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Una storia lunga cinquant’anni. Dialogo con Jorge Coulón Larrañaga

Jorge Coulón Larrañaga è nato a Temuco, in Cile. Durante la sua infanzia, la famiglia si trasferisce nella capitale Santiago, dove studia musica (pianoforte) e scienze umane. Successivamente intraprende i corsi di Ingegneria elettrica presso la “Universidad Técnica del Estado”. Proprio nell’ambito universitario maturano le scelte artistiche che nel 1967 lo porteranno a fondare, insieme a Max Berrú e Horacio Durán, gli “Inti-Illimani”, complesso musicale che nel giro di pochi anni raggiungerà il successo anche oltre i confini dell’America Latina. Il giorno del golpe dell’11 settembre 1973 il gruppo si trovava a Roma, città nella quale resterà in esilio nei successivi 15 anni. Durante questa lunga permanenza, Jorge entra in contatto con gli ambienti artistici, culturali e intellettuali italiani: oltre alle numerose collaborazioni in ambito musicale, scrive per alcune testate giornalistiche come l’Unità e La Repubblica. Tornato in Cile nel 1988, collabora con quotidiani e riviste del suo paese e con l’agenzia di stampa internazionale (APSI). Come musicista si è specializzato soprattutto negli strumenti a corda; con il gruppo, tuttora impegnato in lunghe tournée internazionali, ha suonato in quasi sessanta paesi del mondo.
Ho conosciuto Jorge Coulón Larrañaga nel settembre del 1988 durante un concerto ai Giardini del Frontone di Perugia, l’ennesimo dopo i tanti ai quali accorrevo in giro per l’Italia a partire da quello di Lecce del 1975. Fin dall’anno precedente ascoltavo i loro brani nel corso delle puntate della trasmissione radiofonica L’altro suono (condotta dalla bravissima Anna Melato) con Alturas come sigla di testa e di coda. L’appuntamento perugino serbava però una carica emotiva particolare: gli Inti-illimani sarebbero tornati in Cile dopo ben 15 anni di esilio a causa della feroce dittatura seguita al golpe di Augusto Pinochet dell’11 settembre 1973 sostenuto dalla CIA. In quel periodo il gruppo era in tournée in Europa; non potendo far ritorno nel loro paese, scelsero di stabilirsi temporaneamente in Italia, non immaginando che la loro permanenza sarebbe durata esattamente tre lustri, né che nel frattempo sul suolo italiano avrebbero impiantato nuove radici.

Quella sera, nei Giardini aleggiava un’atmosfera di speciale condivisione. Nella commozione generale, tra cileni e italiani, tra i musicisti e il pubblico, un misto di sentimenti tra l’imminente viaggio verso il ritrovamento di ciò che si era perduto anni prima e il distacco da un riparo materiale e affettivo; al contempo, un insieme di gioia, timore, speranza. La struggente VuelvoTorno, su testo del compianto Patricio Manns, brano del 1979, nel quale l’autore immagina il desiderato ritorno nella propria terra- era, per l’appunto, il leit motif dei concerti e degli incontri che precedettero e seguirono la fatidica partenza …vuelvo en alma y vuelvo en hueso, a encontrar la patria pura, al fin del último beso (“… torno con anima e ossa / a salutare la patria innocente / per l’ultimo bacio”). Da quel lontano 1988 ad oggi ho vissuto con gli Inti esperienze di lavoro, viaggi, conoscenze sul piano umano e artistico davvero indimenticabili.

Jorge e Patricio Manns

Di recente incontro Jorge ad Alghero, nel corso del Festival Tra due sponde – Quattro giornate dal 5 all’8 ottobre dedicate alle letterature di lingua spagnola, invitato, insieme allo scrittore e antropologo Federico Bonadonna, a presentare il loro ultimo libro-intervista (Coulón Larrañaga J. – Bonadonna F., Sulle corde del tempo – una storia degli Inti-Illimani, Edicola Edizioni, Ortona, aprile 2023); coordina Piero Marras. A seguire, una tavola rotonda coordinata da Gabriella Saba alla quale, oltre a Jorge, partecipano la scrittrice cilena Nona Fernandez, il Prof. Hernán Loyola e l’Ambasciatore del Cile in Italia, Ennio Vivaldi. A conclusione della giornata il bellissimo concerto nel quale Jorge si esibisce con il gruppo sardo Taifa, fondato da Stefano Cirino Oggianu e Franco Mameli, composto da talentuosi musicisti che, come molti nel nostro paese, intrapresero sin da ragazzini la carriera artistica stimolati dalle sonorità e dalle personalità dei componenti del gruppo cileno. Giornate ricchissime quelle ad Alghero, di scambio e confronto tra scrittori, poeti e intellettuali provenienti da Spagna, America Latina e Italia tra i quali anche Bruno Arpaia. L’ultima giornata, interamente dedicata al Cile in occasione dell’anniversario dei 50 anni dal golpe, si è rivelata particolarmente significativa: Coulón e Bonadonna hanno percorso l’arco temporale considerato in modo puntuale e suggestivo, a partire dalla formazione del gruppo, la sua partecipazione al programma politico di Salvador Allende, i 1000 giorni del Presidente, i tragici eventi che seguirono il golpe dell’11 settembre 1973, la dittatura, l’esilio vissuto tra Genzano e Roma; fino a toccare corde intime che chiamano in causa anche il nostro paese e la sua straordinaria accoglienza, una sorta di corrispondenza d’amorosi sensi sbocciata tra italiani e cileni, nella quale gli Inti hanno indiscutibilmente costituito un tramite. Una giornata, quella dell’8 ottobre 2023, emozionalmente incisiva, accompagnata dall’audio dell’ultimo, toccante discorso di Salvador Allende dal Palazzo della Moneda, poco prima della fine; momenti di profonda commozione anche per l’intervento dell’Ambasciatore Vivaldi, di alto livello istituzionale quanto intimamente viscerale. La tavola rotonda si chiude con i ricordi del novantasettenne Prof. Loyola, già docente presso l’Università di Sassari, forse l’unico amico fraterno ancora vivente di Pablo Neruda. La morte del poeta sopraggiunse a dieci giorni dal colpo di stato, in circostanze sospette. Dato il clima di terrore, a vegliare la salma nella residenza di Santiago, La chascona (La spettinata, come Neruda amava chiamare sua moglie a cui aveva dedicato la dimora), sono solo la moglie Matilde Urrutia, il Prof. Loyola e lo scrittore Francisco Coloane. Poi, durante il funerale, incredibilmente, sempre più persone si uniscono coraggiosamente per accompagnare il feretro; sulla piattaforma YouTube esistono diversi video a testimonianza di ciò che incredibilmente accadde durante il corteo funebre.

