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Emanuela Costantini intervista Gazmend Kapllani

Nei suoi libri appare centrale il rapporto tra storia e letteratura. In occasione delle sue presentazioni a Perugia lei ha indicato una differenza tra la storia come disciplina che cerca di ricostruire i grandi eventi e la letteratura come forma d’arte che racconta le vicende degli individui. Si può aggiungere, e lei lo dimostra nei suoi romanzi, che i due ambiti si sostengono a vicenda: la storia fa da sfondo alle vite delle persone e le condiziona e allo stesso tempo conoscere i percorsi e le esperienze dei singoli aiuta a comprendere che la storia non è qualcosa di astratto ma proprio sulle vite delle persone è costruita.

Quella tra storia e letteratura è una relazione affascinante. Per Erodoto non c’era nessuna differenza tra le due discipline, ma noi parliamo della storia e della letteratura nel mondo moderno. Per capire il mio pensiero occorre considerare che sono consapevole di provenire da una parte marginale del mondo europeo e globale, una parte in cui la storia occupa una parte centrale anche nella letteratura. Noi siamo ossessionati dalla storia, nello stesso modo in cui di solito ci ossessionano quelle cose che segnano il nostro destino, rendendolo tragico o facendoci paura. Coloro che vivono ai margini soffrono l’inquietudine del contesto storico molto di più rispetto a coloro che vivono al centro degli eventi, che sono poi i protagonisti di quei processi di cui chi sta ai margini subisce le conseguenze. Di conseguenza, la letteratura dei Balcani e dell’Europa dell’Est è ossessionata dalla storia, così come lo sono i sopravvissuti ai grandi sconvolgimenti storici. Cerco di dare un esempio di ciò che intendo quando parlo di differenza tra storia e la letteratura. Nel suo magnifico libro Nella quiete del tempo la scrittrice polacca Olga Tokartzouk racconta attraverso l’immagine di un villaggio immaginario tutta la storia tragica della Polonia, dell’Europa dell’Est e in generale dell’Europa del ventesimo secolo senza quasi menzionare i tiranni che ne sono stati protagonisti (Stalin è citato solo una volta).
Non è che la storia non si interessi agli individui, ma se ne interessa con una metodologia e una sensibilità diversa dalla letteratura. La storia di solito parte dal centro degli eventi, mentre lo scrittore parte dalle emozioni e dalle passioni umane; la storia parte dagli archivi, la letteratura dalla rappresentazione della storia vissuta, da quello che Calvino chiamava “il mondo non scritto”, al quale lo scrittore dà parole tramite il suo talento. Poi, come ho detto, ci sono molto punti di contatto tra storia e letteratura. Io credo che T.S. Eliot avesse ragione quando diceva che un vero poeta deve possedere “il senso storico”.

La terra sbagliata, ma anche Breve diario di frontiera, parlano di tante storie e allo stesso tempo ci raccontano la storia. Dentro, ci si può vedere l’essenza di ogni percorso umano, che poi nel contesto di un Paese che ha attraversato una transizione politica come quella albanese diventa un modo per riflettere su alcuni temi centrali dell’esistenza e delle trasformazioni politiche. In La terra sbagliata ci sono due nuclei centrali forti, strettamente legati tra loro: l’identità e la casa. Chi sono io? Sembra chiedersi costantemente il protagonista e il suo doppio, il fratello. Qual è la mia casa? È la seconda domanda. Lei come ha vissuto questa tensione tra le radici e la voglia di allontanarsi e conoscere il mondo?

