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A proposito di Proust. Dialogo con Stefano Brugnolo

Stefano Brugnolo insegna teoria della letteratura all’Universita di Pisa. Si occupa di letterature comparate, con particolare riferimento alla letteratura inglese, francese e italiana. Ha scritto saggi sull’umorismo nero, su Huysmans; sulla letteratura post-coloniale, sul tema delle strane coppie. Ha recentemente pubblicato per Carocci il volume Dalla parte di Proust, e per Prospero Nuove forme di critica. Del buon uso della letteratura su Facebook. Ha in preparazione per Quodlibet un volume sulla rappresentazione della rivoluzione e del popolo nella letteratura moderna e contemporanea.

 Il tuo saggio, Dalla parte di Proust, è nato su Facebook, scrivere di letteratura su una piattaforma sociale ha modificato in qualche misura il tuo modo di fare critica letteraria? Ti ha offerto delle possibilità in più?

Sì, questo libro è nato su Facebook, dove c’è un gruppo di proustofili che si chiama «Proust/emi» al quale mi sono iscritto qualche tempo fa, pur non essendo uno specialista dello scrittore francese, ma un semplice lettore. Quel contesto, un contesto amichevole, dove non ci si espone a chissà quali giudizi, mi ha reso molto agevole scrivere sulla Recherche e, a un certo punto, qualcuno si è accorto che nei miei interventi c’era un filo rosso, mi ha segnalato alla casa editrice Carocci e da lì è nato il libro.

Oltre che nel gruppo «Proust/emi», ormai da qualche anno, scrivo su pagina personale di Facebook, e lì è più facile parlare delle mie passioni in un modo che non è quello con cui io o un altro studioso ne parla nei suoi saggi, articoli o monografie, perché il mezzo modifica il linguaggio e, secondo me, ti obbliga a essere più comunicativo senza per questo sacrificare il rigore. Inoltre, quando scrivi su una piattaforma social sai che il pubblico è davvero vario, hai anche l’impressione, che non sempre hai quando lavori a un saggio cosiddetto accademico, che qualcuno leggerà, qualcuno reagirà, come è accaduto e ancora accade quindi ti senti un po’ più motivato, perché in fondo, come docenti, studiosi o specialisti di questa o quella materia, spesso sentiamo di scrivere per pochi, a volte ci si domanda addirittura se mai qualcuno ci leggerà. Ecco, quella impressione di solitudine non ce l’hai, perché su Facebook ci sono reazioni di vario tipo e genere, e questo dà un po’ più senso anche alle cose che si scrivono.

La tua, tra le molte opere critiche pubblicate in occasione del centenario della morte di Proust, può essere una delle più originali. Molti gli aspetti di originalità presenti, tra questi l’uso di aggettivi poco consueti, soprattutto in rapporto a grandi capolavori come la Recherche. Per esempio, tu definisci l’opera di Proust come un “testo amico”. In che senso la Recherche è un testo amico?

La Recherche gode di una fama un po’ diversa, è ritenuta, non a torto, un immenso capolavoro, quasi un monumento dello spirito umano. Tanto per cominciare, è un’opera vasta, perché è un romanzo diviso per sette o moltiplicato per sette, e poi la scrittura di Proust, anche se non è certamente difficile dal punto di vista sintattico, ha un periodare lungo. Quindi la lunghezza non è solo quella complessiva, che si misura in migliaia di pagine, ma è anche quella del periodare che è lungo, avvolgente, e in qualche modo contiene in sé un invito all’abbandono, a leggere solo se si ha del tempo, materiale, ma anche interiore.

Inoltre, la lettura della Recherche è un’esperienza di grande intimità, perché ci mette a contatto per un tempo molto esteso con un io, con una coscienza umana, quella del narratore-protagonista, che a poco a poco conosciamo molto bene nei suoi aspetti più segreti. Anche solo questa esperienza di conoscenza di un soggetto che ci racconta di sé, della sua vita e di tutto ciò che ha sentito e pensato è un’esperienza che forse non ci possiamo concedere nemmeno con il più caro amico; per questo mi piace pensare alla Recherche come a un testo amico. Naturalmente, questa definizione potrebbe e dovrebbe essere allargata a tanti altri testi anch’essi monumentali che leggiamo proprio perché li riteniamo amici, perché se non scatta quell’amicizia, quell’amore, forse la lettura non vale la pena farla.