Jorge, intanto ti ringrazio per avermi concesso questa opportunità; l’intento è quello di prendere atto di quanto una serie di eventi relativamente recenti siano ancora vividi e abbiano segnato le nostre vite, quelle dei tantissimi cileni che hanno avuto asilo in Italia e quella di una fetta di italiani solidali e pronti ad assimilare la vostra cultura. Diamo spazio dunque a ricordi, emozioni, storia e “infrahistoria”; ti dico subito che questo viaggio nei fatidici 50 anni non seguirà una cronologia, quanto piuttosto salti temporali, rispondendo a esigenze di tipo analogico secondo le quali la relazione tra gli eventi trascende spesso l’approccio diacronico. L’incipit di questo dialogo prende spunto dalla prima risposta affioratami al chiedermi “da dove partiamo?” Partiamo dunque da quei giorni ad Alghero, dalla presentazione del vostro libro, dalla tavola rotonda, dal concerto… ho avuto l’impressione che il legame tra italiani e cileni fosse ancor più profondo di quanto pensassi.

È qualcosa che succede ogni volta durante i miei soggiorni in Italia, sia nei concerti con il gruppo, sia quando vengo da solo per altri motivi, come nel caso di Alghero. Il libro stesso, scritto a quattro mani con Federico, rende conto di questo rapporto profondo, tuttora così vivo, così presente. Probabilmente abbiamo sviluppato una relazione più vicina ai sentimenti che alla ragione, una bella storia d’amore…

Sempre ad Alghero sono rimasta particolarmente impressionata dalla realtà, quasi mai trasparente, che ruota intorno al tema delle adozioni di bambini cileni successivamente al colpo di Stato; conoscevo la storia, ma vederli lì, in carne e ossa, apprenderne i particolari… Mi farebbe piacere tu ne parlassi, soprattutto con riferimento al caso della Sardegna e alla nascita dell’Associazione che si sta occupando di mettere in contatto gli adottati, ora uomini e donne, con le loro famiglie di origine.

A partire dai primi anni ’80 cominciammo a renderci conto dell’esistenza di bambine e bambini cileni adottati in Sardegna, alcune famiglie venivano ai nostri concerti con questi piccoli raccontandoci che erano stati adottati nel nostro paese. Col passare del tempo, conversando con alcuni amici sardi, comprendemmo che si trattava di un fenomeno molto diffuso nell’isola. Dopo il nostro rientro in Cile nel 1988 continuammo a tornare in Italia per la tournée annuale, ma ad un certo punto erano gli stessi ragazzi, senza i loro genitori, ad accorrere ai nostri concerti… Così, conversando con loro, iniziai a conoscere i diversi casi: alcuni sapevano sin da piccoli delle loro origini cilene, altre lo scoprirono riunendo fili di strane situazioni. Un gruppo di cinque ragazze mi chiese aiuto per poter incontrare in Cile le rispettive famiglie biologiche, cosa che potei realizzare proprio grazie a quegli strani precedenti che loro stesse avevano messo in relazione e con l’aiuto dei carabinieri cileni.

Non fu un lavoro facile e, soprattutto, mi resi conto che queste adozioni avevano seguito percorsi molto irregolari: tutte avevano in comune il breve tempo trascorso tra la data di nascita e quella di adozione e nella maggior parte dei casi le madri biologiche dichiaravano di essere state ingannate rispetto alle loro figlie appena nate; naturalmente si trattava di donne povere, senza o con un basso livello di scolarizzazione.

A questo primo gruppo seguì un gran numero di ragazzi e ragazze che chiedevano aiuto per ricongiungersi con le proprie famiglie di origine, motivo per il quale suggerii la formazione di un’associazione in grado di rappresentarli ed eventualmente avere maggiore capacità di esercitare pressione sulle autorità al fine di ottenere le informazioni cui avevano diritto.

Sono trascorsi quarant’anni dalle prime adozioni, nel frattempo la giustizia cilena ha aperto un dossier per le migliaia di migliaia (si parla di più di trentamila) casi di adozioni illegali che resero questi bambini oggetto di un oscuro affare tra agenti della dittatura e diversi paesi del mondo, soprattutto europei.

Vorrei ora tornare a quel settembre 1988 che segnò l’agognato ritorno nella vostra Terra, nella vostra Patria, termine, quest’ultimo, il cui uso, almeno in Italia, è sempre più soggetto a critiche. Oltre ogni aspetto strumentale nell’opposizione positivo/negativo, bene/male, trovo che esso racchiuda una realtà e un significato più complessi: ricordo una sintesi della risposta di Victor Jara alla domanda: Cos’è per te la Patria? E lui … Es amor a la tierra que me ha ayudado a vivir; es el amor a la educación y al trabajo; es amor a los demás que trabajan por el bienestar común; es amor a la justicia como instrumento del equilibrio para la dignidad del hombre; … el amor a la libertad… (“… È amore alla terra che mi ha aiutato a vivere; è amore verso l’educazione e il lavoro; è amore per coloro che lavorano per il benessere comune; amore per la giustizia come strumento dell’equilibrio per la dignità dell’essere umano… amore per la libertà”). Mi sovvengono poi alcuni versi di Pablo Neruda ne La Patria prisionera: Patria de mi ternura y mis dolores / Patria de amor, de primavera y agua…(“ La patria prigioniera: Patria di tenerezza e di dolore / patria d’amore, d’acqua e primavera…”) che voi cantavate con struggente nostalgia.

