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Difendiamo l’italiano dai suoi difensori

Nella Stanza di Feltri del 3 ottobre, Vittorio Feltri – titolare della rubrica – risponde alla lettera di un lettore, Saverio Basile, che lamenta il dilagare delle parole inglesi in italiano. Si tratta di una delle molte, moltissime lamentele che si levano con sempre maggiore frequenza nei confronti dell’uso (e più spesso dell’abuso) delle parole inglesi. Mentre il lettore pone la questione esclusivamente sul piano della comprensibilità dei testi («in questi ultimi giorni mi tocca chiedere aiuto per la traduzione […] di parole inglesi che a me che ho 85 anni fanno tanta rabbia»), Feltri ne trae un pezzo marcatamente politico intitolato Difendiamo l’italiano dagli anglicismi, in cui oppone la proposta presentata dal «partito Fratelli d’Italia, primo della maggioranza, [che] condivide la necessità di proteggere l’italiano» attraverso una legge (ossia la proposta di legge 734 del 2022 intitolata «Disposizioni per la tutela e la promozione della lingua italiana e istituzione del Comitato per la tutela, la promozione e la valorizzazione della lingua italiana», presentata da Fabio Rampelli e altri) alla consueta opposizione della sinistra che «ha ridicolizzato tale iniziativa».

A Feltri si potrebbe obiettare innanzitutto sul piano della pragmatica politica che, essendo la destra in netta maggioranza nell’attuale parlamento, la ridicolizzazione della legge da parte di uno dei partiti di opposizione non dovrebbe avere effetti tanto dirompenti sulla sua approvazione.

Si potrebbe obiettare anche su un piano meramente linguistico che i dati che Feltri riporta (e che sono presi tal quali dalla proposta di Rampelli) sono semplicemente insensati. Dire che «dal 2000 ad oggi il numero di parole inglesi confluite nella lingua italiana scritta è aumentato del 773 per cento: quasi 9.000 sono gli anglicismi attualmente presenti nel dizionario della Treccani su circa 800.000 parole in lingua italiana» (come si legge nella proposta di Rampelli, ripresa da Feltri), tra l’altro, negherebbe quasi l’assunto stesso della diffusione soverchiante dell’inglese: se le parole inglesi fossero davvero 9000 su 800.000, esse costituirebbero poco più dell’1% del patrimonio lessicale dell’italiano (tra l’altro le parole della Treccani sono 80.000 non 800.000). Per di più «un aumento del 773%» (se pure fosse vero) non vuol dire nulla: l’affermarsi nell’editoria commerciale dei vocabolari cosiddetti millesimati (ovvero con edizioni annuali) ha portato alla massiccia registrazione di termini inglesi, perlopiù di ambito tecnico, senza che ciò implichi di necessità che la parola sia entrata dopo il 2000. I riff di chitarra, insomma, esistono da ben prima che la parola entri nel Devoto-Oli (che, come qualunque vocabolario, segue la lingua, non la precede).

Altre sono le obiezioni che si potrebbero invece portare al discorso tutto politico di Feltri.

La prima è una valutazione più serena del peso effettivo delle parole inglesi nella lingua italiana: i dati del Grande Dizionario Italiano dell’uso realizzato da Tullio De Mauro, il più grande dizionario italiano (contiene 251.000 lemmi), contiene 5850 lemmi inglesi cui si aggiungono circa altri 2500 prestiti adattati (il tipo bistecca) o calchi (il tipo grattacielo), dunque circa 8100 parole. Per dare un ordine di grandezza, i francesismi sono pochi meno, 5346, mentre sono molto più limitati i contributi da altre lingue come lo spagnolo (1126 parole), il tedesco (695) e l’arabo (670). La questione più rilevante, tuttavia, è dove si collochino queste parole nella dimensione testuale. Nel contare i lemmi, evidentemente, una parola come casa conta uno, tanto quanto ribonucleico, ma è evidente a tutti che mentre di casa parliamo tutti i giorni di ribonucleico parliamo assai meno (tranne nel caso in cui di mestiere facciamo i genetisti). Se guardiamo al vocabolario di base, ovvero a quel nucleo di circa 7000 parole che qualunque italofono intende e che costituiscono il 98% di tutto ciò che quotidianamente diciamo e scriviamo, le parole inglesi sono appena 31: un numero assai inferiore quello dei francesismi (256) e pari a quello degli iberismi. Il campo di diffusione dell’inglese è, prevalentemente, quello del lessico tecnico (per esempio computer o hard disk) o di occasionalismi (per esempio sold out per ‘esaurito’) che, per quanto possano risultare fastidiosi, solo raramente arrivano ad acclimarsi nell’italiano, e mai in posizioni centrali del lessico.