Un’altra definizione che sorprende è quella riferita a Proust, che lo descrive come «un dilettante che ci racconta la storia di un fallimento»; infatti è idea comune che Proust sia un grande scrittore che narra la storia di un successo, perché il protagonista del romanzo, suo alter ego, dopo una vita di dispersione riesce a diventare lo scrittore che sognava di essere

In realtà c’è la compresenza di entrambe le dimensioni, perché la Recherche è la storia di qualcuno che dichiara di voler diventare uno scrittore, ma non ci riesce, la storia di qualcuno che sente di perdere il proprio tempo – che è «perduto» anche in questo senso, nel senso di sprecato – frequentando salotti e vivendo amori che gli fanno molto male, perché sono sempre tormentati e gelosi. Tuttavia, questo romanzo, diversamente da molte opere del modernismo, ha una sorta di happy ending, perché alla fine il protagonista si rende conto che potrà finalmente scrivere il suo romanzo parlando di sé stesso, del suo fallimento, delle persone che ha conosciuto, delle esperienze che ha fatto; si rende conto di poter servirsi di tutto ciò per scrivere l’opera che aveva sempre cercato di scrivere senza riuscirci, anche se teme di non farcela, perché a quel punto è molto malato e minacciato dalla morte. Quindi nelle ultime pagine Marcel dichiara che ha capito di poter essere uno scrittore, ma il lettore lo sa già, in qualche modo sa più del narratore stesso, perché quello che ha letto sino a quel punto è il romanzo che il protagonista afferma di voler scrivere. Una sorta di serpente che si morde la coda.

La Recherche è una grande esperienza cognitiva per il protagonista, che attraverso la scrittura recupera la sua esperienza passata, ma è anche una grande esperienza cognitiva per il lettore contemporaneo: infatti, tu scrivi che a un secolo dalla sua morte, Proust parla «ancora più che mai a noi e di noi». Che cosa dice a noi e di noi uno scrittore che ha incentrato tutta la sua attenzione sui salotti dell’alta società francese tra la fine dell’Ottocento e primi del Novecento?

È una domanda importante, non solo per Proust, ma per tutta la letteratura, che è certo legata al piacere, ma è anche connessa alla conoscenza. Un tipo di conoscenza diverso da quella che ricaviamo dalla lettura di un trattato, di un saggio di un filosofo, uno psicologo o uno scienziato. I testi narrativi non si pongono come obiettivo quello di spiegare il mondo, ma di raccontarlo; tuttavia, nel raccontarci un mondo – perché quello narrato non può che essere un solo mondo – ci comunicano conoscenze di carattere più generale. Nel caso della Recherche l’aspetto cognitivo è molto evidente, esplicito, perché è un’opera nella quale si fondono continuamente il piano della narrazione e quello della riflessione. La Recherche, per certi versi, è un testo anche molto saggistico: l’autore abbandona spesso la narrazione per fare delle considerazioni, che nascono però sempre dalla storia che narra e a cui poi ritorna, ragion per cui sono perfettamente inserite nel contesto narrativo. Inoltre, il tipo di conoscenza che Proust veicola non è mai estrinseco rispetto al racconto, non si rifà a una qualche teoria filosofica o psicologica, le sue sono sempre osservazioni di carattere personale, di qualcuno che a mano a mano che narra quanto è accaduto ai suoi personaggi si ferma per rifletterci sopra.