Credo non sia facile spiegare il vissuto del vostro ritorno: una folla oceanica vi attendeva all’aeroporto e in tutta Santiago; ho ancora negli occhi le immagini di quel filmato che mi fece vedere Max Berrú Carrión al suo rientro a Roma.

La poetica definizione di Victor Jara è indubbiamente una risposta alla tua domanda, ma naturalmente ci sono altre definizioni possibili. Di fatto, di questi tempi si usa rimpiazzare il termine “Patria” con quello di “Matria” per rimuoverle il sapore maschilista. Credo che la gioventù del nostro continente abbia nei confronti del proprio paese un sentimento di appartenenza e identità che in Europa, e specialmente in Italia, è più legato alla regione o al luogo di nascita.

Ad ogni modo, quel ritorno fa parte di quelle esperienze che ti segnano la vita, così come il giorno del golpe è marchiato a fuoco nella nostra memoria. In quel ritorno si è compiuto un importante atto di guarigione, di ricomposizione di un vincolo interrotto dalla violenza quindici anni prima; le migliaia di persone che ci accolsero al nostro arrivo a Santiago ci comunicavano che non eravamo degli estranei, che eravamo stati sempre presenti e ciò era un premio enorme per le nostre afflizioni verso quel luogo per un tempo creduto separato da noi e che invece era il nostro paese.

Gli Inti-Illimani hanno costituito un anello di congiunzione tra italiani e cileni, nello scambio sul piano intellettuale, culturale e a livello di presa di coscienza di realtà geograficamente lontane eppure incredibilmente vicine. A partire dall’imprescindibile ruolo dell’Ambasciata Italiana a Santiago – di cui tratta Nanni Moretti in Santiago, Italia del 2018 – da chi vi stavate separando in quel settembre 1988? Cos’era avvenuto di così speciale tra l’Italia e i Cile? Tra noi e voi? Quale alchimia? Potenza della musica? del canto? della poesia? Qualcosa sembrerebbe evocare le “pulsioni animiche” con le quali Alejo Carpentier richiama gli elementi di una realtà immateriale, al di là dei corsi storici.

Arguedas parla dei “fiumi profondi”, quei mansueti e apparentemente tranquilli fiumi che celano la gigantesca potenza delle loro acque. Per quel che mi riguarda, la casa di famiglia si trovava a pochi metri dall’imponente Ambasciata Italiana a Santiago (occupa un intero isolato); molte volte ho giocato nel suo giardino, preso le mie lezioni di piano utilizzando il pianoforte dell’Ambasciata. Non avrei mai immaginato di poter vivere una fase così cruciale della mia esistenza nel vostro paese, e che nonostante la successiva separazione fisica lo avrei portato dentro di me per il resto della mia vita. Spiegazioni potrebbero essercene molte, ma ho sempre preferito lasciare senza risposte razionali quella parte inscindibile della mia attuale identità.

Una corrispondenza che gli Inti nel 2003 sentono di voler suggellare dedicando un intero CD al nostro paese, intitolato, per l’appunto, Viva Italia: in questo lavoro affiora una sintesi di ciò che avete assimilato della nostra cultura durante il vostro lungo esilio cominciato quando eravate ancora molto giovani. Fino a quel momento noi italiani avevamo avuto contezza solo di ciò che grazie a voi ci aveva arricchito, non consapevoli di quanto lo scambio fosse stato reciproco e inevitabile… Ricordo ancora lo splendido concerto organizzato per l’occasione di Viva Italia da Valter Veltroni (allora sindaco di Roma) in Via dei Fori Imperiali.

Sì, fu un concerto indimenticabile! Ce lo dovevamo reciprocamente in qualche modo, visto che nel 1988, prima del nostro ritorno in Cile, la CGIL organizzò un concerto di addio in Piazza Farnese… quel giorno piovve talmente forte che riuscimmo a cantare solo El pueblo unido di fronte ad una piazza piena di gente completamente fradicia.

L’Italia che abbiamo conosciuto tra il 1973 e il 1988 era un’Italia straordinaria, in continuo fermento sul piano culturale, sociale e politico: era indubbiamente un Paese all’avanguardia in Europa, sotto quasi tutti gli aspetti. I poteri occulti, che imparammo a conoscere, cospirarono per porre fine a quella fase, ma noi che l’abbiamo vissuta ne abbiamo fatto tesoro: VIVA ITALIA (che parafrasava Viva Chile, il nostro debutto discografico) era un omaggio a quell’Italia forse irripetibile…

Grazie a voi abbiamo avuto modo di conoscere figure portanti del vostro patrimonio artistico-culturale, innanzitutto Violeta Parra, colei che per prima ha aperto il varco verso un nuovo modo di fare poesia cantata, del suo afflato lirico per i diseredati, delle suggestioni delle sue ricerche musicali, del recupero delle radici andine, del suo instancabile lavoro, della sua sensibilità che affina quella di chi la ascolta.

Jorge con Joan Baez e Isabel Parra

Mi rende felice l’esserci arricchiti reciprocamente…

Durante i vostri concerti ascoltavamo anche alcuni brani di Victor Jara che stimolavano la nostra curiosità per la sua opera artistica completa e profonda, oltre ad essere colpiti dal dramma della sua cattura, dalle brutali torture che subì e dal suo feroce assassinio a pochi giorni dal golpe. Il tuo incontro con colui che convoglierà magnificamente le nuove esigenze creative e comunicative nel genere definito la “Nueva canción chilena” è descritto con lucidità e disarmante dolcezza nel tuo libro La sonrisa de Victor Jara (Editorial Universidad de Santiago de Chile, Santiago de Chile 2021). Ti chiedo di renderci partecipi dell’atmosfera che accompagnava ogni esperienza con Victor e quanto tu abbia appreso da lui, come musicista e come uomo.

