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Il teatro in una valigia

Negli ultimi anni lo studio della letteratura teatrale è stato rivoluzionato dal cosiddetto material turn, che nelle scienze umane ha portato maggiore attenzione alla materialità degli oggetti, alla loro funzione nelle dinamiche sociali, antropologiche ed estetiche. In particolare, la critica teatrale si è avvalsa dello studio degli oggetti scenici, detti in inglese theatre properties, abbreviati nell’uso comune in props. Il primo studio che ha sistematizzato tali teorie è The Stage Life of Props, di Andrew Sofer (2003), sulla scia del quale molta analisi è stata dedicata al teatro inglese rinascimentale, oggetto di studio della raccolta Stage Properties in Early Modern English Drama, a cura di Jonathan Harris e Natasha Korda (2006) e a Shakespeare, a cui Sophie Duncan ha dedicato il suo recente volume Shakespeare’s Props. Memory and Cognition (2019).

Studiando la relazione tra memoria e oggetti di scena, Duncan disegna un originale percorso critico nell’opera del Bardo, evidenziando come alcuni oggetti “contentitori” come scrigni e libri siano facilmente riconducibili alla mente umana, che è chiusa nel corpo, ma che contiene la possibilità di apertura, informazione ed espressione. Reificata attraverso gli oggetti (teschio, abiti, spade, fiori), la memoria, nella cittadina amletica di Elsinore, risulta essere un’arma, che i personaggi della tragedia non esitano a usare gli uni contro gli altri. Fat Ham, dramma di James Ijames, vincitore del premio Pulitzer 2022, mette in scena un Amleto in versione afroamericana e queer in un tipico scenario del Sud contemporaneo degli Stati Uniti, tra oggetti quotidiani dal forte potere evocativo.

Storicamente, gli stati del Sud hanno una complessa cultura della memoria, fatta di conflittuali mitografie, nostalgia, stereotipi e revisionismi. Una strettissima relazione lega la memoria agli oggetti di scena nel teatro di Tennessee Williams lungo tutto l’arco della sua carriera, dall’atmosfera seppia dello Zoo di vetro (1945) al cupo e psicologicamente violento Improvvisamente l’estate scorsa (1957), passando per la freudiana cantina sovraccarica di cianfrusaglie nella dimora della Gatta sul tetto che scotta (1955).

Un oggetto scenico, in particolare, spicca tra i tanti che affollano il palcoscenico di Williams: il baule che Blanche DuBois, protagonista di Un tram che si chiama Desiderio, porta con sé al suo arrivo in casa della sorella Stella e del cognato Stanley Kowalski. Icona indimenticabile del teatro del Novecento (il dramma è stato messo in scena dai giganti del settore, Luchino Visconti, Ingmar Bergman, Seki Sano, Elia Kazan, Lee Breuer, tradotto da Jean Cocteau, omaggiato da Pedro Almodòvar e Woody Allen), l’ingombrante bagaglio è l’avita dimora di famiglia trasformata in oggetto scenico e al tempo stesso prolungamento fisico dell’eroina.

Il baule nel film di Kazan
Il baule nel film di Kazan

“Tutto ciò che possiedo è in quel baule”, dichiara la donna, dopo che l’eredità immobiliare è svanita in circostanze non del tutto chiare. Ci sono i suoi vestiti, qualche gioiello di bigiotteria, finte pellicce spelacchiate e tante carte, documenti legali sulla perdita della grande casa coloniale, nonché una pila di lettere che Blanche ha ricevuto dal suo marito morto suicida, Allen. L’identificazione cognitiva tra il baule e la donna è evidente nel momento in cui Stanley, credendo di essere stato privato della sua parte di eredità, scaraventa fuori dal baule tutto il suo contenuto per valutarlo e lei reagisce urlando come se il cognato stesse devastando lei e non l’oggetto. Per di più, questa scena è chiaramente un preannuncio dello stupro cui Stanley sottoporrà Blanche al termine del dramma: la brutale violazione dello spazio interiore del baule e la conseguente violenza sessuale dimostrano quanto l’uso preponderante di questo prop denunci l’oggettificazione della donna nella cultura patriarcale del Sud degli Stati Uniti.