Infine, rispetto alla tua domanda: c’è un fatto che vale per tutti gli autori, ma vale ancor di più per Proust: gli scrittori parlano prevalentemente del cortile di casa, ma certo ci sono scrittori, come Balzac o a Zola, per restare in Francia, che hanno affrontato situazioni di tipo economico e sociale particolarmente rilevanti: Zola la fabbrica, la miniera, il grande caseggiato popolare, grandi temi attuali all’epoca e forse ancora oggi. Proust, invece, si dedica a una realtà piuttosto residuale, quella dei salotti alto borghesi o aristocratici che lui frequentava come persona e che anche il suo protagonista frequenta. Per questo molti gli hanno rimproverato di aver trascurato importanti questioni umani e sociali per occuparsi di situazioni non poi così centrali; ed è una delle ragioni per cui Proust ha dovuto pubblicare a pagamento il primo volume della Recherche. Ma la realtà tutto sommato abbastanza residuale che lo scrittore ha scelto rappresenta una sorta di piccola serra nella quale ha potuto osservare una serie di comportamenti e di sentimenti, quali l’invidia, la gelosia, la competizione, che spesso stanno sotto il segno dello snobismo, ha potuto cogliere tutte le sottigliezze delle conversazioni che si fanno in società; ebbene, quelle sue esplorazioni possono esserci utili per esplorare altre interazioni umane, perché Proust non ci mostra solo quello che i personaggi dicono, ma anche quello che non dicono o che sottintendono, quello che nemmeno loro sanno di dire mentre stanno parlando di qualcosa. Quindi, leggendo La recherche è come se ci allenassimo a un tipo di ascolto delle conversazioni e, più in generale, degli scambi tra esseri umani tout court, che non si svolgono solo in nei salotti francesi tra Otto e Novecento, ma continuano a svolgersi un po’ dappertutto nel mondo.

Nella tua risposta hai menzionato lo snobismo: anche coloro che non hanno letto la Recherche, sanno che è il grande tema dell’opera, ma forse non si ha davvero chiaro che cosa intendesse Proust con il termine snobismo. Ti chiederei quindi di chiarirlo e di spiegare perché, come scrivi nel tuo saggio, tu ritenga che sia un aspetto che riguarda tutti, anche coloro che non si sentono affatto snob

La parola snob si adopera spesso, ma forse la si usa in un senso che non è quello proustiano e forse non è nemmeno quello più proprio della parola stessa, se presa nella sua accezione più etimologica. Proust intende per snobismo il comportamento di persone per le quali è estremamente importante mostrare al mondo di essere ben inserite in circoli molto prestigiosi. Quindi, più ancora che l’aristocratico sicuro e soddisfatto di sé, può essere snob un borghese o un nobile declassato che si sforza continuamente di entrare in certi ambienti, di mostrare che lui è ben accolto da coloro che ne sono i veri protagonisti. Per esempio, nella Recherche abbiamo il salotto dei signori Verdurin, che è un luogo terribile, perché è un salotto altoborghese nel quale si può entrare, essere accolti, ma anche esserne estromessi, espulsi, per cui c’è una vera e propria lotta per farne parte, per non esserne banditi o per far bandire un frequentatore. Spesso sono i due “padroni”, così vengono chiamati i signori Verdurin, che decidono se qualcuno possa continuare a essere uno dei loro o no. Ebbene, Proust analizza questi meccanismi di inclusione e di esclusione in modo davvero straordinario. Per questa ragione si può arrivare a dire che Proust è un fine analista del bullismo, nel senso che il bullismo spesso è proprio questo. Anche in una classe scolastica, per fare un esempio, può esserci il gruppo degli insider che può tener fuori dal circolo prestigioso gli altri, oppure può cacciare via qualcuno che vi era entrato perché a un certo punto si ritiene che non sia più degno di appartenervi. Anche in quei casi ci sarà sicuramente qualche capo che decide chi è degno di far parte del gruppo e chi non lo è.

