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«È questo che nel paese del qualunquismo mi ha riempito di gioia». Pier Paolo Pasolini lettore di “Lettera a una professoressa”

Da un centenario all’altro. Quasi coetanei Pier Paolo Pasolini e don Lorenzo Milani: nati il primo nel 1922 e il secondo nel 1923. Accomunati da una fine prematura, ancorché diversissima (don Milani morì nel 1967 a causa di un linfoma di Hodgkin; Pasolini fu ucciso nel 1975 in quello che ancora oggi rimane uno dei grandi misteri d’Italia) e dall’essere «forse gli unici due moralisti che ci sono stati nella recente storia italiana», come li definisce Sandro Veronesi in un dialogo con Giordano Meacci (Improvviso il Novecento. Pasolini professore, Roma, Minimum Fax, 20152, p. 236).

Pasolini fu dell’opera di don Milani un lettore non episodico e non rapsodico. Nella sua biblioteca (oggi indagata in La biblioteca di Pier Paolo Pasolini, a cura di Graziella Chiarcossi e Franco Zabagli, Firenze, Olschki, 2017) si trovano tre testi del priore di Barbiana: Lettera a una professoressa; le Esperienze pastorali, nell’edizione del 1967; le Lettere alla mamma, pubblicate da Mondadori nel 1973. Sia sul primo sia sul terzo Pasolini intervenne rispettivamente con La cultura contadina della scuola di Barbiana, in «Momento», IV, 15-16 (gennaio 1968) e con Don Lorenzo Milani: «Lettera alla mamma (o meglio Lettere di un prete cattolico alla madre ebrea)», incluso tra gli Scritti corsari (entrambi gli interventi si leggono oggi in Pier Paolo Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, Milano, Mondadori, 1999 [di qui in poi SPS], pp. 830-837 e 426-431). Del secondo sappiamo solo che esso fu letto da Pasolini (lo dice all’inizio dell’intervento sulle Lettere alla mamma).

La lettura pasoliniana di Lettera a una professoressa è una lettura problematica. È senz’altro lontana da quell’entusiasmo acritico che ha fatto, in particolare nel Sessantotto, di don Milani una sorta di icona alla pari di un Ernesto Che Guevara. Ma è ancor più distante dalla liquidatoria visione di chi ha scorto nell’esperienza pedagogica di Barbiana «una sorta di pre-scuola (o di dopo-scuola) parrocchiale, dove un prete di buona volontà aiutava come poteva i figli dei contadini a conseguire un titolo di studio, e se non ci riusciva, incolpava i ricchi…» (Sebastiano Vassalli, Don Milani, che mascalzone) o di chi ha voluto semplicisticamente ascrivere tutti i problemi della scuola italiana all’esperienza di Barbiana, a don Milani e a un non meglio precisato donmilanismo (l’etichetta è ancora di Vassalli) da cui bisognerebbe uscire (così per esempio Paola Mastrocola, Uscire dal donmilanismo…) e ha pronte anche per l’oggi ricette di sicuro successo: «proprio per aiutare i figli dei contadini (tradotto i ragazzi oggi più deboli), si potrebbe rendere più difficile, e non più facile, la scuola. Tradotto, dovremmo fare proprio l’Iliade del Monti (che, tra l’altro, piace moltissimo ai ragazzi!), e non approntare ridicole traduzioncine» (Mastrocola), anche perché «che altro può trasmettere una scuola seria e dignitosa, se non, appunto, nozioni?» (Vassalli).

Se Pasolini non era mai un lettore qualunque, ancor meno lo fu per Lettera a una professoressa per cui fu un lettore in un certo senso “professionale”: Pasolini era stato infatti insegnante prima in Friuli poi – dopo la fuga da Casarsa in seguito ai fatti di Ramuscello – a Roma, in una scuola privata, in un quartiere allora all’estrema periferia urbana, Ciampino, dove «nel ’50 […] non c’era niente» (Meacci, p. 178). Sulla scuola un Pasolini ancora venticinquenne (siamo tra la fine del 1947 e il 1948) aveva già avanzato alcuni abbozzi di riflessione (Scolari e libri di testo; Scuola senza feticci e Poesia nella scuola: si veda SPS, pp. 50-54, 55-57, 77-80): quello dell’educatore, dunque, «dovrebbe essere un lavoro di liberazione e depurazione», per cui «la critica dovrebbe essere la prima cosa da coltivare in un ragazzo, anche se questo dovesse costare la caduta di un’infinità di idoli», tra cui l’insegnante stesso. E anche due degli ultimi interventi di Pasolini, dedicati ai fatti del Circeo, portano come centrale il tema della scuola (Due modeste proposte per eliminare la criminalità in Italia e Le mie proposte su scuola e Tv, raccolte poi nelle Lettere luterane: si veda SPS, pp. 687-692 e 693-699). La parte iniziale delle Lettere luterane, poi, è un piccolo «trattatello pedagogico» (SPS, p. 551), la cosiddetta lettera a Gennariello, un testo che con la Lettera a una professoressa ha in comune il muovere da «un’analisi simile della società attraverso l’idea di una cultura non conformista» (Meacci, p. 234).