Jorge e Joan Jara

Non vorrei rubare lettori al libro che, spero, sarà presto pubblicato in Italia. L’esperienza di conoscere Victor è intimamente relazionata con il periodo che coincise con lo sviluppo, il trionfo e la drammatica fine di Unidad Popular. Si tratta di un processo politico e culturale cominciato agli inizi del Ventesimo secolo, un lungo processo nel quale varie forze si congiungevano organizzandosi, con la nascita dei sindacati, le prime centrali operaie, l’educazione pubblica e così via… Pablo Neruda, Gabriela Mistral, Francisco Coloane, Violeta e Nicanor Parra, sono figli di questo Cile laico e democratico che già nel 1938, con il Frente Popular, sfuggì i canti delle sirene del fascismo evitando che portassero il Cile sull’orlo del precipizio. Inoltre, importante fu pure il contributo degli esuli spagnoli per la crescita del senso culturale e democratico di grandi masse di lavoratori. Infine, negli anni ’60 la riforma agraria assorbì nelle città grandi masse di contadini, fino ad allora mantenuti in uno stato feudale. Victor proveniva da quel mondo, da quel Cile contadino: da quella condizione di estrema povertà materiale crebbe fino a divenire un nome fondamentale nel teatro e nella musica cilena. Mi impressiona la sua totale coerenza e integrità, mai smise di sentirsi parte del suo mondo e di lottare per la sua gente, i diseredati, gli ultimi della terra; e lo fece sventolando un sorriso.

Non possiamo fare a meno di citare Patricio Manns, autore di moltissimi vostri testi; sul cammino segnato da Violeta, Victor e Patricio fioriscono anche Quilapayun, Inti Illimani, Illapu, Sergio Ortega, Luis Advis, i figli di Violeta Parra, Angel e Isabel. Ognuno di voi avrà una propria identità artistica, eppure le voci, le sonorità, le atmosfere, sembrano echeggiare quelle di tutta l’America latina, dalla Cordillera mirabilmente descritta da Gabriela Mistral (Madre che giace e madre che avanza) ai “fiumi profondi” di José Maria Arguedas che hai poc’anzi citato; un’America latina poverissima ma ricca di creatività e dignità.

Il caso di Patricio Manns è diverso rispetto a quello di Violeta o di Victor; in realtà, la nostra relazione professionale e di profonda amicizia ebbe inizio quando eravamo in esilio. Precedentemente avevamo collaborato con lui solo nel 1973, alla registrazione di un suo disco prodotto da Luis Advis, ma fu nel 1978 che decidemmo di invitarlo a lavorare con noi e per l’occasione venne da Parigi a Genzano di Roma inaugurando una stagione artistica e umana che segna la vita e lo stile degli Inti-Illimani.

Manns, come lo chiamavamo, è un personaggio straordinario. Figlio di maestri rurali, da bambino divorò una quantità di libri, prima nella biblioteca di famiglia, poi in giro per il mondo; fu giornalista, scrittore, poeta, musicista, cantautore, realizzando tutto ciò ad un alto livello di originalità ed eccellenza.

Proprio in questi giorni a Santiago viene presentata la sua autobiografia – che spero venga pubblicata anche in Italia -, con l’avvertenza che la sua traboccante immaginazione non garantisce la fedeltà ai fatti, ma, allo stesso tempo, con la certezza che non vi sia racconto che possa rendere giustizia all’intensità e alla ricchezza della sua vita reale. gruppo

Una domanda che immagino ti perseguiti: chi ha proposto e qual è il significato del vostro nome? Non posso prescindere, la risposta è troppo bella, ha a che fare con la vostra formazione, con l’humus nel quale il gruppo prende forma …

Siamo nati nei cortili della Universidad Técnica del Estado, dove ognuno di noi frequentava una delle specialità del corso di Ingegneria; il gruppo cominciò a prendere forma nei primi mesi del 1967 mosso dalla passione per le sonorità degli strumenti andini che Violeta Parra aveva cominciato a diffondere nella capitale. Tale passione ci trasformò in uno dei pochissimi gruppi che a Santiago suonavano musica boliviana; un giorno fummo invitati dalla famiglia Dávalos (il cui patriarca era di nazionalità boliviana) a suonare per la celebrazione che ogni 6 di agosto si svolgeva nella loro casa in occasione della festa nazionale della Bolivia. Eulogio e sua sorella Grazia ci battezzarono per l’occorrenza col nome Inti-Illimani (dalla lingua aymara Sole della montagna Illimani) … l’anniversario volse al termine ma il nome è venuto in viaggio con noi!

Mi piacerebbe che ora tu raccontassi degli anni che precedono la vittoria di Salvador Allende alle elezioni presidenziali del 1970 nei quali evolve il vostro impegno politico; seguono quasi tre anni del governo di Unidad Popular: in quei mille giorni, la “estrella de la esperanza” animò studenti, operai, poveri che attendevano un riscatto dalla propria condizione di miseria. Mi impressionano le tue parole che torno a rileggere più volte ne La sonrisa de Victor Jara: “Allende e coloro che lo appoggiarono furono leali al punto da pagare con la propria vita l’impegno col paese e con la loro coscienza…”.

Parlare di questo oggi, cinquant’anni dopo, in circostanze in cui gli schemi etici e le convinzioni politiche e sociali hanno raggiunto un alto grado di flessibilità, è complicato. Non è che non se ne possa parlare, semplicemente si è affievolita la capacità di comprendere quei riferimenti; ciò che noi abbiamo vissuto come qualcosa di naturale, date le circostanze e le nostre convinzioni, suona oggi come ingenuo, nel migliore dei casi. Eppure, con la stessa prospettiva temporale, ciò che abbiamo realizzato e vissuto è possibile solo nella cornice di quella dedizione assoluta, di quella assoluta fedeltà ai nostri principi e quella lealtà totale verso i nostri compagni e la causa che ci muoveva. Senza quella convinzione e determinazione, senza quella generosità totalizzante, l’esperienza di Allende e di Unidad Popular non sarebbe stata possibile. Tutto ciò vale per qualsiasi settore delle attività sociali e culturali, ma specialmente per quello artistico.

