Elena Santagata è nata a Pisa il 16 luglio 1993. Si laurea in Lettere Classiche presso l’Università di Pisa. Nel 2022 si addottora in Italianistica presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia con una tesi su Guido Gozzano. I suoi interessi di ricerca riguardano principalmente la poesia italiana contemporanea, in particolare la produzione poetica del primo Novecento e le relative questioni di filologia d’autore. Ha pubblicato su numerose riviste scientifiche («Autografo»; «Studi e problemi di critica testuale»; «Luziana»). È stata enseignant vacataire second degreé presso l’Università di Aix-Marseille ed attualmente è Assegnista di ricerca presso l’Università di Bari. Collabora con la rivista semestrale «Studi Novecenteschi», per la quale si occupa di scrivere mensilmente recensioni ai principali titoli in uscita.
Grazie innanzitutto d’aver accettato di dialogare sul suo libro «Col rovescio del binocolo» Montale e il sublime del comico; questo libro è in memoria del suo maestro Luigi Blasucci con il quale avete ideato questo titolo. Può raccontarci questa storia e la scelta del titolo?
Oggi si stanno progressivamente perdendo i concetti di “scuola”, di “maestro” e di “allievo”. Alcuni pensano che sia un fattore positivo, perché implica una maggiore apertura dell’Accademia e un implemento dell’autonomia dello studioso. Malgrado io condivida, almeno in parte, questa concezione, penso anche che sia innegabile che il sapere si tramandi da persona a persona. È nella tecnica del tramandare e quindi del raccontare ciò che si conosce che risiede il cuore del lavoro di ricerca. La grande passione di Luigi Blasucci, che affondava le proprie radici nei lunghi anni passati come insegnante di scuola superiore, era appunto quella di raccontare. Il libro è nato così: si trattava di sedersi, ascoltare quanto Gino voleva dirti (spunti critici, riflessioni) e decidere quali valeva la pena o meno di sviluppare. Lo scopo era quello di tirare fuori, in maniera maieutica, un discorso compiuto da una serie di idee brillanti e con un potenziale enorme.
Il titolo – «Col rovescio del binocolo». Una lettura del sublime del comico – nasce dal primo spunto proposto da Blasucci a proposito del Montale satirico ed è poi il fondamento di tutto il libro, per cui vale la pena citare le sue stesse parole, con le quali istituisce uno stretto rapporto di continuità tra il “sublime” – inteso da un punto di vista stilistico, metrico, tematico – delle prime raccolte e quello di Satura e dei libri successivi: «Il tipo di discorso poetico inaugurato da Montale con Satura prevede un abbassamento del peso specifico della parola, sentito più che come una perdita di valore, come un mutamento di registro: insomma, come una ‘leggerezza’ programmata. Programmato, se vogliamo, anche un certo ‘scialo’ dei testi, come di chi carica un fucile a pallini (tanto per usare un’immagine montaliana), di cui solo alcuni raggiungeranno pienamente il bersaglio: ma quelli giustificano in certo senso lo spreco. E allora dal seno stesso del ‘comico’ si riforma a suo modo il sublime, quel sublime di cui Leopardi diceva che la poesia non può fare comunque a meno. Testi come Tempo e tempi, Divinità in incognito, Gli uomini che si voltano, Ex voto, La mia Musa appartengono a questa categoria».
Mi piace pensare che Gino avrebbe apprezzato il frutto dei nostri dialoghi e che, in qualche modo, almeno una parte dei suoi insegnamenti vi siano confluiti, tramandando, per l’appunto, la sua memoria. Spero anche che il metodo di Gino, basato sull’analisi minuziosa del testo e degli aspetti metrico-stilistici, con il quale il volume è costruito, traspaia dalle pagine a testimonianza dell’importanza del suo lavoro di docente.
Nella prefazione scrive che questo studio “nasce da una lunga riflessione su Satura”: come mai ha scelto proprio quest’opera? C’è qualcosa che l’ha spinta, oltre al fatto che sia poco studiata e anche poco nota al grande pubblico? Insomma com’è nata questa idea?
Ad essere sinceri, non ho propriamente deciso di studiare Satura. Come ho detto, molti spunti derivano dagli intensi pomeriggi di dialogo con Blasucci: a un certo punto, mi sono resa conto di aver accumulato così tanto materiale sull’argomento da poter cominciare a organizzare un vero e proprio studio sistematico. Del resto, alcuni aspetti erano già stati affrontati da me nella mia tesi magistrale, poi rivista e ampliata, ma già contenente, in nuce, un’idea forte sulla quale costruire un discorso. Bisogna inoltre aggiungere che Satura è una raccolta che necessitava oggi di un aggiornamento, anche se parziale, motivo per il quale sarebbe auspicabile, così come per Ossi di seppia, il progetto di un nuovo commento integrale dell’opera.