Questa è una domanda che merita più risposte. La prima cosa che voglio dire è che la mia generazione, non solo in Albania ma anche nel Europea dell’Est, cresciuta dietro il lugubre sipario del Muro di Berlino, è una generazione un po’ speciale, con una dimensione di tragedia e commedia insieme. Dico la mia generazione perché la maggior parte dei miei coetanei, in Albania ma anche nell’Europa dell’Est, sono diventati immigrati oppure rifugiati, oppure hanno pensato o tentato di diventarlo.
La commedia sta nel fatto che noi siamo partiti nel viaggio della migrazione come pellegrini e siamo finiti immigrati non desiderabili, dipinti come invasori. Percepivamo il nostro atto come una trasgressione, un terribile tabù e nello stesso tempo sentivamo che stavamo varcando le frontiere tra un’epoca e un’altra. Il nostro atto del varcare le frontiere segnava la fine del ventesimo secolo, un secolo terribile e sanguinario, specialmente per noi europei dell’“Altra Europa”. I protagonisti dell’ultimo capitolo del ventesimo secolo non siamo stati noi, ma gli abitanti della Sarajevo bombardata e trucidata giorno e notte dai cannoni di Mladić, e gli albanesi del Kosovo massacrati da Milošević. Quelli che varcano frontiere tra epoche diverse inevitabilmente si trovano davanti al problema dell’identità. Varcare le frontiere tra epoche diverse è un atto quasi metafisico, ma anche molto doloroso. L’identità, la connessione e la relazione tra passato, presente e futuro, diventa un acuto problema individuale, sociale, nazionale.
Per quanto riguarda la migrazione, quello è un tema centrale nei miei libri ed è a sua volta collegata con il tema delle frontiere e della transizione tra epoche, paesi, culture, lingue diverse. Il modo in cui io parlo di frontiere e di migrazione ha a che fare con la mia esperienza, molto personale e intima. La sindrome delle frontiere di cui parlo nel mio primo romanzo Breve Diario di Frontiera porta in sé due esperienze apparentemente diverse: quella di vivere in un paese che si trasforma in prigione partendo dalla paranoia isolazionista del regime comunista in Albania, e quella di varcare le frontiere, geografiche e simboliche, come un nomade contemporaneo, un migrante, un rifugiato. Queste due esperienze in un modo o in un altro caratterizzano i miei personaggi e creano così la loro unica identità, la loro mappa culturale e geografica del mondo, il loro modo di vivere, il loro modo di guardare il mondo, di amare, di capire, di viaggiare, di scappare, di sbagliare, di ritornare oppure di rifiutare di ritornare; crea i loro conflitti interni ed esterni, le loro ossessioni, i loro sogni e le loro passioni.
Per me l’immigrazione è una parte integrante dell’avventura umana sulla terra che non smetterà mai di esistere finché l’essere umano esisterà ed io racconto questa avventura, quel modo particolare di essere nel mondo, che Levinas chiama “Esilio”, dal punto di vista dei miei personaggi. Nello stesso tempo, poiché mi interessano tutte le dimensioni dell’esilio – reali, metaforiche, filosofiche – mi interessa e mi affascina il dramma umano del conflitto interiore, tra il grande bisogno delle radici e la tentazione del viaggio e della fuga. Io questa tensione l’ho vissuta come un teatro dove possono trasformarsi in carne e ossa i miei personaggi immaginari. Senza di loro sarei divenuto nevrotico, credo, mi sarei perso nel viaggio e avrei perso soprattutto la passione di vivere, l’ironia e lo humor.
Per quanta riguarda la famiglia poi, essa occupa una parte sempre più centrale nei miei racconti perché credo che senza tenere conto del meccanismo familiare, ovvero quell’universo chiuso, non siamo in grado di capire niente delle relazioni umane. Io vengo da una cultura dove la famiglia occupa un posto centrale nella vita dell’individuo, un ruolo protettivo e oppressivo nello stesso tempo. Ed è un posto dove le famiglie sono uno specchio tragicomico delle situazioni politiche che hanno vissuto gli individui. Mi interessa dunque la famiglia perché mi interessano le scelte dei miei personaggi e credo che molte delle loro scelte, specialmente quelle inconsce, prendono forma nella famiglia. Nel caso dell’Albania credo che non siano mai state studiate con serietà le ripercussioni del regime totalitario sulla famiglia, sulla sua struttura e i suoi valori.

In questa ricerca di identità un posto centrale hanno le radici che il migrante taglia con la propria patria, tema ricorrente nella sua scrittura (è il leitmotiv del tuo precedente Diario di frontiera). Trovo infatti molto interessante il problema che si pone Karl quando si chiede dove voleva essere sepolto: “Nel paese in cui viveva o nella sua città natale, in quella strana città, sotto quel cielo seducente e caldo?”. Non è pertanto casuale, a mio avviso, che il fratello Frederick, direttore dell’obitorio dell’ospedale di Ters, rilevi l’importanza di restare ancorato nella sua terra: “Ogni volta che vado laggiù e vedo i corpi esanimi delle persone, quelle che conoscevo e quelle che non ho mai visto, capisco perché non sono emigrato come Karl…La mia patria è dove sono i miei morti”. La domanda che vorrei farle è: lei dove vorrebbe essere sepolto?