Pasolini – innanzitutto – legge la Lettera a una professoressa (che citerò qui abbreviata LP dall’edizione di Valentina Oldano in don Lorenzo Milani, Tutte le opere, edizione diretta da Alberto Melloni, Milano, Mondadori, 2017, pp. 683-924) come opera collettiva, al contrario di quanto farà Vassalli che ritiene l’attribuzione agli «otto ragazzi» (LP, p. 685) un modo per ottenere l’imprimatur ecclesiastico. È infatti proprio ai ragazzi di Barbiana che l’educatore Pasolini si rivolge costantemente durante tutto il suo intervento. Al libro muove fondamentalmente tre critiche (più una iniziale su alcune scelte linguistiche: «ero infastidito dalla eccessiva facilità delle parole, da un certo “neo-pascolianesimo”», SPS, p. 830). Il primo, cui Pasolini accenna anche in un’intervista televisiva nella rubrica Tuttilibri è non essersi domandati «in cosa consista la cultura della professoressa a cui essi si rivolgono, cioè in che cosa consiste e dove nasce la cultura piccolo borghese» (SPS, p. 833). Si tratta, a ben vedere, di una cultura che è «provinciale» che viene proprio dallo stesso mondo da contadino cui vengono i ragazzi di Barbiana: un mondo, quello contadino, che Pasolini ben vedeva essere ormai «circoscritto» (p. 835), «particolarista e parziale» (p. 836).

Di qui nascono sia un certo approccio verso la tabuizzazione sessuale (per gli insegnanti «la scuola a tempo pieno presume una famiglia che non intralcia. […] L’altra soluzione è il celibato», LP, p. 753; l’unico possibile rapporto con l’altro sesso è dato da un «possibile matrimonio o fidanzamento con una “figliuola”, non meglio identificata, ma con la stessa parola che usavano i loro “babbi”, implicante un certo sadomasochismo»; p. 834) sia un certo «riduttivismo» (p. 834), che «in Italia dà come prodotto il qualunquismo» (p. 835). L’obiezione di Pasolini vede, insomma, i rischi di un ideologismo che «ha come un improvviso ripiegamento su qualcosa che vorrei definir[e] “concreto idealistico”, cioè essi [i ragazzi di Barbiana] voglion sempre ricondurre il lettore a dei momenti, fatti, situazioni, atti, che siano rigorosamente concreti e pratici» (p. 834). La tendenza che Pasolini adombra, dunque, è proprio quella a fare dell’educazione una sorta di prodromo alla vita pratica e della scuola un luogo privo di contenuti intellettuali e non funzionalmente strumentali. Di qui l’accusa a Lettera a una professoressa di «riduttivismo» e quella, forse più velata, di qualunquismo: Pasolini aveva dalla sua la consapevolezza che problemi sociali complessi come quelli di una società in mutazione da agricola a industriale non potessero avere soluzioni semplici o immediate (come l’abolizione della matematica alle magistrali) e che la visione che emergeva alla lettura di Lettera a una professoressa fosse viziata da un manicheismo di fondo in una dinamica in fondo pienamente iscrivibile nella lotta di una classe (i ricchi) contro un’altra (i poveri).

La critica, tuttavia, a mio avviso si salda – almeno a livello ideologico – con quella netta duplicità che Pasolini stesso già tracciava nelle Nuove questioni linguistiche (cito da Pier Paolo Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, Milano, Mondadori, 1999, vol. I, pp. 1245-1270), in cui si opponeva una “lingua della tradizione” a una “lingua della pratica”, ovvero al «livellamento di tutto l’italiano alla precisione inespressiva della comunicazione tecnica» (p. 1267). Una lingua, tra l’altro, diversissima da quella usata dai ragazzi di don Milani, il cui lavoro è «straordinario, anche per ragioni letterarie» (SPS, p. 831) e che mostra una prosa di grande valore.

