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Cinquant’anni di brillantina: Grease, il mood nostalgia e le letture alternative

Era il 1971 quando due sconosciuti attori di Chicago, Jim Jacobs e Warren Casey, riuscivano a veder rappresentato un musical scritto da loro a quattro mani, intitolato Grease. Il testo metteva in scena un gruppo di ragazzi degli anni Cinquanta tra cui c’erano dei greaser, termine oggi desueto per indicare i motociclisti, ma che inglobava in sé anche un richiamo alla brillantina per capelli (appunto, grease), di cui i protagonisti maschili fanno ampio uso. Programmato solo per un paio di weekend, lo spettacolo finì, nel giro di pochi mesi, in tutti i maggiori teatri americani e dei paesi di lingua inglese, per poi diventare, nel 1978, uno dei film di maggiore successo della storia del cinema, con un guadagno di svariate centinaia di milioni di dollari a fronte di un costo produttivo di circa sei milioni. Non solo: con il suo merchandise, i sequel, le fanzine, gli allestimenti in altre lingue, per non parlare della colonna sonora all’epoca prodotta su doppio vinile a 33 giri, quello spettacolo di Chicago in cui forse non credevano nemmeno i due autori, è diventato un fenomeno culturale, economico e sociale che dura da mezzo secolo. E in quanto tale, ha suscitato l’attenzione di studiosi che lo hanno analizzato da svariate prospettive critiche, tra cui la sociologia, la storia, la critica cinematografica (e la sua sottocategoria di star studies), gli studi di genere e i cultural studies.
Il copione originale del 1971 non è sopravvissuto alle tante metamorfosi che ha subìto prima di diventare il musical del grande schermo, segno che il progetto era veramente partito come un divertissement dalle ambizioni limitate. Restano degli stralci, delle pagine scomposte con appunti vari, conservate negli archivi della Public Library di Chicago alla stregua delle varianti di un poet laureate, di cui la cultura americana più sofisticata spesso si fregia. Ma, nazione che ha praticamente inventato il pubblico di massa (non solo con Hollywood, ma anche con la sua matrice letteraria di un Poe e di un Whitman), gli Stati Uniti dimostrano uguale riverenza per i prodotti di cultura alta e di cultura bassa, i cosiddetti settori highbrow e lowbrow, peraltro non sempre nettamente distinti. Dallo studio di questi ritagli, delle poche recensioni dello spettacolo di Chicago e di quelle successive, quando Grease, nel 1972, arrivò a Broadway, risultano una serie di informazioni utili a comprendere il processo di trasformazione che ha dato all’intuizione iniziale la forma cui oggi si riconosce la dimensione di fenomeno globale, ovvero l’omonimo film diretto da Randall Kleiser.

Già nel passaggio da Chicago a New York lo spettacolo era stato emendato da un linguaggio particolarmente scurrile ed erano state eliminate molte allusioni a luoghi specifici della metropoli dell’Illinois, ma la struttura essenziale, ovvero la storia d’amore di due adolescenti sullo sfondo della musica e del ballo in voga vent’anni prima, era rimasta intatta. La presa sul pubblico, immediatamente così forte e duratura, è per buona parte riconducibile a quel senso di revival e di nostalgia nei confronti degli anni Cinquanta, che aveva segnato la musica e lo spettacolo in America già a partire dal 1969, anno in cui vari gruppi si imponevano sul mercato con una rivisitazione del rock nella sua versione rockabilly comprensiva di pettinature, gonne ampie, giubbotti corti e motori. Non solo: al di là dell’effetto nostalgia, è stato suggerito che, a cavallo dei due decenni (60 e 70), nell’opinione pubblica americana si stesse provando a rintracciare la matrice della cultura giovanile che avrebbe segnato la seconda metà del Novecento non tanto nella media borghesia di sinistra cui erano appartenuti gli scrittori beat, quanto nella classe operaia, apolitica, di motociclisti e ragazze pon-pon, più attenta all’aspetto fisico che non a quello intellettuale. Grease, con tutto l’armamentario evocativo di costumi, canzoni e automobili, si prestava perfettamente a questa ipotesi alternativa.
Ma per questa prospettiva critica bisognerà aspettare il terzo millennio, con la sua maggiore attenzione alla cultura di massa – nella fattispecie Daniel Marcus, Happy Days and Wonder Years. The Fifties and Sixties in Contemporary Cultural Politics (2004). Tra i teatrini off della Chicago del 1971 e il suo approdo sul grande schermo nel 1978, invece, Grease cavalca una vena nostalgica che informava la produzione culturale in America e in Gran Bretagna con pubblicazioni come The Boys of Summer (libro di enorme successo del 1972 che creò il mito del baseball anni ’50), serie televisive come Happy Days e il suo spin-off, Laverne & Shirley, e film come L’ultimo spettacolo (The Last Picture Show, 1971) e American Graffiti (1973), per citare solo i più noti. A ciò si aggiunge la definitiva beatificazione nella cultura popolare di icone come Marilyn Monroe, Elvis Presley e James Dean, che appaiono più o meno esplicitamente nella sigla iniziale del film Grease, nell’abbigliamento delle ragazze, nelle movenze dei ragazzi o nei testi delle canzoni (“Hey, Elvis, keep that pelvis far from me,” canta Rizzo nel numero “Look at Me, I’m Sandra Dee”).

