato un mio amico poeta con il quale avevo tradotto, Valerio Magrelli, e mi ha mandato la sua traduzione. Questa seconda tappa mi è stata molto utile perché ho visto quello che potevo conservare e quello che non volevo conservare e mi ha dato una libertà maggiore. Poi ho lavorato moltissimo, ho cercato nei dizionari, sono diventata un’ossessa per qualche tempo, chiedevo persino pareri alle persone che incontravo per strada; dunque, ho fatto una cosa che non è génétique de la traduction, non abbiamo questa pretesa, ma è per mostrare una piccola parte del lavoro che si può fare con la poesia.

M. P.: Stessa cosa in una piccola strofa di quattro versi di quella poesia basata sui giochi di carte.

S. B.: Fiori, Picche, Quadri, Cuori. Quella è difficile perché è un’imitazione di un madrigale e quindi la rima è molto importante.

M.P.: Dunque, l’ultima strofa che è anche la più importante, Cuori, la conosci a memoria no?

S. B.: No.

M.P.: Non la conosci a memoria? Ce n’est pas possible.

S. B.: Conosco a memoria solo la poesia della giraffa perché sono solo due versi

INTERVENTO 1: Grazie tante di questa bellissima lezione. Volevo chiedere fino a che punto il traduttore può essere libero di manipolare il testo? Abbiamo visto molte volte che grandi scrittori, non ultimo Primo Levi, nel momento in cui la casa editrice Einaudi gli ha affidato da tradurre Kafka, Il processo, l’ha confessato: si è permesso tantissime libertà, cioè, nel periodare complesso, contorto, lunghissimo di Kafka, lui, che amava la semplicità, che amava la frase semplice, che era chiaro, lucido, volutamente, mette molti punti e virgola, mette dei punti, cioè spezza dei periodi e soprattutto fa dei cambi di tipo sintattico. La cosa che noi notiamo è che il traduttore-scrittore di fronte al testo si pone con grandissima libertà, la stessa libertà che, per esempio, ha avuto anche Pavese quando si è accinto a tradurre gli autori americani. Doveva tradurre e rendere bene, in un dialetto o uno slang piemontese o para-italiano, quello che gli scrittori inglesi avevano reso in un modo sublime. Secondo molti autori e critici Pavese a un certo momento arriva a superare il suo modello. A volte c’è una gara tra il traduttore e lo scrittore, quindi c’è una certa libertà. Sicuramente anche tu ti sarai preso delle libertà con Joyce, pur rispettandolo ampiamente; ma viene un momento in cui bisogna spezzare qualche catena?

S. B.: Non c’è una matematica o dei logaritmi che dicono che fino a 10 si può e a 11 non si può più. Nel primo caso, se l’autore è vivo, ti può aiutare. Negli altri casi, sì, esistono traduttori che si prendono grandi libertà, esistono traduttori che, in qualche modo, reinventano lo scrittore. È una libertà possibile; io preferisco, in qualche modo, che l’anima venga salvata, che non venga troppo modificata. Nel caso sarebbe il lettore che dovrebbe giudicare, ma spesso il lettore non fa questo sforzo. Vediamo, ad esempio, quante libertà si è preso Pavese nel tradurre Moby Dick di Melville; ma alla fine dice, l’anima di Moby Dick l’ha resa o no? Sì! Allora il fatto che abbia tagliato delle intere parti è probabilmente un problema editoriale, non credo che sia un problema matematico. È un problema di sensibilità e qualche volta, sicuramente, ci sono delle traduzioni che tradiscono l’autore, ma io non ne conosco molte. Ho fiducia del fatto che quando un traduttore incontra un testo che gli piace, ne venga incantato e faccia del suo meglio. Poi magari ci sono dei traduttori vanitosi. Come anche quando vengono fatte le versioni dei libri per bambini che a me danno molto fastidio; di alcuni miei libri hanno fatto una versione tagliata, edulcorata per i bambini. Io non ho dato il permesso, mica perché ritenga la mia scrittura intoccabile, ma perché pensavo che quei testi fossero per dei bambini cretini, non per dei bambini e quindi ho negato l’autorizzazione. Io, vivo, mi possono difendere, Melville non si può difendere dalle sue traduzioni.