Il filo conduttore del libro è “la natura dicotomica di Satura”, che si pone come collegamento tra le raccolte di Montale. Questi elementi sublimi e comici si mischiano fino a creare un ‘sublime del comico’. Quali sono gli esempi più emblematici di questo discorso?
La prima considerazione concerne la differenza tra le prime tre raccolte montaliane, giocate interamente sul registro tragico, e Satura, la quale sembra possedere due anime: una ‘comica’ e una ‘sublime’. Si potrebbe addirittura dire che lo stesso Montale non abbia colto fino in fondo l’essenza del suo quarto libro: non si tratta ancora del vero e proprio verso della poesia, come lui lo ha definito, ma solo di un primo e parziale tentativo, appunto, di ‘rovesciare il guanto’ mostrando ciò che sta dietro alle quinte. Lo spunto che ha portato a teorizzare una forma di persistenza del sublime nella materia altrimenti basso-comica del “secondo” Montale nasce soprattutto da un’analisi di tipo stilistico: la prima ricerca è stata volta a individuare tutti quei punti di Satura (ma anche delle raccolta successive), in cui il poeta richiama o cita direttamente versi della sua produzione precedente. L’autocitazione può essere ribaltata – il caso emblematico è Gli uomini che si voltano che rovescia la chiusa della poesia Forse un mattino andando…negli Ossi – o fedele alla forma originale, ma inserita in un contesto desublimato. Queste spie intertestuali e metriche si ritrovano in alcuni testi della raccolta che, come ha spiegato Blasucci, costituiscono quelle “frecce” arrivate a centrare il bersaglio. Mi sembra che le parole di Blasucci, che qui cito, siano le più adatte a spiegare questo fenomeno: “Il tipo di discorso poetico inaugurato da Montale con Satura prevede un abbassamento del peso specifico della parola, sentito più che come una perdita di valore, come un mutamento di registro: insomma, come una ‘leggerezza’ programmata. Programmato, se vogliamo, anche un certo ‘scialo’ dei testi, come di chi carica un fucile a pallini (tanto per usare un’immagine montaliana), di cui solo alcuni raggiungeranno pienamente il bersaglio: ma quelli giustificano in certo senso lo spreco. E allora dal seno stesso del ‘comico’ si riforma a suo modo il sublime, quel sublime di cui Leopardi diceva che la poesia non può fare comunque a meno. Testi come Tempo e tempi, Divinità in incognito, Gli uomini che si voltano, Ex voto, La mia Musa appartengono a questa categoria (Blasucci, 2006)”.
Il filo conduttore del discorso riguarda quindi la natura “dicotomica” di Satura, la quale si pone come vero e proprio ponte tra le prime tre raccolte (Ossi di seppia, Le occasioni, La bufera e altro) e le ultime tre (Diario del ’71 e del ’72, Quaderno di quattro anni, Altri versi): in questo quarto libro, a mio parere, sembrano infatti coesistere elementi sublimi, caratteristici della prima produzione, ed elementi comici, più frequenti nella poesia del Montale senile. Il ‘sublime del comico’ è un vero e proprio shock tra aulico e prosaico – secondo l’espressione con la quale Montale definì la poesia di Guido Gozzano – che dà luogo a una raccolta ricca di contraddizioni e di novità: una ‘svolta’ nella produzione montaliana, interpretabile da diverse prospettive.
Come ha influenzato la poetica di Montale il rapporto con Margherita Dalmati?
Penso che il rapporto con Margherita Dalmati, insieme a quello con Lea Quaretti, sia uno degli elementi più innovativi del libro. Alla base, ovviamente, c’è l’interessante ritrovamento, da parte di Alessandra Cenni, delle lettere di Montale all’amica: le 41 lettere coprono un arco temporale che va dal 1956, anno dell’incontro tra il poeta e la giovane Maria-Nike Zorayannidis (alias Margherita Dalmati), al 1974. Come è noto la Dalmati è la mittente fittizia della «lettera da Kifissia», nella prima parte di Botta e risposta III, «Ho riveduto il tetro dormitorio…», ma è anche la destinataria reale a cui un Montale ormai vecchio, ma non per questo meno bisognoso di interloquire con giovani corrispondenti, confida oltre alle sue fantasie (o galanterie) amorose anche momenti tragici del proprio privato. È interessante notare come alcune lettere contengano degli spunti importanti per i futuri Xenia, a testimonianza del fatto che, per Montale (così come avveniva nel caso di Leopardi), la prosa costituisca una prima fase preparatoria alla futura forma poetica. Forse questo aspetto, così rilevante, sarebbe potuto essere affrontato in maniera più approfondita nell’edizione del carteggio, che invece non vi si sofferma.