Come indicano i sociologi, il mood nostalgia incornicia non tanto un amore per il passato, quanto un disagio per il presente. E Grease non fa eccezione nel suo rifiuto di affrontare le tensioni sociali sia degli anni in cui viene prodotto, sia degli anni che racconta. La critica più frequentemente mossa a quest’opera è quella di una rappresentazione edulcorata degli anni Cinquanta, una ricostruzione irreale di un mondo utopisticamente quasi perfetto, nel quale non c’è vero attrito sociale se non quello innocuo e intramontabile tra maschi e femmine adolescenti in storie d’amore e di sesso. Ma è sotto questa patinata venatura di perfezione che bisogna indagare per rintracciare le sottili trame alternative che rendono il testo di Grease più denso di quanto sembrerebbe a una prima visione. Sin dalla sigla iniziale, oltre a una versione a cartoni animati di trama e personaggi che verranno, si alternano visioni smielatamente disneyane di un mondo fiabesco (Sandy come principessina tra cerbiatti e coniglietti) a espliciti richiami a una moderna America urbana in stile pop-art e iperrealista, con enormi cartelloni pubblicitari su cui appaiono i titoli di testa.

Stockard Channing interpreta Rizzo in Grease, Los Angeles, California, 30 agosto 1977.
(AP Photo/Nick Ut)

La colonna sonora della sigla preannuncia: “conventionality belongs to yesterday”, suggerendo un taglio netto col passato, peraltro presentato in poche scene pre-sigla, in cui Sandy e Danny amoreggiano su una spiaggia, ritratto stereotipato di una love story al limite della castità. Ma nel momento in cui parte il film, lo spettatore si ritrova in un college il primo giorno dell’anno scolastico, in un mondo che sembra esaurirsi nei gridolini e nelle risatine di ragazzi e ragazze e in una nettissima gender divide, ovvero una separazione impermeabile tra maschi e femmine. In realtà, come è stato notato dalla critica recente (Grease Is the Word. Exploring a Cultural Phenomenon, a cura di O. Gruner e P. Krämer, 2020), questa netta divisione prospetta anche una situazione, ricorrente nel testo teatrale e nel film, di homosocial bonding, ovvero di legame socio-affettivo tra persone dello stesso sesso. Ma per l’America “altra”, quella che tra il decennio ricreato e la data di uscita del film ha fatto sentire molto forte la sua voce, l’America dei diritti civili degli afroamericani e dei gay, dell’emancipazione femminile (nel ’78 siamo in piena second wave del femminismo), e delle minoranze etniche, apparentemente non c’è spazio alla Rydell High School.