Una seconda valutazione è che le parole inglesi sono spesso più percepite che reali. Non è un caso che il lettore che scrive a Feltri nel suo piccolo elenco di parole inglesi («Drag queen, Gender, fake, blitz, spread, nadef, baguette, boom, blog, guinness») infili anche un francesismo (baguette, che tra l’altro in francese è un italianismo che proviene da bacchetta) e persino un acronimo perfettamente italiano (NADEF, ossia Nota di Aggiornamento al Documento di Economia e Finanza). Tra l’altro, le parole citate sono tra loro molto diverse, perché vanno da casi come blitz, che ha sviluppato anche significati estensivi (ho fatto un blitz in cucina e ho ripulito il frigorifero), a parole fonosimboliche (come boom) a parole del lessico tecnico (come blog o spread), a parole che hanno effettivamente dei concorrenti e per cui la scelta dell’inglese sembra dovuta a fenomeni di eufemismo (drag queen per travestito) o di “scientificità” (per esempio fake al posto di falso; in parte ciò è vero anche per gender: si parla per esempio di gender studies ‘studi di genere’ ma si mantiene l’italiano in disforia di genere). Per tutte queste parole, come sempre, a decidere sarà «il signor Uso». Se pensiamo al lessico dell’informatica, per esempio, il concorrente di hard disk, ossia disco rigido, era usato nei primi computer distribuiti dalla Apple negli anni Ottanta, ma non ha trovato poi spazio (mentre dischetto era rimasto maggioritario rispetto a floppy disk), così come lo stesso calcolatore per ‘computer’; al contrario pennetta si è imposto su pen drive.

Terza valutazione è che l’inglese è, effettivamente, ormai presente nel panorama linguistico mondiale, come lo sono stati per secoli il latino (più della metà del lessico inglese, per esempio, è costituita da latinismi, e molti che arrivano in Italia sono “latinismi di ritorno”, per esempio album per indicare una raccolta di canzoni) o il francese. Lo stesso Feltri, d’altronde, nel suo titolo «Difendiamo l’italiano dagli anglicismi» ricorre a un prestito inglese – anglicismi – e non al suo equivalente italiano anglismi. E lo stesso lettore che lamenta l’abuso di termini inglesi lo lamenta «perfino nello sport», non nel diporto (come pure proponeva di chiamarlo l’Accademia d’Italia quando il Fascismo cominciò la sua battaglia ai forestierismi). Proprio i tentativi di politica linguistica realizzati durante il Ventennio dovrebbero consigliare una maggiore prudenza in qualunque intervento dirigistico in fatto di lingua: i casi francese e spagnolo, pure spesso additati, insistono infatti su realtà linguistiche ben più stabili di quella italiana, in cui di fatto una lingua comune si è imposta da circa mezzo secolo, e investono, comunque, la sola sfera pubblica, certamente non gli usi linguistici individuali o collettivi.

«Il problema – sostiene Feltri – non consiste soltanto nell’esubero di forestierismi ma anche nell’utilizzo scorretto che gli italiani stessi fanno della loro lingua madre». Per esempio, si potrebbe obiettare, lo stesso Feltri non manca di riportare un passo in cui sostiene che la lingua italiana sia un «patrimonio, che abbiamo ricevuto in eredità dal nostro passato», quasi fosse possibile ricevere qualcosa in eredità dal futuro.