Williams sfrutta il potere simbolico del bagaglio presentando Blanche, al suo arrivo in scena, con una valigia che le dà un’immediata connotazione di precarietà e vulnerabilità. Bauli, valige, borse, bagagli: sono poche le differenze nel campo semantico di queste definizioni ma tutte richiamano immediatamente un’idea di movimento, che sia per esilio, fuga, vacanza o lavoro. Per questo motivo il teatro ne ha spesso fatto uso: se un bagaglio rimane chiuso può nascondere o proteggere un segreto, può oggettificare un mistero. Se viene aperto permette di sbirciare nella vita privata del proprietario. Il bagaglio controllato alla dogana ci ricorda come un oggetto non dichiarato possa legarsi a noi trasformandoci in criminali. Stanley che rovista nel baule di Blanche è un doganiere che ne vuole controllare i valori nel passaggio della frontiera tra il passato e il presente, nonché tra le fantasie e memorie della donna e la dura realtà della vita quotidiana di cui egli si sente paladino e responsabile.

Le valige in scena possono assumere un valore assurdo, come quella trascinata da Lucky in Aspettando Godot di Samuel Beckett: prima ritenuta piena di oggetti utili, essa rivela a metà del dramma di contenere solo sabbia. Nell’Importanza di essere Ernesto di Oscar Wilde una valigetta svela la vera origine nobile del protagonista, Jack Worthing, che sarà così accettato dalla futura suocera Lady Bracknell. A questo prop viene dunque affidato il potere di risolvere la trama, per di più investendolo di una identificazione in termini di classe sociale. Il testo di Oscar Wilde era stato rappresentato per la prima volta in America con scarsissimo successo nel 1895. Un nuovo allestimento a Broadway nel 1947, l’anno in cui esordisce Un tram che si chiama Desiderio, riscuote invece il plauso generale.

Sono anni in cui il pubblico americano legge nel bagaglio un passato recente fatto di migrazioni interne, di viaggi indotti dalla povertà dovuta alla crisi del ’29, raccontati in tanti romanzi di Steinbeck, di Faulkner, di Caldwell. A questo immaginario Tennessee Williams aggiunge la condizione femminile: Blanche è una donna sola, impoverita, turbata, delusa. La sua situazione di precarietà, significata dalla valigia più che dal baule, la avvicina ad altre donne “irregolari” che avevano calcato i palcoscenici americani negli anni precedenti, con valigia al seguito. In particolare, due figure avevano lasciato il segno negli anni Venti, una proveniente dal teatro più popolare, l’altra dalla penna di un futuro premio Nobel. L’eugenetica imperante nella cultura dell’epoca, insieme al timore generato dall’incipiente libertà sessuale fecero sì che in teatro venissero spesso rappresentate storie di donne “peccaminose” che praticavano il mestiere più antico del mondo, come documenta Katie Johnson nel suo Sisters in Sin. Brothel Drama in America  (2009).

Dal 1922 per circa tre anni di seguito andò in scena a Broadway  Pioggia, adattato per il teatro da un racconto dell’inglese Somerset Maugham. Sadie Thompson è in fuga dalle Hawaii dopo un raid della polizia, quando viene bloccata in un’isola del Pacifico a causa di un’epidemia di colera. Bagagli vari e una valigia vecchia e rovinata la accompagnano in scena, a indicare che la sua professione la obbliga a una vita precaria, moralmente deprecabile e rovinata come il suo bagaglio (dando il ruolo a tre dive dal fascino leggendario, Gloria Swanson, Joan Crawford e Rita Hayworth, Hollywood avrebbe “inventato” una Sadie molto più seducente dell’originale).