L’ultima grande cosa che Proust ci dice sullo snobismo è che gli snob spesso negano non solo agli altri ma anche a sé stessi di esserlo. Questo perché lo snobismo ha sempre a che fare con un atto di venerazione dell’altro, per il quale si è disposti a far qualsiasi cosa pur di essere riconosciuti da lui e dal suo clan. Sotto sotto, però, lo snob si vergogna di questa sua dipendenza, perciò nega decisamente di essere tale. Ci sono descrizioni divertenti di Proust che mostrano personaggi che stigmatizzano in modo perentorio negli altri il difetto dello snobismo, che è invece il loro. E d’altra parte lo snobismo nel mondo di Proust non è solo caratteristica delle classi alte, ma anche della gente comune. Tra i domestici, per esempio, c’è molto snobismo, il domestico dei duchi di Guermantes si sente superiore al domestico dei Verdurin che sono “solo” borghesi arricchiti; ed è snob persino il personaggio di una custode dei bagni pubblici, ai quali vuole che accedano solo persone che hanno determinate caratteristiche, per cui si dà la situazione di una persona che entra ed è tutta affannata perché ha da espletare i suoi bisogni, ma la tenutaria le dice che gli stanzini sono tutti occupati, per poi spiegare a un amico che nei suoi locali non possono entrare mica tutti, ma solo persone comme il faut. Ecco, quindi, lo snobismo di un salotto molto particolare.

Dunque, è strettamente legato allo snobismo quello che lo psicoanalista inglese Donald Winnicott ha definito «falso sé» e dal quale il protagonista cerca di affrancarsi.

Questo concetto che tu evochi, nel caso di Proust, è davvero molto presente, non perché Proust lo abbia preso da Winnicott, che è viene dopo di lui, ma perché in un universo come quello della Recherche, dove è davvero importante fare parte degli insider e non finire in una posizione di outsider, non ci si può concedere un abbandono a quello che possiamo chiamare il «vero sé», un sé più autentico. Di fatto, Proust sembra credere che non ci siano tante possibilità di poter manifestare un vero sé. Si può anche non essere d’accordo con lui, ma nelle realtà che lui ha esplorato è molto raro trovare persone che abbiano questa capacità. Nel mondo familiare, c’è un personaggio, quello della nonna, che sembra essere una figura benefica, generosa, non affetta da snobismo, ma è davvero un’eccezione che conferma la regola, regola che riguarda lo stesso protagonista, Marcel. Pure Marcel, infatti – anche poco prima che scatti quella sorta di epifania finale che lo porta a capire che nel suo romanzo deve parlare dei salotti che ha frequentato con un approccio finalmente demistificante – incontra un personaggio importante della Recherche, Charlus, ed è estremamente preoccupato perché non gli aveva mai rivelato di appartenere a una famiglia borghese e teme che Charlus sia venuto a saperlo e che per questo lo giudichi in modo negativo. L’unico vero modo per riuscire a essere finalmente sé stesso per Marcel sarà proprio scrivere la sua opera, perché come scrittore si libererà delle vanità che tanto lo preoccupano come personaggio.

Più che di falso sé, si tratta quindi di un processo di mistificazione, con sé stessi prima di tutto, a cui La Recherche, come romanzo di demistificazione, si oppone.

Sì, Proust dice che noi teniamo continuamente con noi stessi un discorso obliquo e la letteratura avrebbe, tra le altre, la funzione di demistificare questo tipo di discorso. Non siamo tenuti a pensare come Proust che solo la letteratura sia capace di farlo, anche perché è un’esperienza limitata della vita, ma è certo che leggendo la Recherche possiamo riconoscere quanto anche noi stessi siamo presi da quei meccanismi di mistificazione.

Forse da questo punto di vista Proust dice molto anche sulla nostra società, che è un po’ la società della mistificazione. Noi facciamo parte di un salotto immenso nel quale l’apparenza e l’apparire hanno un’importanza notevole, forse inedita sinora. La recherche ci può dire qualcosa circa la mistificazione che operiamo anche con l’immagine che proiettiamo di noi sulle varie piattaforme sociali?

Penso proprio di sì, perché il desiderio di essere all’altezza di una qualunque posizione prestigiosa è aumentato. Anche se adesso il prestigio non è solo di ordine mondano, nel senso proustiano del termine, ma può essere di tanti altri tipi. Tu stessa parlavi del mondo della rete con i suoi social, che in qualche modo sono dei grandi salotti dove si tratta pur sempre di apparire di successo, appagato, realizzato, aggiornato. Nel mondo di Proust mostrarsi all’altezza delle mode culturali e artistiche, per esempio, è molto importante. Ci sono dialoghi in cui qualcuno si rende conto che quello che riteneva un artista à la page non lo è più, oppure quello che lui riteneva essere un artista poco rinomato lo è diventato, il che costringe a delle continue correzioni del tiro. Ecco, Proust si diverte anche a demistificare tutti questi aspetti.