L’epistolario ha inoltre riaperto la lunga discussione intorno al titolo della raccolta: Montale accenna a Margherita un diverso titolo per Satura, del quale fino adesso non sapevamo nulla e che non è dunque presente nell’apparato dell’Opera in veri, Divinità in incognito. Insomma, le lettere forniscono una serie di notizie da non trascurare per chi voglia studiare la quarta raccolta montaliana alla luce degli ultimi ritrovamenti, che forniscono in maniera indiretta notizie e idee necessarie per una nuova interpretazione di molti testi poetici.
Continuando a leggere il suo libro, mi sono imbattuta in questo pensiero: “Ho sempre pensato che la poesia di Montale somigli, invece, a un cerchio che, dopo forti oscillazioni e mutamenti, si chiude con un parziale ritorno al passato”. Invece, “la critica ha disegnato l’arco della produzione montaliana come una linea retta che, a un certo punto, si spezza, dando luogo a una frattura tra un prima e un dopo”. Potrebbe spiegarci meglio perché definisce Montale un crepuscolare?
Penso che, quando si studiano parallelamente le figure di due poeti, sia inevitabile fare delle sovrapposizioni tra l’uno e l’altro (spesso è bene prestare attenzione a questo fenomeno e non esagerare con interpretativi “voli pindarici”): è ciò che è successo a me, dal momento che, mentre scrivevo alcune parti del libro, portavo a termine la mia tesi di dottorato su Guido Gozzano. È stato quasi impossibile non proiettare alcune caratteristiche dello stile “crepuscolare” di Gozzano sulla poesia del Montale di Satura, per definizione “basso-comica” rispetto alla precedente e per questo, possiamo dire, quasi crepuscolare: questa caratteristica è a mio parere ravvisabile anche nella lingua e nello stile montaliani, che, all’altezza di Satura, rimandano in parte al ‘punto di partenza’ costituito dagli antichi Ossi o addirittura dal Quaderno genovese. Mi riferisco soprattutto a una certa ‘atmosfera crepuscolare’: Satura si muove infatti tra ambientazioni casalinghe e quotidiane; stanze di albergo stracolme di oggetti dimenticati e addirittura ospedali psichiatrici. Non ci sono dubbi che Montale sia stato un precoce lettore dell’opera di Guido Gozzano, dal momento che il suo nome fa la prima comparsa già nel Quaderno del 1917 e negli Ossi l’influenza gozzaniana è ben ravvisabile sia in alcune immagini poetiche sia in una certa impostazione dell’io, nonché nell’occorrenza di numerose tessere linguistiche, in larga parte ormai individuate dalla critica.
La poesia L’angelo nero sembra sancire “la fusione tra comico e sublime”; come mai questo componimento è, a suo avviso, così fondamentale all’interno di Satura?
L’Angelo nero è un testo rilevante all’interno della raccolta, perché si trova proprio a metà, una collocazione non casuale per un poeta come Montale, così attento al macrotesto poetico. Alcuni studiosi individuano nella figura dell’ ‘angelo nero’ la presenza di una – o più di una – delle Muse montaliane. In linea con questa interpretazione, la poesia potrebbe essere letta, a mio parere, come una sorta di esperimento: Montale cioè cerca di riunirvi, mediante precisi rimandi tematici e testuali, tutte le donne del passato, motivo per il quale, anche a livello strutturale, la poesia costituisce il cuore della raccolta. L’Angelo nero è un pastiche poetico, una Satura lanx di versi, un miscuglio nel quale si fondono e confondono, senza che nessuna riesca a sopraffare l’altra, tutte le grandi figure femminili, passate e presenti, della poesia montaliana. Le donne del quotidiano (Mosca, Laura), abitanti di una realtà quasi crepuscolare fatta di piccole cose, ciarpame, spazzatura, incontrano qui le grandi ispiratrici di un tempo (Paola, Annetta, Clizia, Volpe). In questa grande epifania collettiva, tutte le Muse si uniscono a creare un’unica creatura che racchiude in sé le due anime di Satura: quella ‘sublime’ e quella ‘comica’. L’Angelo nero è collegato anche alla poesia immediatamente precedente, Divinità in incognito, che la quale forma un dittico (un recto e un verso), e le due poesie devono necessariamente essere lette insieme, perché sono interdipendenti.
All’inizio del quarto capitolo, lei afferma che è possibile stabilire una natura idillica in alcuni componimenti di Montale. Tra quelli che analizza, quali ritiene che siano i più importanti? Quali sono le tematiche che legano gli idilli leopardiani a Ossi di Seppia?