Che Grease propini una immagine stereotipata e WASP della società a stelle e strisce è chiarito in forma metanarrativa dall’annuncio che fa la preside McGee all’inizio della storia: “Good morning, boys and girls, and welcome to what will be our greatest year at Rydell. […] The national Bandstand television show has selected Rydell as a representative American high school. They will broadcast live from our gym. It’s our chance to show the entire nation what bright, clean-cut, wholesome students we have here.” Scompaiono totalmente, quindi, anche l’America idiosincratica di un Holden Caulfield o quella travagliata del leggendario Gioventù bruciata, rispettivamente del 1951 e del 1955.
La riconoscibile, consolatoria “americanità” della trama e dell’ambientazione è ribadita insieme alla programmatica dichiarazione che si tratta di un ritratto adolescenziale. In una delle prime scene, infatti, una delle “Pink Ladies” mangia un biscotto Oreo e viene ripresa da un’altra che le dice di smettere, perché è una cosa da adolescenti. E quando la ragazza controbatte dicendo, “ma noi lo siamo”, Rizzo, personaggio che sarà centrale nella storia, la redarguisce, “non dobbiamo mica darlo a vedere” (“we don’t have to flaunt it,” nell’originale). Stabiliti chiaramente gli ingredienti – identità nazionale, di genere e demografica – il film procede con una rappresentazione della realtà che è stata definita una ricostruzione selettiva nel migliore dei casi e, nel peggiore, un caso di amnesia culturale. D’altronde, lo spettacolo teatrale e il film si inseriscono in una categoria di prodotto di intrattenimento interessato più a (re)inventare un mondo astorico, patinato, autoreferenziale che non un ritratto veritiero della società dell’epoca. In questo ebbe un ruolo determinante anche la scelta delle due star del film, Olivia Newton-John (Sandy) e John Travolta (Danny), che portavano con sé una intertestualità filmica (per lui) e musicale (per lei) che ne esaltava il ruolo di giovane anticonformista per Travolta, dal precedente Saturday Night Fever e di tradizionale – sebbene controversa – icona della musica country-pop per Newton-John, proveniente da una carriera canora già di grande successo. Se il primo evocava l’italoamericano proletario e belloccio, “l’ultima sensazione sulla pista da ballo”, alla seconda si associavano qualità nostalgiche non prive di una dimensione politica, in quanto – australiana di origine – era stata proposta al pubblico americano come risposta conservativa alla controcultura degli anni Sessanta e Settanta e ai movimenti di liberazione della donna.