Tu scrivi che Proust conferisce all’arte un valore sostanzialmente religioso, che funzione di carattere religioso assolve l’arte? E, ancora, tutte le grandi opere hanno il valore che Proust attribuisce alla propria?

Proust, come Flaubert e altri autori, ci parla di un mondo disincantato, post-religioso, post-metafisico e ha un grande senso della condizione monadica dell’uomo contemporaneo, del fatto che siamo come tanti individui separati, non più tenuti insieme da alcuni grandi simboli, che erano, appunto, quelli religiosi. Questi facevano sì che ogni uomo sentisse di appartenere a un’umanità unica, perché stava tutta sotto il segno di una divinità, di un credo. Si sa che la parola religione rimanda etimologicamente al termine legame quindi la religione è un grande legame sociale, simbolico. Quando questo grande legame, al di là di quello che crede o non crede ciascuno di noi, è venuto meno si pone il problema di uscire dai propri individualismi e avere grandi momenti di condivisione, nei quali sentirsi tutti parte di un’umanità comune. L’idea di Proust, che ha condiviso anche con altri artisti, quali, per esempio, Mallarmé, Eliot e altri, è che forse l’arte poteva essere una forma simbolica che ci tiene uniti. Secondo lo scrittore francese, senza l’arte noi saremmo tante piccole monadi separate e non sapremmo mai come un altro vede il mondo. L’arte invece ci fa vedere come un altro, per esempio Marcel Proust, vede il mondo. E lo vede con degli occhiali speciali, che però vengono in qualche modo condivisi. Io posso indossare quegli occhiali, uscire dalla mia condizione monadica e sentirmi parte di una comunità più ampia, quella dei lettori di Proust, ma anche quella degli ascoltatori di musica o di coloro che vedono film importanti che restano nel ricordo di molti. Perché, naturalmente, non si tratta solamente di partecipare sull’istante: la bellezza di queste grandi opere che ci fanno sentire parte di una collettività è che si tratta di una condivisione nel tempo. Don Chisciotte, per esempio, non è stato importante solo per gli uomini del Seicento, anche oggi nel leggere l’opera ci sentiamo parte di una comunità che si diverte, si identifica, si commuove… Ebbene, quello è un grande momento a suo modo religioso, perché usciamo dai nostri piccoli mondi privati e sentiamo di appartenere a una comunità molto più ampia, che travalica le barriere geografiche e temporali.

Ancora riguardo le idee erronee riguardo la Recherche: si pensa spesso che la memoria sia la grande protagonista del testo, che propone la storia di un recupero memoriale attraverso le epifanie, la memoria involontaria; invece, tu sostieni che l’oblio è altrettanto fondamentale.

Intanto il titolo del romanzo è Alla ricerca del tempo perduto, dove perduto sta anche a significare dimenticato; è pur vero che l’ultimo volume si intitola Il tempo ritrovato, ma si tratta di un’esperienza molto individuale: è il protagonista che ricorda a partire da alcune epifanie. Ma la Recherche non è costituita solo da quei pochi momenti epifanici che gli consentono di rivivere in modo intenso alcune esperienze del passato, anzi nel testo è molto importante il tema dell’oblio. Proprio alla fine, l’opera mostra come il tempo cambi le persone, come sia una sorta di grande sarto che cuce addosso costumi diversi da quelli che quei personaggi indossavano venti, trent’anni prima. Spesso i protagonisti dimenticano davvero quello che hanno detto o fatto precedentemente. Per esempio, a un certo punto, Oriane de Guermantes, che è un grande personaggio del romanzo, un’aristocratica molto intelligente e spiritosa, parla di un’attrice che ha fatto fortuna e che lei nel passato, quando era alle prime armi, aveva disprezzato e deriso, ma nel parlarne anni dopo afferma di essere stata la prima a valorizzarla. Ci sono dunque l’oblio e la deformazione del passato, che viene continuamente riscritto a seconda del presente. L’operazione di recupero del tempo perduto, delle esperienze dimenticate è un’esperienza controcorrente del protagonista, che non accetta che il presente sia l’unico padrone che può fare del passato quel che gli pare, prima di tutto cancellandolo, ma anche modificandolo a seconda di quel che il presente pregia rispetto al passato.