Uno degli aspetti più interessanti dell’ultimo capitolo è la lettura, in positivo, degli Ossi di Seppia, una raccolta che, come sappiamo, ha sempre costituito l’emblema del negativo, “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Non so se la mia interpretazione sia pienamente convincente, ma ho pensato che leggere alcune poesie paesaggistiche degli Ossi in chiave idilliaca, dando le dovute spiegazioni e prove, fosse un modo nuovo di approcciarsi alla raccolta. Definire gli Ossi come idilli tout court non sarebbe corretto, ma è possibile individuare delle costanti da ascriversi, seppur in maniera generale, all’ambito tipicamente idilliaco e bucolico, e in particolare a quello di stampo leopardiano. Io ho messo in luce tre aspetti: 1) gli Ossi, come gli idilli leopardiani, sono narrati in prima persona e l’io, con le sue percezioni e i suoi sentimenti, è sempre al centro della vicenda. Devono essere segnalate due sole eccezioni: Falsetto e Non chiederci la parola…in cui al soggetto poetico si sovrappone il noi collettivo di un’umanità partecipe di una sofferenza universale, per certi aspetti più simile a quello delle canzoni e della Ginestra. 2) L’immaginazione è un elemento quasi sempre presente e il suo attuarsi, pur non conducendo a esiti positivi quali quelli dell’Infinito, mette in moto una serie di giochi interiori volti al piacere dell’illusione e della fantasticheria. 3) Anche l’“idillio” montaliano si esprime tramite una sinusoidale alternanza di felicità e dolore, che si genera nell’animo del poeta, esattamente come per Leopardi, in seguito alla contemplazione della Natura circostante. In particolare, io faccio l’esempio di Vasca e di una poesia risalente al tempo degli Ossi, il cui titolo è già estremamente leopardiano: Prima della primavera.
Giacomo Leopardi è l’autore più affine alla poesia montaliana: “Quella di Montale nei riguardi di Leopardi è, un po’ come accade per lo stesso Montale con Gianfranco Contini, una lunga e nota fedeltà, difficile ma duratura, oscillante tra il bisogno di emulazione e il rifiuto”. Secondo lei perché vi è questa relazione così profonda tra i due poeti?
L’idea di una somiglianza tra Leopardi e Montale, di una certa “aria di famiglia”, non è certo una novità: penso di aver riportato un elenco completo della bibliografia sul tema. Basti pensare a quanto Leopardi abbia influito sull’ “educazione intellettuale” del giovane Montale: solo lui, prima di Montale, è infatti riuscito a dare voce a quell’angoscia e a quel dolore insopportabili e inevitabili che sono insiti nell’esistenza umana; mali che non possono essere sanati dalla poesia, vista come la scelta di chi propriamente non vive. La tematica comune ai due poeti è dunque quella del male, un male che ha dimora nell’io, ma che invade anche tutta la natura circostante. Leopardi è un punto di riferimento e un maestro da seguire nel processo di costruzione della propria identità, ma anche un nemico da attaccare scopertamente quando necessario. Ho cercato di leggere questo aspetto in maniera nuova, soprattutto concentrandomi sui testi. Non c’è dubbio sul fatto che Montale avesse letto Leopardi, ovviamente, ma a me interessava più che altro capire se, a livello stilistico, fosse individuabile una costante nella produzione dei due poeti, un elemento in comune: nasce così l’idea di una “svolta” negli Ossi di seppia, una sorta di passaggio da una condizione “euforica” a una “disforica”, così come Blasucci ha teorizzato succedesse nel caso degli idilli leopardiani.
L'autore
- Anna Raimo è nata a Pisa il 25 dicembre 1995. Laureata magistrale con il massimo dei voti in Linguistica e didattica dell’italiano nel contesto internazionale presso l’Università degli Studi di Salerno e l’Universität des Saarlandes di Saarbrücken, ha in seguito conseguito un Master di II Livello in Didattica dell’Italiano L2 presso l’Università degli Studi di Napoli L’Orientale. I suoi interessi di ricerca spaziano dalla linguistica e didattica della lingua italiana alla storia, letteratura e poesia contemporanea. Si è infatti occupata dell’italiano dei semicolti nella sua tesi di Laurea Magistrale e ha recentemente pubblicato un articolo su una particolare varietà della lingua italiana: "L’e-taliano: uno scritto digitato semifuturista?", in (a cura di S. Lubello), Homo scribens 2.0: scritture ibride della modernità, Franco Cesati Editore, Firenze 2019, pp. 159-164. Tra i suoi autori preferiti vi sono Mario Vargas Llosa, Jung Chang, Philip Roth, Azar Nafisi, Orhan Pamuk, Anna Achmatova, Rainer Maria Rilke, Federico García Lorca, Alda Merini, Bertolt Brecht e Wisława Szymborska. Le sue passioni sono la lettura, la scrittura di poesie e i viaggi, soprattutto in Germania, paese di cui adora la storia, la cultura, l’arte e i magnifici castelli.
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