In fondo, però, le posizioni di Pasolini e quelle di don Milani non sono posizioni dissimili: «è l’unico caso in Italia […] – dice Pasolini – in cui ci si trovi a un punto di calore, a un livello che nel mondo si ha, per esempio, nella nuova sinistra americana, e specificamente newyorchese, o, dall’altra parte dell’orbe terracqueo, nella rivoluzione culturale cinese: la stessa forza ideale, assoluta, totale, senza compromessi; ed è questo che nel paese del qualunquismo mi ha riempito di gioia» (SPS, p. 832). Non sono ovviamente secondarie in quest’ottica l’esperienza di Pasolini come docente in un’area marginale e la lunga frequentazione con gli ambienti ultraperiferici delle borgate; tra l’altro proprio in quelle borgate in cui in quegli stessi anni si andavano tentando anche altre esperienze pedagogiche di rilievo, che accompagnano quella di don Milani alle pendici del monte Giovi: si pensi, solo per fare un esempio, a quella del maestro sardo Albino Bernardini a Pietralata nell’anno scolastico 1961-1962, narrata poi in Un anno a Pietralata (uscito nel 1968). Come già negli scritti pasoliniani degli anni Quaranta, si misura qui l’inefficacia della scuola tradizionale: non si può dimenticare – come fanno invece spesso i critici di don Milani – che negli anni Sessanta ancora circa un terzo della popolazione era priva di titolo di studio e che erano ancora ben lontane da raggiungere sia la piena scolarizzazione elementare (che sarà compiuta solo negli anni Ottanta) sia quella nella scuola media inferiore (che ancora oggi non può dirsi pienamente raggiunta) e che la sperequazione tra le classi sociali era davvero all’epoca ben percepibile, come lo è d’altronde ancora oggi, anche se i contadini mugellani degli anni Sessanta sono diventati i figli dei poveri, degli emarginati, degli stranieri. Sono loro, oggi, i primi per i quali don Milani iniziò a fare scuola. Ben lungi, infatti, dall’idea di una scuola che abolisca l’italiano e la grammatica, «io ho iniziato il mio apostolato della scuola, con l’insegnare la grammatica italiana» (don Lorenzo Milani, Altri testi, a cura di Federico Ruozzi, in don Lorenzo Milani, Tutte le opere, edizione diretta da Alberto Melloni, Milano, Mondadori, 2017, pp. 1147-1346, a p. 1160), come dirà il 3 gennaio 1962 in un incontro con i direttori didattici organizzato dal Comune di Firenze. È proprio in questo incontro che emerge esattamente il contrario di quanto per esempio Mastrocola sembra credere. Le ragioni dell’educazione linguistica sono che «quantunque i miei parrocchiani siano toscani, quantunque usino espressioni dantesche ogni poco, non son capaci di un discorso lungo, di un discorso complesso, di una lingua che non sia quella che serve per vendere i polli al mercato di Vicchio il giovedì, o nei pettegolezzi delle famiglie» (p. 1160). Proprio questa è, invece, l’intuizione più grande di don Milani: «è solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui» (LP, p. 761).

Proprio la carica sociale era, invece, quella che più Pasolini aveva colto in Lettera a una professoressa, come aveva colto la necessità di uno scarto, di un passaggio ulteriore che proiettasse la Lettera da una piccola realtà contadina al grande mondo dei diseredati e degli esclusi, cui andava fornito uno strumento ulteriore: la consapevolezza. Quella consapevolezza in base a cui sapere, per esempio, i motivi per cui i montanari scendono al piano «ma anche cosa succederà del piano quando sarà compiuta l’industrializzazione totale delle campagne», o i nomi dei sormenti e dell’albero che fa le ciliege «ma rendendovi conto che questa è una realtà ormai fossilizzata» (SPS, p. 837).

giulio.vaccaro@unipg.it

 

L'autore

Giulio Vaccaro
Giulio Vaccaro, romano e romanista, è un ciclista amante delle salite lunghe. Insegna Storia della lingua italiana all’Università di Perugia, dopo aver lavorato all’Opera del Vocabolario Italiano e all’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea.
Dal 2009 al 2016 ha diretto il progetto DiVo – Dizionario dei Volgarizzamenti (di cui ha coordinato l’attività dell’unità della Scuola Normale Superiore di Pisa, all’interno di un progetto FIRB – Futuro in Ricerca 2010); dal 2014 al 2016 ha diretto il progetto bilaterale Manoscritti italiani in Polonia: ricerca, catalogazione, studio / Włoskie rękopisy w Polsce: poszukiwanie, inwentarz i badanie e ha coordinato il Laboratorio Volgarizzamenti: storia, testi, lessico presso il Centro di Elaborazione Informatica di Testi e Immagini nella Tradizione Letteraria della Scuola Normale Superiore. Nel 2018 è stato research fellow presso il Deutsches historisches Institut in Rom. Ha collaborato alla GSR-Grammatica Storica del Romanesco, finanziata dal Fondo Nazionale Svizzero e coordina un’unità del progetto CorTIM. Corpus Testuale dell’Italia Mediana. Si occupa di volgarizzamenti di classici latini e mediolatini negli antichi volgari italiani (Albertano da Brescia, Seneca, Vegezio), di studio materiale dei manoscritti ai fini della storia della tradizione dei testi, di testi genealogici tra Due e Cinquecento, di contatti tra Italia e Spagna nel Medioevo e di autori dialettali romaneschi (Sindici, Tacconi, Zanazzo).