Ad analizzare il film in filigrana, però, questa rappresentazione di una identità di genere monolitica e apparentemente semplicistica offre delle crepe attraverso le quali è possibile ipotizzare una lettura più inclusiva. Lo ha fatto Michael Borgstrom nel suo saggio del 2011 “Suburban Queer: Reading Grease”, nel quale mette a confronto la reazione mainstream e la sua prospettiva queer nel leggere il mondo raccontato dal film nel 1978. Tendenzialmente, il film diede ciò che prometteva al grande pubblico, uno spaccato di buonumore, coreografie coinvolgenti, e quel tenero mood nostalgico che rievocava un passato più semplice e sereno rispetto ai bollenti anni Settanta. Ma il finale del film, con la trasformazione di Sandy da brava ragazza a bomba sexy, lasciò perplessa quella parte di pubblico che riteneva ci fosse un messaggio sbagliato in una figura femminile che si sentiva costretta a una metamorfosi così radicale solo per compiacere il suo uomo. Maglioncino di cachemire, gonna a pieghe, ballerine e caschetto vengono dismessi per un look più aggressivo e sensuale: pantaloni e top neri aderenti, zoccolo alto e folta capigliatura riccia.
Alla fine degli anni Settanta, una tale reazione rivelava non solo una nascente consapevolezza femminista, ma anche una conferma di radicati stereotipi di genere. Se da una parte sembrava giusto che una ragazza non dovesse alterare la propria identità per farsi apprezzare dal fidanzato, dall’altra risultava fuori luogo che tale trasformazione comportasse un passaggio da brava a “cattiva ragazza.”
In un interessante esempio di critica autobiografica (modalità analitica in cui il critico riporta la propria esperienza biografica in relazione all’oggetto di studio), Borgstrom racconta come nel suo vicinato suburbano (l’America della medio-alta borghesia metropolitana) gli adulti fossero talmente impegnati a condannare l’abbigliamento, il trucco e il comportamento di Sandy nel finale, da perdere di vista il messaggio alternativo che il suo linguaggio del corpo stava convogliando. Quando Danny cade ai suoi piedi folgorato dal nuovo look, lei non ha idea di come doversi comportare e rivolge lo sguardo alle Pink Ladies per essere istruita. Le faranno vedere come gettare a terra e spegnere la sigaretta – che precedentemente aveva rifiutato in segno della propria innocenza – cosa che lei fa mettendo in mostra i nuovi, provocanti zoccoli con la fascia rossa come il suo rossetto e come l’interno del suo giubbotto di pelle nera. “Per la mia mente di bambino,” scrive Borgstrom, “quella scena annullava le critiche degli adulti”.
Era in quello sguardo spaventato alla ricerca di un modello di comportamento che non le appartiene, che riappariva la vecchia Sandy, tanto da sfidare il concetto semplicistico di cosa distinguesse un comportamento morigerato da uno sbagliato. Come la vecchia Sandy riappare nella nuova versione di sé, così la nuova era sempre esistita all’interno della vecchia. Questo la rendeva più autentica e credibile. Contemporaneamente, Danny sottostà a una inversione di ruoli. Vestito con il tradizionale cardigan siglato della scuola, nella canzone dichiara di perdere il controllo, mentre lei pronuncia frasi di autodeterminazione del tipo “Tell me about it, stud!” (in italiano, “Dimmi tutto, cocco!”) e canta: “You better shape up/ ‘Cause I need a man/ And my heart is set on you/ […] I need a man/ Who can keep me satisfied”. “Tutto sembrava indicare questa canzone,” continua Borgstrom, “tranne che la capitolazione di Sandy alle aspettative patriarcali in tema di sessualità femminile”.
Nella prospettiva del conformismo suburban di fine anni Settanta, Sandy era “sovversiva”, dimostrava in questa scena di essere “multidimensionale”, non solo la zuccherosa ragazza perbene, virginale e “devota”, come indicava una canzone precedente (“Hopelessly Devoted to You”). Agli occhi del critico, Sandy aveva cambiato il suo aspetto per due motivi: primo per obbligare Danny a riconoscere i suoi desideri, emotivi ed erotici, in una cultura che non li degnava di attenzione e, secondo, perché era divertente (la scena si svolge in un luna park) trasformarsi in qualcuno di diverso da ciò che gli altri si aspettavano da lei, confondendo i confini della dicotomia essere/apparire.
Su queste basi, Borgstrom teorizza una lettura queer del film esattamente perché nell’America suburbana del 1978 i primi esempi di consapevolezza identitaria non normativa non trovavano riscontro in un possibile riconoscimento all’interno di una sottocultura alternativa. “Grease forniva ai giovani proto-queer la possibilità di identificare e celebrare una diversità culturale in contesti in cui essa non era disponibile come opzione personale o sociale” ha scritto Borgstrom, laddove per proto-queer intende coloro che non si riconoscevano nelle rigide categorie di genere, orientamento sessuale e conformismo sociale più in generale, prima ancora che l’opposizione a tale identificazione egemonica venisse teorizzata. E le figure queer di quest’opera sarebbero proprio Sandy e Rizzo, in quanto rivelano che le categorie identitarie della brava e della cattiva ragazza sono costrutti sociali che possono essere “recitati” come ruoli autodeterminati, non sono l’essenza “fissa”, innata, di una persona (teoria appoggiata dagli studiosi essenzialisti), bensì una scelta di comportamento, passibile di mutazioni (teoria del costruttivismo o comportamentismo). Se Sandy assume una identità diversa da quella che il suo aspetto e il suo comportamento le avevano assegnato, anche Rizzo, la bad girl per eccellenza, che beve e fuma e ha una vita sessuale promiscua, ha un lato vulnerabile e generoso che, per scelta, può decidere di nascondere, come rivelerà nel suo famoso assolo “There are Worse Things I Could Do”.
Ma anche lo stesso Danny Zuko dimostrerà che la sua interpretazione di una virilità standardizzata e normativa è esattamente questo: una interpretazione, che gli sfugge di mano sia quando si emoziona nel rivedere Sandy per la prima volta, sia quando si lascia andare a un abbraccio troppo affettuoso col compagno di scorribande Kenickie. In entrambi i casi sarà lo sguardo degli altri, del gruppo dei pari, a costringerlo a riprendere la sua facciata pubblica. Un film che propone una politica estremamente divisiva del genere, tanto da trasformarne alcune rappresentazioni in una parodia, ma sostanzialmente consolatorio e conservativo, grazie agli strumenti interpretativi più attuali si offre così anche a una lettura in filigrana in cui il concetto stesso di identità perde la sua dimensione monolitica e inconfutabile. Non solo Sandy e Rizzo rivelano quanto le identità di brava o cattiva ragazza siano intercambiabili e storicamente determinate, ma minano, così come fa Danny, il concetto stesso di identità: nelle loro mutazioni, questi personaggi vogliono sradicare la pratica egemonica di identificare le persone in categorie distinte e riconoscibili, una pratica che insidiosamente influenza la nostra percezione del mondo e degli altri.

alessandro.clericuzio@unipg.it

L'autore

Alessandro Clericuzio
Alessandro Clericuzio insegna Lingua e Letteratura Angloamericana all'Università degli Studi di Perugia. Si occupa prevalentemente di letteratura del Novecento, di teatro, cinema e cultura di massa, in prospettiva transnazionale e di gender studies. Sue recenti pubblicazioni sono apparse sulle riviste AcomaAnnali di Ca' FoscariIperstoria e Letteratura & Letterature, e sulla rivista brasilianaDramaturgia em foco.