Minore successo di pubblico ma maggiore riconoscimento da parte della critica vengono riservati ad Anna Christie, la protagonista dell’omonimo dramma di Eugene O’Neill, del 1921.

Anche lei ha passato buona parte della propria vita facendo sesso a pagamento, ma per lei un autore mainstream prevede l’happy ending, ovvero un matrimonio. Mentre si appresta ad abbandonare la sua vita sregolata per abbracciare un destino convenzionale, anche Anna appare in scena con una valigia che segnala il suo passato senza fissa dimora, senza marito, e senza onore. Interpretato in Italia da Anna Magnani e a Broadway da Pauline Lord, il ruolo non sfuggì a Hollywood, che lo affidò a Greta Garbo.

 

Ma bauli e valige erano apparsi sui palcoscenici americani anche con altre connotazioni. Nei primi decenni del Novecento venivano spesso allestite le opere di Anton Čecov (l’autore più amato da Tennessee Williams), in cui un gran viavai di bagagli indicava la precarietà dovuta a un momento storico di declino per l’aristocrazia russa. L’atmosfera di disillusione del Gabbiano, le relazioni tossiche di Zio Vania e la nobiltà decaduta del Giardino dei ciliegi, oggettificati in scena con bauli e valige, richiamano il Sud di Williams, pervaso da simili precarietà storiche e sociali.

Che l’autore del Tram non fosse l’unico a percepire questa condizione lo dimostra il testo più noto del suo contemporaneo Arthur Miller, ovvero Morte di un commesso viaggiatore, del 1949. Anche qui abbondano i bagagli, dalle borse con i campioni che Willy, il protagonista posa a terra all’inizio del dramma, alla borsa da viaggio che il figlio del vicino, Bernard, porta con sé in ufficio. Se per il primo il bagaglio è fardello e sconfitta, per il secondo è segno di libertà. Willy non può più viaggiare nemmeno per lavoro, Bernard lavora e viaggia per piacere.

A contrasto con il declino e la depressione di Willy c’è il fratello Ben: mitizzata personificazione del self-made man e del Sogno Americano, Ben appare sempre con valigia e ombrello in una sorta di uniforme dell’uomo di successo che ha sempre qualcosa da portare, qualche posto dove andare, obiettivi da raggiungere. C’è un momento del dramma in cui il figlio di Willy, Biff, con la valigia in mano, fa ipotizzare una upward mobility, un movimento verso l’alto nella scala socioeconomica che Willy tanto agogna, ma il viaggio di Biff sarà fallimentare. E la valigia torna prepotentemente in scena quando il ragazzo per caso scoprirà l’adulterio del padre in un albergo di Boston. In un’epoca ancora dominata dal conformismo sociale, il bagaglio in teatro ha rappresentato efficacemente la deviazione dalla norma, che si trattasse di un marito infedele o di una donna dal passato “compromettente”. Violentata e reietta, Blanche al termine del dramma avrà introiettato l’oggettificazione impostale dagli altri e immaginerà di morire trasformata in zavorra, in bagaglio da eliminare, “Morirò mano nella mano con un bel medico di bordo… e sarò sepolta in mare avvolta in un nitido sacco bianco, gettata fuoribordo, a mezzogiorno, nello splendore del sole d’estate e in un oceano blu come gli occhi del mio primo amore”.

alessandro.clericuzio@unipg.it

 

 

 

 

L'autore

Alessandro Clericuzio
Alessandro Clericuzio insegna Lingua e Letteratura Angloamericana all'Università degli Studi di Perugia. Si occupa prevalentemente di letteratura del Novecento, di teatro, cinema e cultura di massa, in prospettiva transnazionale e di gender studies. Sue recenti pubblicazioni sono apparse sulle riviste AcomaAnnali di Ca' FoscariIperstoria e Letteratura & Letterature, e sulla rivista brasilianaDramaturgia em foco.