Secondo Proust la vita è recuperabile solo sub speciae di letteratura, questa possibilità di recupero della vita passata è data dunque solo agli scrittori o anche ai lettori?

Una prima risposta che si può dare è che quella dei lettori non è solo una condizione di passività, i grandi capolavori rendono possibile a tante persone di tornare sulla propria vita, sul proprio passato, rispecchiandosi nelle vicende narrate nei romanzi. Nel mio libro racconto di una mia visita al cimitero parigino del Père-Lachaise, dove è sepolto Marcel Proust insieme alla madre e al padre, e forse anche al fratello. Mi pareva che lì le persone presenti rendessero omaggio a quei tre protagonisti della famosa scena del bacio rifiutato e poi dato che Proust racconta all’inizio dell’opera. Erano polvere adesso, ma in qualche modo noi ci commuovevamo perché sentivamo che quella situazione che i tre avevano vissuto, simile e diversa a quelle che tanti di noi potevano aver vissuto, era stata salvata nel romanzo, così che loro erano diventati per noi figure indimenticabili e in un certo senso eterne. È come se quel momento di vita salvato dallo scrittore si costituisse come un modello per tante altre possibili esperienze simili e diverse, su cui Proust ci permette di riflettere, dandoci la possibilità di rispecchiarci in quell’operazione di recupero e sentire che essa ci riguarda. Mi pare che un grande testo come La recherche dia anche al lettore una possibilità di superare la sua limitatezza, magari solo durante la lettura.

Un’affermazione del tuo saggio che mi ha sorpreso è quella secondo cui anche noi possiamo recuperare e salvare la nostra vita attraverso le conversazioni con gli amici o attraverso i racconti di noi stessi che disseminiamo nei social. Mi domando se in questa letteratura del quotidiano non manchino aspetti fondamentali del romanzo, quali un ordine, un inizio e una fine, una struttura organizzata, che sono presenti anche nelle opere più sperimentali e che ci danno la possibilità di capire meglio il senso dell’esistenza 

Quello che hai chiamato ordine, secondo me caratterizza profondamente La recherche. Quando Proust ha pubblicato il primo volume aveva paura che si sarebbe preso l’incipit come qualcosa di aneddotico, privo di un interesse universale, mentre lui aveva già in mente la struttura generale. Per esempio, riguardo la menzionata scena del bacio rifiutato dalla mamma, narrato nel primo volume, solo in seguito si capirà che è una specie di mito fondatore della Recherche, perché tutti i personaggi gelosi sono già prefigurati nella gelosia del bambino nei confronti della madre. Questo per dire che un grande romanzo, che ha questa campitura, questa capacità di tenere insieme e di dare una direzione e un senso alle esperienze, garantisce molto più di forme di narrazione di vario tipo, anche orali o, appunto, social, che sono per lo più frammentarie. Ma, a volte, anche con gli amici si possono dare racconti che, sebbene in modo incompleto, corrispondono comunque a tentativi di andare oltre il piano fattuale e di provare a dare retrospettivamente un senso alle vicende che ci sono capitate. Quindi, da un lato, c’è il grande testo che ci mostra che cosa può significare riuscirci ma, dall’altro, ci sono tanti piccoli tentativi, che possono anche ricavare degli spunti dalla lettura della Recherche o di un’altra opera. Infatti, ritengo che la letteratura possa arricchire il modo di comprendere le nostre relazioni, le nostre vite; sì, mi sento di dire che l’arte soprattutto nei casi più grandi, abbia anche la funzione di dare un po’ di ordine nel disordine delle nostre vite.

 

 

L'autore

Laura Luche
Laura Luche è docente di Letterature Ispano-americane presso l’Università di Sassari.