Guarda, se seguiamo la logica freudiana, questa è una domanda per un narcisista (nel senso che secondo Freud il narcisista ha questa ossessione di immaginare il proprio funerale). In ogni caso questa è la domanda che si pone Karl e per questa ragione decide di prorogare la sua visita nella sua città natale Ters. Per quanto riguarda me, darò l’esempio di un’altra persona. Io attualmente sono il direttore degli Studi Albanesi all’Università DePaul a Chicago. Uno statunitense di origine albanese è stato il donatore che ha reso possibile l’esistenza del Programma che ha istituito il centro. Si chiamava Hidai “Eddie” Bregu, una personalità eccezionale. La sua vita rispecchia la storia dell’Albania e dell’Europa del ventesimo secolo. È arrivato negli Stati Uniti come rifugiato politico negli anni ’50 e qui in America ha fatto la sua fortuna. Era un uomo colto e umile, che amava le sue radici albanesi ma anche la sua nuova identità americana. Hidai “Eddie” Bregu non ha potuto vedere l’Albania fino al 1991. Quando il regime comunista è caduto, i suoi genitori erano già morti. Prima di morire, aveva chiesto di farsi cremare, disponendo che le sue ceneri fossero sparse sul Lago Michigan a Chicago, sulla tomba dei suoi genitori in Albania e in un piccolo e pittoresco villaggio nel sud dell’Albania dove era nato.
Le mie ceneri, credo, non saranno solo in un posto. Il viaggio mi ha fatto perdere quella occasione di scegliere un luogo per l’eternità. Di sicuro ci saranno nei posti che ho amato di più, collegati a persone che ho amato e mi hanno amato e con la mia identità di uomo e scrittore.

Ogni scrittore inserisce, in molti casi in maniera involontaria, alcune spie che ne permettono l’interpretazione. Nel suo caso è certamente la lingua, a partire dall’osservazione del padre del protagonista: “Non sei stanco, Karl, di passare tutta la vita a parlare la lingua degli altri?”, immediatamente seguita dal controcanto della voce narrante del fratello: “Quando recidi le radici che ti legano alla famiglia, alla tua città e alla tua lingua, quando ti abbandoni al mondo, mente e corpo, diventando un orfano, come ha fatto Karl, le illusioni si sciolgono come neve al sole in montagna: diventano una valanga e, prima o poi, travolgono chi le serbava…” Lei ha scritto romanzi in tante lingue diverse. Come sceglie la lingua dei suoi romanzi?

Scelgo le lingue dei miei romanzi nello stesso modo in cui Nabokov, Conrad, Brodsky, Harendt, Alexander Hemmon oppure Charles Simić e tanti e tanti altri hanno scelto le lingue dei loro romanzi, delle loro poesie e dei loro saggi. Quello che io ho in comune con tutti loro è l’esperienza della migrazione. Così, le lingue della mia sopravvivenza sono diventate anche le lingue della mia immaginazione – ma senza mai abbandonare la lingua albanese. Ci sono scrittori che anche quando vivono in un altro paese, in un’altra lingua e cultura, preferiscono scrivere nella loro lingua materna. Io non appartengo a questa categoria. Pur non smettendo mai di scrivere e amando profondamente l’albanese, a me piace sperimentare altre melodie e ritmi, perché ogni lingua ha una sua melodia e un suo ritmo unico. Ogni lingua gioca con l’immaginazione in un modo diverso. Ma per questo occorre prendere possesso delle lingue in una maniera profonda… Chissà, un giorno forse deciderò di scrivere in italiano…

Vorrei anche riprendere un altro spunto emerso nelle sue presentazioni: il rapporto tra politica e ideologia. C’è un personaggio, il padre di Karl, che appare come un “comunista rigoroso”, ma seguendo il suo percorso si capisce meglio che la questione non è tanto ideologica quanto, ancora una volta, identitaria. Più che comunista, il padre di Karl è un “albanese rigoroso”. C’è un legame strettissimo, ancorché apparentemente paradossale, tra il comunismo e il nazionalismo, un legame che si spiega, almeno in Albania, sulla base dell’isolamento e di quel complesso di accerchiamento che viveva il Paese. L’Albania di Hoxha tra gli Stati i più isolati d’Europa: comunista e quindi anti-greco; comunista stalinista e quindi anti-jugoslavo, comunista filo-cinese e quindi antisovietico. In un Paese così il legame con la propria identità diventa ancora più stretto e quando la base di quell’identità, il comunismo, crolla, se ne cerca un’altra: il legame con la religione, ad esempio (per cui il padre di Karl diventa un musulmano praticante). Dall’esterno, come vede questi percorsi alla ricerca di un’identità nell’Albania post-comunista?