M. P.: Dipende anche da cosa si traduce. Ovviamente non ho tradotto il testo in prosa come ho tradotto le poesie. Nelle poesie a volte ho cambiato dei nomi o dei cognomi per via della rima. Invece nel testo in prosa cerco di rimanere il più vicina possibile, lascio anche alcuni nomi in italiano perché il lettore francese deve sapere che legge un testo italiano e ogni tanto bisogna lasciare delle tracce della lingua di origine. Benni non è francese, dunque non posso dare un testo francese al 100%. Non c’è nessuna regola che stabilisca cosa vada cambiato, io non ho un’idea fissa di traduttologia, perché con ogni autore ho l’impressione di ricominciare da zero, di ripartire, ognuno mi pone dei problemi diversi. Se traduco un testo tecnico, ma scritto male, ovviamente cerco di migliorarlo, di renderlo più chiaro, più accessibile. Se invece traduco un testo di un autore che sta molto attento a tutto, alla punteggiatura, al ritmo della frase, allora cerco di rispettare al massimo il ritmo e la punteggiatura, che è una cosa molto importante. Non sono d’accordo con chi dice che la lingua francese debba essere necessariamente classica, elegante, chiarissima, perché il francese ha molti autori estremamente diversi fra loro che l’hanno usata in cento modi e che l’hanno arricchita. Parlavo prima della tradizione delle belles infidèles che erano quelle traduzioni del Settecento fatte in un modo elegantissimo ma che si allontanavamo molto dall’originale. Se si legge una traduzione dell’Odissea o dell’Iliade del Settecento… è incredibile! Hanno tolto tutto quello che era, non solo sessuale, ma anche fisico: anche quando i personaggi mangiano, devono stare attenti a cosa dicono, come se vivessero alla corte di Luigi XIV. È rimasta un po’ in certi editori e correttori questa idea, […], invece io son piuttosto del parere di Antonio Prete che ha scritto un bellissimo libro intitolato All’ombra dell’altra lingua, in cui dice che bisogna ospitare nella lingua d’arrivo la lingua dalla quale si parte, ma bisogna ospitarla in un modo accogliente e senza essere dei colonialisti. Per Stefano Benni è diverso perché c’è tutta questa musica, questi ritmi che bisogna assolutamente far passare, dunque non c’è una regola fissa e secondo me quello che ha un’idea fissa in testa non può essere un buon traduttore perché ogni traduzione ci invita a uscire dalle scatole, come dicevi tu [rivolgendosi a S. B.].

E. T.: Forse c’è una cosa che può essere definita, la differenza tra il traduttore e lo scrittore. Quando a tradurre è uno scrittore, si dice che tendono a prendersi più libertà, in realtà forse tendono creativamente a raggiungere lo stesso effetto. Faccio un esempio perché è stato citato tante volte il grandissimo Celati, per esempio, per dire rimorso di coscienza Joyce non dice remorse of consciousness, dice Ayenbyte of Inwyt che è una frase cinquecentesca. Celati traduce con morsura animi, va sul latino e questa è una cosa geniale che solo uno scrittore può fare. Tutti noi abbiamo scritto chi i morsi dell’anima, chi altro… Però lo scrittore sa che può forse trovarsi sullo stesso piano rispetto all’autore. E quindi lo scarto creativo, che a volte viene considerato probabilmente un eccesso di libertà, è invece il modo forse di arrivare più a fondo.

INTERVENTO 2: Salve! Avrei una domanda che non riguarda la traduzione né della poesia né della prosa, ma è sulla traduzione del teatro: i testi Teatro e Teatro 2. Se la traduzione teatrale è difficile, quella di Stefano Benni lo è ancora di più, quindi, non so se lei ha tradotto anche i testi teatrali; quali sono state le difficoltà?

S. B.: Sì, ma non tanto. Normalmente ho avuto la fortuna che quando il mio testo era tradotto, ero io a interpretarlo. Cioè ti ricordi quando feci Misterioso, ad Arles, lo lessi direttamente io, Marguerite fece la traduzione e mi fece anche una lunga scuola perché il mio francese era pieno di errori e impressioni. Però ci riuscii e mi divertì. Quindi ci sono degli esempi di mie cose tradotte in altre lingue, però sono molte le lingue, tipo l’egiziano, che io non posso assolutamente controllare proprio come non posso controllare un libro in una lingua che non conosco. Mi vien da dire, però, che se Dario Fo, che non scrive in italiano, ma nel suo grammelot, è l’autore italiano (era…) più tradotto al mondo, vuol dire che tutti i traduttori hanno cercato di affrontare il mondo di Dario Fo e lì forse, oltre alla lingua di Dario che è molto ricca, c’è il fatto che basta vedere un suo filmato e lì, tutto quello che fa sul palco, in qualche modo viene reinterpretato. Io ho visto Jonathan Pryce fare Non si paga, non si paga! in inglese e non riconoscevo più Dario Fo, però la gente rideva molto e anch’io mi sono divertito. Lì è molto difficile perché è legato alla figura e un attore come Dario si porta dietro qualcosa che non puoi tradurre con un altro corpo. Ho sempre fiducia che le mie cose piacciano. […]

Ho visto degli spettacoli in francese de Il Bar sotto il mare molto ben riusciti. Però, appunto, lì l’attore, la scenografia, la cosa, introducono sicuramente tante cose nuove che non avevi previsto, però ti posso dire che una mia cosa in teatro, che è stata fatta da cinque attori diversi, da cinque compagnie diverse, tutte le volte si trasforma tantissimo. Quindi quando entri nel mondo del teatro sei pronto al fatto che l’attore, il regista, ma anche il fonico, il direttore delle luci etc. in qualche modo reinventino qualcosa. Adesso faccio uno spettacolo, spettacolino, insieme ad Angela Finocchiaro, leggiamo gli stessi racconti… letti da lei fanno più ridere, perché? Perché è più brava di me e riesce a trovare nella mia scrittura delle cose che io non riesco a trovare e quindi qualche volta fa anche dei piccoli cambi e allora Viviana si arrabbia e fa: “Eh no… però non è così!” Perché lei da attrice ha un senso del ritmo un po’ diverso… però, dai, ci divertiamo molto! Qualche volta, mi chiedo perché lei abbia cambiato quella cosa e forse è per farla un po’ più sua.