«I giovani – conclude Feltri – non sono in grado di parlare né di scrivere» (si esprimono, probabilmente, a gesti). Questo dato, una volta depurato delle ideologie della laudatio temporis acti, merita di essere contestualizzato: l’italiano non è mai stato tanto parlato quanto oggi e – dato forse ancor più importante – non è mai stato tanto scritto quanto oggi. L’idea che “un tempo” l’italiano si parlasse meglio deriva in buona parte dalla deformata lente di un’italofonia un tempo più ristretta, per cui la piccola parte di parlanti italiano parlava sì meglio, ma al prezzo di una consistente massa di cittadini che non era in grado di parlarlo e di comprenderlo. Il prezzo da pagare per un’italofonia totale (ammesso e non concesso che sia un prezzo) è che l’italiano non sia più una lingua morta e mummificata ma una lingua che cammina autonomamente seguendo la libertà dei parlanti. Certo, non è una situazione rosea: quasi i due terzi della popolazione italiana non sono in grado di comprendere un testo elementare. È un segno, però, che la partita da giocare nel campo dell’educazione linguistica riguarda non un asfittico purismo linguistico che si dispieghi sul piano delle sostituzioni lessicali ma la dimensione della testualità, ovvero la capacità media di comprendere ciò che si legge e ciò che viene detto. È questa la sfida ancora non vinta su quella via che De Mauro additava fin dalle Dieci tesi del GISCEL del 1975, ma non è una sfida generazionale quanto una sfida sociale, in cui non si oppongono classi di età ma classi sociali. Sono passati 55 anni ma Pierino, il figlio del dottore, continua a parlare e a capire l’italiano meglio di Gianni, il figlio del contadino.

Possiamo, però, trovare qualcosa di positivo nell’intervento di Feltri: è quello che Luca Serianni chiamava «il sentimento della lingua», ovvero il legame che gli italiani mostrano nei confronti della loro lingua, che si tramuta in inquietudine per le sue sorti o in fastidio per i suoi cattivi usi. Segno che l’italiano si difende bene da sé, semplicemente – come qualunque organismo vivente – muta.

giulio.vaccaro@unipg.it

L'autore

Giulio Vaccaro
Giulio Vaccaro, romano e romanista, è un ciclista amante delle salite lunghe. Insegna Storia della lingua italiana all’Università di Perugia, dopo aver lavorato all’Opera del Vocabolario Italiano e all’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea.
Dal 2009 al 2016 ha diretto il progetto DiVo – Dizionario dei Volgarizzamenti (di cui ha coordinato l’attività dell’unità della Scuola Normale Superiore di Pisa, all’interno di un progetto FIRB – Futuro in Ricerca 2010); dal 2014 al 2016 ha diretto il progetto bilaterale Manoscritti italiani in Polonia: ricerca, catalogazione, studio / Włoskie rękopisy w Polsce: poszukiwanie, inwentarz i badanie e ha coordinato il Laboratorio Volgarizzamenti: storia, testi, lessico presso il Centro di Elaborazione Informatica di Testi e Immagini nella Tradizione Letteraria della Scuola Normale Superiore. Nel 2018 è stato research fellow presso il Deutsches historisches Institut in Rom. Ha collaborato alla GSR-Grammatica Storica del Romanesco, finanziata dal Fondo Nazionale Svizzero e coordina un’unità del progetto CorTIM. Corpus Testuale dell’Italia Mediana. Si occupa di volgarizzamenti di classici latini e mediolatini negli antichi volgari italiani (Albertano da Brescia, Seneca, Vegezio), di studio materiale dei manoscritti ai fini della storia della tradizione dei testi, di testi genealogici tra Due e Cinquecento, di contatti tra Italia e Spagna nel Medioevo e di autori dialettali romaneschi (Sindici, Tacconi, Zanazzo).