Il regime di Hoxha era prima di tutto anti-albanese direi, e ogni regime totalitario porta corruzione e distruzione morale soprattutto del suo paese, le cui conseguenze si sentono per generazioni. In Albania negli anni della dittatura è stato creato l’homo envericus (prendo il prestito la definizione del homo sovieticus da Alexievich). L’homo envericus è una mentalità, non un’identità culturale e politica, strettamente legata con il lato più arbitrario e oppressivo del potere: a me personalmente fa paura l’homo envericus, ma mi intriga investigarlo. È per questo che ho voluto esplorare il mondo interno di Frederick e quello della figura del padre.
La ricerca e la ridefinizione dell’identità quando si passa da un’epoca all’altra, da un sistema all’altro è un processo lungo, caotico e doloroso. Si devono ricreare i punti di riferimento dell’identità individuale e collettiva. Gli albanesi sono maestri di sopravvivenza, e sono un popolo intelligente ed incredibilmente resistente. Per esempio, si è ricreata di nuovo una identità gastronomica in Albania, laddove, come era accaduto in Romania, la tradizione gastronomica era stata quasi distrutta. Ma d’altro canto penso che come comunità nazionale, come società, abbiamo fallito nel confrontarci con un passato terribile che è durato quasi mezzo secolo. Non abbiamo voluto farlo, non vogliamo o non possiamo farlo, perché per farlo dobbiamo mettere al centro del confronto il problema del male, della responsabilità morale individuale e collettiva e della giustizia. La gente che ha “ereditato” il potere comunista in Albania – perché questo è successo dopo la caduta del regime – si è mantenuta al potere grazie alla mancanza di queste tre componenti…

L’altro da sé, in un Paese rigidamente comunista, era anche l’Occidente. Che visione aveva dell’Occidente quando viveva in quel mondo chiuso? Lei che poi l’ha conosciuto, che effetto le ha fatto vivere in quel mondo che a lungo aveva immaginato?

Infatti, gli albanesi anche durante il regime comunista non hanno sentito l’Occidente come altro da sé, nonostante l’isolamento e la propaganda paranoica antioccidentale del regime. La nostra generazione ha sognato l’Occidente con passione e infinita ingenuità. L’Occidente per noi era una narrativa dell’esistenza individuale contro il collettivismo, vera schiavitù del comunismo. Per gli albanesi, anche per quelli fedeli al regime credo, non c’era dubbio che tra la Russia, la Cina e l’Occidente, culturalmente noi eravamo più vicini all’Occidente. L’odio patologico del regime di Enver Hoxha per l’Occidente, a parte una questione di potere assoluto stalinista, era anche l’espressione di una crisi e dello smarrimento di identità politica e culturale enorme che l’Albania ha vissuto durante la Seconda guerra mondiale.
È per questo che quando sono cadute le frontiere, noi che siamo andati come rifugiati verso l’Occidente con tanto entusiasmo, abbiamo scoperto con sorpresa che l’Occidente non ci considerava come sua parte ma come invasori. Fa molto male essere rigettato e stigmatizzato da quello che hai amato e sognato nella notte oscura dell’anima. Personalmente penso che non ci sia solo un Occidente, e nello stesso mondo non ci sia solo un Oriente. Ci sono narrative e valori vari in ogni civilizzazione. Da questo punto di vista, credo che la mia cultura e identità siano principalmente “occidentali”, con la consapevolezza però che provengo dai margini di quell’“Occidente” – e venire dai margini vuol dire avere la consapevolezza della fragilità e delle contraddizioni di ogni identità, di ogni civilizzazione, evitando di dare niente per scontato.

È la letteratura che poi emancipa Karl, quando se ne va, è lo strumento che gli permette di uscire dal ruolo stereotipato del migrante emarginato. Non le chiedo che ruolo ha avuto la letteratura nella sua vita perché immagino ci vorrebbe un altro romanzo, ma qualcosa di più specifico. Il modo in cui facciamo propri i testi letterari dipende anche dal momento in cui li leggiamo: quali libri che ha letto dopo essere uscito dall’Albania comunista rimpiange di non aver letto da adolescente o da ragazzo?