R. V.: Questo incontro è nato in un bar di Bologna, nel bar di oggi che fortunatamente è un luogo dove ancora non si vive con il telefonino e si riesce ancora a comunicare, si riesce a interagire, si è quasi costretti. La mia domanda è questa, a Marguerite: sicuramente c’è un momento di innamoramento, tra autore e traduttore, tra autore e traduttrice, in qualche modo il traduttore si appassiona, sceglie. Mi interessa l’aspetto negativo, quando il traduttore non tradisce, se ti è capitato, ma quando proprio rifiuta, abbandona, lascia l’autore cioè, quando si incazza, quando un traduttore vuole liberarsi. C’è un momento di delusione, di negatività. Anche in una bellissima storia d’amore con un autore, c’è un momento in cui il traduttore non ne può più o si sente tradito dall’autore?

M. P.: No, non andrei fin là. Qualche volta il traduttore può dire che l’editore avrebbe dovuto fare un lavoro di selezione. Qualche volta penso che tale libro sarebbe stato migliore con cinquanta pagine meno. Con Giorgio Pressburger abbiamo ripreso un libro che aveva scritto quindici anni fa, lo abbiamo ripreso insieme e lui ha tolto certe cose. Secondo lui il libro era migliorato moltissimo e voleva che in Italia si pubblicasse quell’edizione francese, che si ripartisse dalla versione francese. Il traduttore è anche un lettore prima di tutto. Io scelgo i libri e qualche volta, veramente, ho voglia soprattutto di tagliare, non di aggiungere, ma sento che l’autore si è fatto piacere a sé stesso e che ha scritto delle cose che non valeva la pena scrivere. Mi è capitato una volta di lavorare con Gianfranco Bettin, aveva scritto un libro veramente molto forte, molto drammatico, che raccontava la storia di un ragazzo che uccide tutta la sua famiglia per i soldi, si chiamava L’erede. Il libro era inframezzato di riflessioni sociologiche, così gli ho suggerito di tagliarne una parte, non tutte, perché erano molto interessanti per quelli che vivono in Veneto, che conoscevano la realtà veneta ma in certi momenti, rallentavano moltissimo l’interesse. E lui mi ha detto di sì, è stato d’accordo, l’abbiamo fatto veramente insieme. Un altro autore, che era giornalista, mi ha detto: “Guarda che io sono giornalista quindi chiacchiero molto, taglia tutto quello che vuoi”. Io non l’ho fatto perché nel contratto c’è scritto che non bisogna tagliare niente. Sì, a volte si pensa “peccato, perché non ha tolto questo e questo”. Io non sono totalmente a favore degli editor che esagerano e che fanno poi un libro completamente diverso da quello che avrebbe voluto l’autore, ma qualche consiglio, qualche suggerimento, a volte sarebbe benvenuto. Poco fa ho tradotto un libro sulla Tunisia, io avrei tagliato la metà, francamente, anche perché c’erano delle riflessioni un po’ razziste, c’erano delle cose che mi dispiacevano profondamente; l’ho detto all’editore, che non legge l’italiano e dunque ha tagliato un po’ qua un po’ là, e sono sicura che l’autore non vuole assolutamente sentire parlare di me, che si sia arrabbiato moltissimo quando ha saputo che lo avevo criticato! […] Ma per fortuna, in trent’anni di traduzione, mi è capitato pochissime volte.

[la sbobinatura e la cura del testo si devono a Francesca Medda]

 

 

L'autore

Marguerite Pozzoli

Marguerite Pozzoli è nata a Venezia di genitori italiani. Vive ad Arles. Laureata in «Lettres modernes», ha insegnato la letteratura francese al liceo e in carcere.
Traduttrice d’italiano dalla fine degli anni 80, è responsabile della collana di narrativa italiana per la casa editrice Actes Sud. Ha tradotto (anche per altre case editrici) più di un centinaio di titoli. Fra gli autori tradotti : Maria Messina, Luigi Pirandello, P. P. Pasolini, Anna Maria Ortese, Giorgio Pressburger, Maurizio Maggiani, Marta Morazzoni, Valerio Magrelli, Emanuele Trevi (con il quale ha vinto il premio Marco Polo Venezia), Roberto Saviano…. Di Stefano Benni, ha tradotto quasi tutti i libri e ha imparato moltissimo traducendolo. Achille piè veloce (Achille au pied léger) ha ricevuto il premio Atout Lire della città di Cherbourg e il premio Lucioles). Ha insegnato la traduzione all’università di Avignone, e insegna la traduzione all’ISTI di Bruxelles. Collabora con il sito Altritaliani.