Vorrei soffermarmi sulla figura di Allende, richiamando alcuni ricordi personali. Nel dicembre del 1991 fui ospite nella casa parigina di Miria Contreras (la Payita), la segretaria del Presidente che aveva scelto la capitale francese come luogo per il suo esilio; ogni tanto si recava a Cuba grazie all’asilo offertole da Fidel Castro subito dopo il colpo di stato. Al mio arrivo nella sua casa, Miria si trovava per l’appunto nell’isola, ospite di Fidel; tornò dopo qualche giorno e io mi incantavo a sentirla parlare del suo Presidente, anche se ciò avveniva con un certo pudore nel quale avvertivo un dolore sottile ma persistente; né io avevo il coraggio per azzardare tutte le domande che mi ribollivano dentro. Ricordo che l’appartamento era costellato da numerose foto di Allende, dalle quali affiorava una tenerezza infinita: tra le più belle, quelle con il suo amato cane. Sempre a Parigi, un giorno squillò il telefono, era Angel Parra, figlio di Violeta, cercava la Payita; con voce tremante per l’emozione gli rispondo che era a Cuba e che sarebbe rientrata dopo qualche giorno; farfuglio qualcosa, sul piacere di parlare con lui, dell’amore che nutrivo verso sua madre… lui risponde con voce dolce e gentile. I contorni di un mondo fino ad allora solo immaginato prendevano forma attraverso fotografie, oggetti, la telefonata di un artista la cui madre, nonostante le sue pene, aveva cantato la propria gratitudine alla vita con versi di incredibile bellezza, e che solo la nostra Gabriella Ferri poteva riproporre quasi con lo stesso pathos.

In entrambi i casi di cui mi parli, la Payita e Ángel, in relazione, rispettivamente, ad Allende e Violeta, si trova quello squilibrio lacerante tra gli affetti e il peso della storia. Siamo sentimentalmente così (apparentemente) fragili nella nostra umana individualità, messi talvolta a giocare ruoli epici che marcano il corso dell’umanità. Credo che il caso di Allende sia emblematico, il suo ultimo discorso è di una lucidità quasi agghiacciante; in quella circostanza, mantenere quella chiarezza concettuale, comprendere il proprio ruolo nella storia in un momento in cui lui – un essere umano che amava la vita vivendola intensamente – sapeva che il suo sacrificio costituiva un passo necessario per non tradire sé stesso e la fiducia che il suo Popolo avevano riposto in lui. L’Allende dell’ultima ora mi sconvolge per la sua solidità e la sua limpidezza.

Avrebbero potuto mai i loro cari rivendicare i loro diritti? Avrebbe mai potuto la Payita, per esempio, chiedere ad Allende di negoziare con i golpisti per salvarsi? Credo che nessuno avrebbe osato farlo a causa di quella straziante coscienza per la quale l’eroe, il personaggio della storia, riveste una dimensione etica ed estetica che lo determina, anche al costo del profondo dolore per la perdita di quel mondo quotidiano di cui non rimarrà traccia nei racconti epici. È la dimensione dell’eroe e quella del “piccolo” essere umano che si trova a dover giocare quel ruolo, nel contesto dei propri affetti, degli amori, dei suoi limiti…

A proposito di quel fatidico 11 settembre 1973: la notizia che riceveste mentre eravate in visita alla Cappella Sistina avrebbe modificato il corso delle vostre vite in modo cruciale. Indirettamente e in misura minore, quel dramma segnò in qualche modo un solco anche nel nostro quotidiano e nelle nostre scelte; fummo inondati dai vostri canti, avvertimmo il vostro dolore, lo sconcerto fu generale, presero corpo forme di solidarietà, storie di grandi amicizie, gli stadi si riempivano quando eravate voi a suonare, talvolta bisognava arrivare con parecchie ore di anticipo per riuscire ad entrare.

Nonostante si cominci a mettere in discussione la teoria del Big Bang, mi ha sempre attratto l’idea di quel punto carico di una quantità inimmaginabile di energia che esplodendo inonda di astri, galassie e sistemi planetari l’immenso universo. La storia dell’umanità non abbonda di esplosioni così determinanti, ma non si può neppure dire che siano poche. Fatti e circostanze talmente carichi di energia creatrice o distruttrice che al momento della loro nascita, del loro sviluppo o del loro collasso si espandono per il mondo modificando le circostanze delle vite di vari popoli e singoli individui. Penso al Vesuvio, al Rinascimento, alla Rivoluzione Francese, ad Alessandro Magno, a Gengis Kahn, a Maometto, alle grandi guerre contemporanee, alla Rivoluzione Russa, a Fidel che entra all’Avana, ad Hiroshima, alle grandi scoperte scientifiche… potrei proseguire per diverse pagine…

Tutti gli accadimenti della storia sono connessi e, come nel caso del battito delle ali della farfalla in Cina che scatena una tormenta in Amazzonia, un fatto, una storia nata e sviluppatasi nell’ultimo angolo di mondo e seguita con attenzione da una complessa Europa post-bellica, nella sua apocalisse divampa con diversa intensità in molti paesi del pianeta. Il significato del golpe cileno per il mondo, ma soprattutto per l’Italia e per il suo progetto democratico e di cambiamento, può essere spiegato con concetti razionali, mentre risulta difficile illustrarlo nella sua soggettività, nella dimensione emozionale nella quale la società italiana visse la fine dell’esperienza di Unidad Popular. E per diverse e puntuali casualità noi eravamo lì, nell’occhio del ciclone della storia: una incredibile storia sul piano delle nostre piccole vite, ma una leggenda sul piano della storia.

Fino al 1978 i vostri ritmi di lavoro furono davvero vorticosi a causa del gran numero di concerti in Italia e nel mondo. Poi, con riferimento all’Italia, una data sembra segnare uno spartiacque, il sequestro di Aldo Moro. Continua tu.

L’ennesimo episodio, come l’eruzione del Vesuvio o del Krakatoa… prima e dopo… e come il golpe in Cile, fu pilotato a distanza, forse dalle stesse mani.