Tutti i libri! Letteralmente. È un trauma che risale agli anni della mia adolescenza e della mia gioventù, fino ai 23 anni. Io sono cresciuto con una biblioteca fantasma nella mia testa, scaffali pieni di nomi di scrittori, Borges, Kafka, Kundera, Woolf, Calvino, ma vuoti di libri, perché tutta la letteratura contemporanea era interdetta dal regime. Quando avevo 17 anni, però, mi sono cadute tra le mani – grazie ad un poeta dalla mia stessa città natale, Lushnje e a un caro amico, Bujar Xhaferri – poesie di autori francesi, Prevert, Baudelaire, Apollinaire, I Fratelli Karamazov di Dostoevskij e il Deserto dei Tartari di Buzzati. È strano, ma quelle poche letture sono state sostanziali per la mia immaginazione e il mio amore di letteratura. Tra i libri della mia biblioteca che ho letto in traduzione albanese, due di loro sono stati importanti: Don Quixote ed Il Buon Soldato Svejk. Quando ho varcato le frontiere ero così assettato di leggere e toccare libri, che per noi erano stati interdetti, che mi sono promesso che la prima cosa che avrei fatto all’estero sarebbe stata la visita di una libreria. Ed è quello che ho fatto. L’episodio che descrivo nel Breve Diario di Frontiera, dove il poliziotto greco mi ha tolto con violenza il piacere di esplorare gli scaffali semivuoti della libreria di un piccolo villaggio greco, è successo davvero. Poi la letteratura, però, si è vendicata. Non so che fine abbia fatto il poliziotto, ma io sono diventato uno scrittore best-seller nella lingua violenta del poliziotto, cioè in greco.

Un’ultima domanda che riguarda l’altra grande protagonista del romanzo: la città. Una città che sembra uscita dalle descrizioni dei grandi romanzi dei Balcani (non so se il paragone le fa piacere, ma mi sembra di leggere Andrić), ma ha un suo profilo dicotomico, con la città vecchia in alto e quella nuova moderna in basso (un profilo che diventa tricotomico se consideriamo anche il Quartiere maledetto). La città è accogliente e respingente, una città di transito e una città da cui scappare o in cui rimanere. Che cos’è Ters? Cosa rappresenta?

Ters rappresenta una città di frontiera, negli incroci della storia che non è stata mai gentile con Ters, perché la storia non è mai gentile con le citta piccole e povere che si trovano nei crocevia; rappresenta l’idea che tutte le terre sono un po’ sbagliate. Lo capisce soprattutto colui che viaggia e varca frontiere. Rappresenta la tensione e la contraddizione dell’uomo moderno tra la necessità delle radici e la voglia di libertà, tra il desiderio di ritornare e quello di ripartire; rappresenta la distopia più insidiosa: quella di vedere il luogo dove si nasce, che per definizione dev’essere il posto più intimo ed accogliente, diventare una prigione, oppure un posto da dove vuoi o devi scappare; rappresenta il viaggio doloroso e quasi impossibile di conoscere sé stessi con profonda onesta e compassione in un mondo assurdo…

L'autore

Emanuela Costantini
Emanuela Costantini
Emanuela Costantini è professoressa associata in Storia contemporanea presso il Dipartimento di Lettere dell’Università degli studi di Perugia. I suoi principali ambiti di ricerca riguardano il processo di costruzione delle identità e degli stati nazionali nell'Europa sudorientale, la partecipazione delle comunità ebraiche alla vita politica, culturale e sociale dello Stato nazionale in Romania, la storia delle capitali dei nuovi stati nazionali nel Sud Est europeo tra Ottocento e Novecento, la transizione dal comunismo alla democrazia nell'Europa sudorientale, lo sviluppo e l’evoluzione della cultura popolare (soprattutto musicale e cinematografica) nel Sud Est europeo durante il comunismo. Queste tematiche sono state oggetto di numerosi progetti di ricerca e saggi (in particolare le monografie Nae Ionescu, Mircea Eliade, Emil Cioran. L'antiliberalismo nazionalista alla periferia d'Europa, 2005 e La capitale immaginata. L'evoluzione di Bucarest nella fase di costruzione e consolidamento dello Stato nazionale romeno (1830-1940), 2016, quest’ultima tradotta in romeno per la casa editrice Polirom).