Viene da pensare che ogni crisi possa costituire opportunità di evoluzione; mi sembra di ricordare che proprio in quegli anni avvenne il fatidico incontro con il compositore Luigi Nono: il vostro ottavo album pubblicato in Italia nel 1979, Canción para matar una culebra, proponeva nuove cifre stilistiche sia nelle composizioni che negli arrangiamenti che ben si armonizzavano con le radici della vostra musica. Nuovi approcci musicali offrivano orizzonti più vasti…

Ricordo sempre con grande affetto alcuni pomeriggi nella casa della famiglia Nono nella Giudecca, con Nuria e le figlie, pomeriggi di affetti famigliari, guardando partite dei masters di tennis o conversando delle piccole grandi cose di vita quotidiana. Come con Gian Maria Volontè nella sua casa di Via del Moro a Trastevere, amici senza altro desiderio se non quello di parlare di temi trascendentali; semplicemente, fragili esseri umani nella quotidianità dell’affetto e dell’amicizia.

Canción para matar una culebra è un disco importante; nel concreto, il brano è in una certa misura il risultato di una collaborazione con il compositore Alessandro Sbordoni per un suo tema su un testo di Pablo Neruda con il quale partecipammo al Festival “Nuova Consonanza” a Roma.

Questo disco, come altri di quel periodo, è indubbiamente frutto del talento compositivo di Horacio Salinas, ma è importante dire che il gruppo decise di vivere l’esilio con le ‘finestre aperte’; da qui la nostra disponibilità a collaborare con diversi musicisti e artisti oltre le nostre frontiere stilistiche. Dalla collaborazione e dallo scambio possono arrivare solo cose interessanti, alcune migliori, altre meno buone, ma sempre stimolanti. Mi piace l’idea dell’acceleratore di particelle, quel tunnel in cui minuscole masse vengono sospinte provocando uno shock da cui risultano nuove particelle in un gigantesco scambio di energia…

Restando sul piano delle collaborazioni con artisti italiani, oltre al Maestro Luigi Nono, come non ricordare Milva, i Tazenda, Francesco De Gregori, Lucio Dalla, un emozionatissimo Daniele Silvestri, Ennio Morricone, la Nuova Compagnia di Canto Popolare, Roberto De Simone. Poi le tue frequentazioni con Gigi Proietti, Gian Maria Volonté, Giuliano Montaldo. Sto trascurando tantissimi nomi… Ho avuto la fortuna di assistere ad alcune di queste collaborazioni, ma una è rimasta per me davvero indelebile: la Cantata per Masaniello del Maestro Roberto De Simone per coro, orchestra e Inti-Illimani è davvero un’opera indimenticabile, con uno strepitoso Giovanni Mauriello nel ruolo del capopopolo. Si svolse al Teatro Mercadante di Napoli a cavallo tra dicembre 1988 e gennaio 1989. Il pericoloso tentativo di correlare tratti della figura di Ernesto Che Guevara con quelli di Tommaso Aniello poteva riuscire così bene solo al genio di De Simone: il risultato delle armonie creative tra testi e musiche originariamente, o almeno stilisticamente, legate alla cultura popolare napoletana e temi e sonorità latino-americane, fu sublime; la risposta del pubblico fu di traboccante visibilio. In quell’occasione cercai di vedere quante più repliche possibile. Ancora oggi nei vostri concerti proponete un brano della cantata, Canna Austina, e la popolare Tarantella garganica che il Maestro aveva inserito nell’opera. Che ricordi hai di quell’esperienza e, in generale, delle collaborazioni con gli artisti napoletani?

Uno degli incontri musicali più fortunati fu quello con la NCCP (Nuova Compagnia di Canto Popolare, tuttora ho un’affettuosa amicizia con Patrizio Trampetti): grazie a loro ho avuto l’opportunità di conoscere il Maestro De Simone, un genio. In effetti, la Cantata per Masaniello rappresenta una delle nostre più importanti esperienze; purtroppo, pur trattandosi di un’opera maestra, nella fatale congiunzione Napoli-America latina, nessuno si preoccupò di realizzare una registrazione discografica o video.

Jorge e Patrizio Trampetti

Restando nel campo delle collaborazioni facciamo una breve incursione anche in quelle con vostri colleghi internazionali: Mercedes Sosa, Atahualpa Yupanqui, Silvio Rodriguez, Pablo Milanés, Joan Manuel Serrat… Poi il vostro incontro con due chitarristi straordinari, l’australiano John Williams e il cordovano Paco Peña, l’uno classico, l’altro flamenco: la fusione e la giustapposizione dei vostri stili fu splendida; ne nacque un CD (Fragmentos de un sueño / Fragments of a dream), una serie di concerti per il mondo e la partecipazione al Festival internacional de flamenco nel 1990, al quale partecipava pure Mercedes Sosa, nel luglio di una Cordoba bollente e vivissima.

Jorge e Joan Manuel Serrat

Indimenticabile festival, indimenticabile collaborazione, indimenticabile estate durante la quale l’Europa del sud si scioglieva nella calura, e la vita, la musica e i sogni sembravano torrenti che traboccavano dalle nostre vene.

Jorge e Pablo Milanés

Facciamo ora un salto fino a verso la fine degli anni 90: Max Berrú, il tuo amico fraterno, decide di lasciare gli Inti-Illimani per motivi personali. Il gruppo ha la capacità di funzionare meravigliosamente ad ogni inevitabile cambiamento ma personalmente avvertivo fortemente l’assenza della sua figura carismatica, di quel suo modo di essere sul palco e quella voce unica (almeno tra quelle maschili) che a mio avviso resta tuttora la voce più rappresentativa dell’universo latino-americano; se i libri di Gabriel García Márquez avessero un canto, una voce, nel mio immaginario sarebbero il canto e la voce di Max, una persona speciale che ci ha lasciato nel 2018. Tra l’agosto e il settembre 2014 mi trovavo a Santiago del Cile; dopo vari tentativi andati a monte per rintracciarlo, lo incontro per caso nell’ambito di un festival nel quale lui e il suo gruppo Los insorbornables tenevano un concerto. A quel bellissimo festival ero andata controvoglia, trascinata dalla mia amica Laura Martorana che tentava di distogliermi dalla tristezza per non essere riuscita ad incontrare Max e per la nostra imminente partenza. Fu un momento di grande festa, cui partecipò anche il vasto pubblico: con l’occasione potei riabbracciare anche Cristobal e Tocori, i suoi figli che l’ultima volta avevo visto adolescenti. Ti prego di dedicare un momento a Max, alla sua generosità, alle amicizie intessute con tanti italiani, all’amore per il prossimo, ma anche alle grasse risate che ci ha fatto fare.

Conobbi Max nei due anni antecedenti l’uscita della prima edizione di Cent’anni di solitudine e quando terminai di divorare il libro – fondante, per noi latino-americani, alla stregua del Don Chisciotte per gli spagnoli – ebbi la sensazione che il narratore fosse Max, il quale mi aveva già raccontato le storie della sua famiglia e del suo paese d’origine, Cariamanga, nel sud dell’Ecuador: Nicandro che, ignorando le leggi della fisica, spiccò il volo dal campanile della chiesa maggiore con un aereo di cartone; del sordomuto che durante le feste del paese si sedeva al fianco del chitarrista per mordere la paletta della chitarra e potersi così inebriare di musica; di suo nonno Napoleón e di sua zia Peregrina, la speziale…

Max è stato, è, mio fratello; non è solo la voce più bella degli Inti-Illimani ma anche la più bella persona del gruppo. Non se l’è mai cavata bene con le lingue, eppure nessuno era in grado di comunicare come lui, in qualunque angolo di mondo si trovasse; spero di riuscire a scrivere un libro su Max prima di morire, altrimenti spero lo facciano i suoi figli… è un patrimonio dell’umanità.

Jorge e Max Berrù
Jorge e Max Berrù

Dal 2000 al 2003 il complesso ha un cambio ancor più radicale: vanno via l’uno dopo l’altro José Seves, Horacio Salinas e Horacio Durán. Ma anche stavolta, dinanzi a difficoltà non indifferenti, quel che resta del gruppo originale è in grado di rigenerarsi con incredibile energia, forse perché continuamente baciato da Inti, dal sole che inonda di luce e calore la montagna Illimani. I giovani musicisti che integrano l’equipe portano nuova linfa, sonorità e voci coinvolgenti alle quali il pubblico continua a rispondere con entusiasmo. Tra l’altro, Patricio Manns continua a scrivere per voi con la sua antica maestria e nuove suggestioni, tu proponi testi sempre più evocativi e io ho la grande fortuna di tradurre il vostro Pequeño mundo, il CD pubblicato in Italia nel 2006: per me fu come fluttuare in un mondo di poesia rarefatta, accompagnata dalle splendide note di Manuel Meriño, Juan Flores, Marcelo Coulón e, ovviamente, le tue in Tonada.

Dicono che gli alberi da frutto diventino più resistenti con degli innesti adeguati. Siamo sempre stati un gruppo che ha optato per il cambiamento come presupposto di autoconservazione. Ci sono gruppi e persone che preferiscono restare nella sicurezza di ciò che già si conosce: seguono uno stile ben radicato divenendo simboli di un’epoca … va bene, anche questo può essere importante. Gli Inti-Illimani hanno scelto di percorrere nuove strade, confrontarsi, assorbire informazioni, far proprie nuove esperienze. Siamo sulla scena da molto tempo, si chiudono cicli, alcuni cercano altre strade o semplicemente si stancano di camminare, ma questa chiva [NdR: Mezzo di trasporto tradizionale che viene usato perlopiù nell’ambito rurale] continua il suo percorso: cambia il guidatore, il paesaggio e i passeggeri ma c’è qualcosa che la definisce e la identifica. Esiste uno ‘stile Inti-Illimani’ ma i nuovi musicisti in realtà non vanno mai a rimpiazzare quelli che se ne vanno; arrivano con le proprie particolarità, con la loro individualità, a far parte di questo gruppo che a sua volta ha personalità e carattere: incontri che ci arricchiscono rinnovando le energie necessarie per continuare a girare.

Hai vissuto a Perugia per parecchio tempo, come me hai frequentato la Facoltà di Lettere, io l’indirizzo antropologico, tu quello di storia medievale, ma abbiamo avuto un maestro in comune, Tullio Seppilli. Nel febbraio del 2007 il vostro manager di allora, Corrado Borghesi, proprio in occasione della presentazione di Pequeño mundo, aveva organizzato una tournée in molti teatri italiani; uno dei concerti si sarebbe svolto proprio presso il Teatro Morlacchi di Perugia, preceduto da una vostra conferenza nella stessa Facoltà di Lettere nella quale avevamo studiato entrambi. L’incontro, voluto da Paolo Caucci (allora docente di Letteratura Spagnola con la cui Cattedra collaboravo), si svolse nell’Aula A di Palazzo Meoni coinvolgendo anche i nostri studenti, in un’atmosfera di totale ma rispettosa e proficua libertà intellettuale. Tullio Seppilli fu felicissimo di rivederti, venne al concerto, partecipò alla conferenza, parlò a lungo incantandoci come al solito e ricordando, in quell’occasione, anche l’esperienza di un incontro con Pablo Neruda a San Paolo del Brasile verso la fine degli anni ’60.  All’epoca svolgevo attività di didattica di supporto presso la Cattedra di Letteratura spagnola e di Cultrice di materia per la Letteratura latino-americana. Forse non ho mai avuto modo di dirti che, dopo il coinvolgimento dei nostri ragazzi a quell’evento, aumentarono incredibilmente le richieste di tesi di laurea su tematiche e autori latino-americani: Octavio Paz, Pablo Neruda, Francisco Coloane, Isabel Allende, Julio Cortazar, Jorge Luis Borges, José María Arguedas… non posso davvero elencarli tutti! In meno di dieci anni sono state discusse più di quaranta tesi su questi argomenti (oltre quelle dedicate alla Letteratura spagnola). Sia durante i corsi monografici come pure nel tutoraggio degli elaborati, invitavamo sempre gli studenti ad approcciarsi alle tematiche trattate da una prospettiva antropologica al fine di poter comprendere l’universo letterario latino-americano nella sua essenza, evitando il limite del mero gioco intellettuale. Li invitavamo anche a riflettere sulla non casualità del fatto che molti degli autori trattati fossero anche antropologi o etnologi o che, perlomeno, avessero conoscenza di tali discipline; o che, semplicemente, appartenevano ad un universo nel quale una realtà immateriale e persino magica poteva naturalmente intrecciarsi con quella tangibile. La cosa più bella era vedere i nostri studenti tornare a rileggere i testi, o leggerne di nuovi, con un’altra visione, animati da un grande entusiasmo, guardarci con occhi scintillanti, grati per i nuovi orizzonti proposti.

Sono stato davvero fortunato con i miei incontri nel lungo cammino al quale mi conduce la curiosità. Negli ultimi anni ho avuto la sorte di stringere amicizia con il Professore Nuccio Ordine col quale abbiamo intessuto lunghe e piacevoli conversazioni sull’idea del fato che dimora in letteratura. Non credo sia il caso di dissertare su tale argomento, non ho nemmeno i titoli accademici necessari, però credo che la grande letteratura abbia sempre in serbo qualcosa di miracoloso, di magico, qualcosa di difficile da definire, non so se in termini di innocenza, ingenuità, di naif, di autentico. Utilizzo molti aggettivi perché nessuno rappresenta esattamente la parola di cui ho bisogno per definire il concetto, ma tutti insieme rendono l’idea; il grande cinema italiano degli anni che vanno tra i ’50 e i ’70 possiede quel potere narrativo, ciò che nell’arte culinaria rendono gli ingredienti cosiddetti “veraci”.

Ricordo quell’incontro all’Università, il magnifico Tullio Seppilli – un altro incontro fortunato nella mia vita – e ricordo con gratitudine il mio passaggio alla Facoltà di Lettere; custodisco nelle pieghe più profonde del mio essere tutto ciò che imparai e la bellissima atmosfera che si respirava.

Giungiamo al vostro ultimo lavoro, Agua, realizzato, guarda caso, insieme a un cantautore italiano, Giulio Wilson. Nei vostri testi si percepisce l’inquietudine (non catastrofica) per il pericolo dell’oltraggio a un elemento primordiale, l’acqua per l’appunto, poiché, come recitano alcuni brani del CD: Somos tierra, en ancho mar / Vida y agua en espiral / e ancora Somos agua y sentimientos / somos agua que no olvida / somos agua en movimiento / somos agua, somos vida / agua consagrada, agua organizada / sin agua no somos nada. Lontano da estremismi in tema di ambiente, talvolta soggetti a mode, manipolazioni e interessi dei più, c’è qui un sincero, sacro, antico, rispettoso legame con i principi della natura, della vita stessa; sovente lo abbiamo avvertito spirare tra i versi di Gabriela Mistral, in quelli di Violeta Parra e che Victor Jara ha miniato soprattutto in Angelita Huenuman: Sus manos bailan en la hebra / como alitas de chincol / es un milagro como teje / hasta el aroma de la flor (“Le sue dita danzano tra i fili / come le piccole ali del chincol / ed è un miracolo quando sembra tessere / persino l’aroma dei fiori”). E che ritroviamo nel “We Tripantu”, il rito annuale dei Mapuche per il rinnovamento dell’equilibrio della natura…

È un lavoro che amo per diversi motivi, intanto perché credo sia un buon lavoro tanto sul piano musicale quanto su quello lirico, ma anche perché considero utile azzardare dei rischi in questo mestiere; fortunatamente abbiamo un pubblico che vive positivamente questo tipo di avventure. Giulio è un grande erede della compagnia dei cantautori italiani e la nostra permanenza in Italia è stata segnata dall’età dell’oro di quei cantautori. Con Giulio comunichiamo oltre il nostro bilinguismo, con una complicità culturale assolutamente naturale; nel mio caso, nonostante la differenza d’età, sento che condividiamo un territorio comune di idee e ideali… un territorio nel quale ci diamo del “compagno”.

Caro Jorge, ti ringrazio ancora per questo viaggio insieme nel flusso di una memoria storica, personale ed emozionale; magari questa chiacchierata avrà modo di prolungarsi, sento che ci sarà ancora tanto da dire.

Grazie a te Giuliana cara, so che i protagonisti sono la peggiore fonte perché si tende sempre ad una ricostruzione mitica della propria esperienza, spesso col risultato di una narrazione più leggendaria che storica; ma, a mia difesa, aggiungo che sono sempre stato più a mio agio nel ruolo di testimone che in quello di protagonista…

Sì, c’è tanto ancora da chiacchierare, e diciamolo, noi due siamo bravi a farlo…

 

 

 

 

L'autore

Giuliana Muci
Giuliana Muci è nata a Nardò (Lecce) ma da molti anni vive e lavora a Perugia, presso la cui Università si è laureata con una tesi sulla Santeria cubana: su questo tema e altri di contenuto latino-americano ha collaborato con la Casa Editrice Besa realizzando anche alcune pubblicazioni. Dopo la formazione in antropologia ed etnomedicina ha compiuto ricerche e maturato esperienze integrando la visione medica e psicologica basata sull’unità mente-corpo, approfondendo gli studi in campo PNEI (psico-neuro-endocrino-immunologia) grazie soprattutto ad un Master di II livello presso la Facoltà di Medicina dell’Università dell’Aquila, focalizzando in particolare i processi psico-somatici legati al vissuto emozionale in relazione al sistema di credenze culturali. Lavora nel Dipartimento di Lettere dell’Università di Perugia presso il quale in passato ha collaborato anche come Supporto alla Didattica e Cultore di Materia per le Letterature Spagnola e latino-americana, puntualizzando in special modo i processi transculturativi nella letteratura dell’America di lingua spagnola a partire da un approccio etno-antropologico.