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Ciao, Luca

Un anno fa, il 21 luglio 2022, tre giorni dopo essere stato investito in una strada di Ostia, ci lasciava Luca Serianni. Delle emozioni confuse di quel momento, di quel dolore collettivo e condiviso ricordo un solo messaggio dei tanti che in quei giorni ci scambiavamo: «non si registra attività cerebrale». Di là dalla tragicità che quel messaggio portava – l’impossibilità, insomma, di quel miracolo in cui tutti speravamo – a colpirmi di quelle parole fu l’antinomia assoluta tra l’idea dell’assenza di attività cerebrale e il cervello dell’uomo in cui tale attività era assente.

Tanti sono i ricordi che sono stati fatti di Luca Serianni sia subito dopo la morte sia durante quest’anno: raccolte di suoi scritti, raccolte di scritti per lui o di ricordi di allievi, di persone che lo hanno conosciuto e che gli hanno voluto bene.

Dell’attività scientifica di Serianni è inutile parlare: non è stato solo uno storico della lingua italiana i cui studi hanno indagato l’intero arco cronologico della nostra lingua, ma è stato soprattutto colui che ha traghettato la storia della lingua italiana dall’essere una materia secondaria e in qualche modo ancillare all’interno dei curriculum accademici a essere uno dei pilastri della formazione degli insegnanti e dei percorsi universitari di generazioni di studenti.

Delle qualità umane di Luca è del pari inutile parlare: esse rimangono nella sfera di chi lo ha conosciuto, di chi ha avuto la fortuna di poter fare un tratto di strada – più o meno lungo – con lui. Di certo tutti, dagli amici più intimi agli studenti che più frettolosamente preparavano l’esame, portano il ricordo di una persona sempre attenta agli altri, sempre pronta a aiutare e ascoltare; una persona sempre pronta a “spiegare”: che fosse una richiesta grammaticale anche strampalata giunta via posta elettronica, che fosse una lectio magistralis, che fosse la ragione di un voto all’esame quello che Luca faceva era, sempre e comunque, spiegare le sue ragioni e il suo punto di vista, con fermezza e chiarezza, ma senza far pesare il proprio ruolo e il proprio prestigio.

Il lascito più grande di Luca – soprattutto per chi è stato suo allievo – non consiste solo in un metodo di studio e di lavoro o in una visione della storia della lingua e dell’italiano, quanto piuttosto nell’intendere il mestiere di insegnare, che nella sua declinazione, unica e inimitabile, voleva dire anche il mestiere di essere maestri.

E così i supplementi di lezioni di grammatica storica alle 8 del mattino, i dubbi volanti chiariti nella fila alle macchinette del caffè del secondo (ora terzo: la ribattezzammo “risemantizzazione dei piani”) piano della Sapienza, le camminate a passo rapido fatte dalla metro alla Città Universitaria (o viceversa) parlando di questioni di fonetica storica o di lessico, le letture attente e meticolose di ogni pagina della tesi (con spesso la nota: «scusi la grafia, la ho letta in treno») fino alla bibliografia finale, l’attenzione per ogni articolo, ogni saggio, ogni intervento a convegno che gli si sottoponesse non erano che piccoli frammenti di questo mestiere di essere maestri. Un mestiere che si traduceva anche nel correre da una parte all’altra d’Italia per tenere lezioni in scuole di paesi anche piccolissimi, in biblioteche comunali, in accademie locali, un paio di volte persino in un centro commerciale. Non era presenzialismo: era l’idea che lo studio e il sapere non servissero solo per sé stessi ma soprattutto fossero un servizio alla comunità e per la comunità. In Luca Serianni ho visto realmente quale fosse il senso più alto di una celebre frase di don Lorenzo Milani, «è solo la lingua che fa eguali»: non so se questo paragone gli piacerebbe – non abbiamo mai parlato di don Milani –, ma sono certo che lo accoglierebbe con il suo sorriso e il suo allargare le braccia.

Ma non è neanche questo, secondo me, il principale lascito di Luca. Quello che più rimane come suo insegnamento è la centralità dello studente. Quello studente che, affidato dallo Stato, era da servire «con disciplina e onore» secondo il dettato dell’articolo 54 della Costituzione: dove disciplina e onore non sono una semplice dittologia retorica, ma due aspetti che marcano l’assoluta e indefettibile fedeltà all’idea che la Scuola (di qualunque ordine e grado sia, dall’asilo all’università) nasca intorno a chi nella scuola si forma.

A essere cuore dell’insegnamento di Serianni, infatti, è stato proprio lo Studente. Lo Studente non era per lui un essere burocratico, asettico o astratto. Lo studente era il cuore del sistema scuola, e come tale andava formato e anche valutato, ma senza che la valutazione si trasformasse in una mera caccia all’errore. Quelle matite verdi deposte un anno fa sulla sua bara, quelle matite che Serianni usava per segnalare le osservazioni particolarmente buone fatte da ciascuno studente sono forse il segno iconico più forte del suo magistero: valutare è anche premiare, perché premiare vuol dire incoraggiare e spingere a fare meglio.

Degli studenti, di tutti gli studenti sembrava ricordarsi: a tratti credo che si ricordasse di ognuno di quegli oltre tremila che avevano sostenuto l’esame con lui, e di ciascuno ricordasse il luogo di provenienza, le scuole fatte, il voto e le domande. Fino a uno dei nostri ultimi incontri ancora ricordava che il motivo per cui mi aveva dato 30 al primo esame di storia della lingua italiana fosse che avevo definito kitsch una poesia di Giacomo Zanella da lui commentata durante il corso. È stata questa un’altra delle caratteristiche di Luca: quella non solo di non coartare gli interessi di ciascuno studente, ma spesso di riconoscere le inclinazioni, le specificità e i caratteri di ciascuno, indirizzandolo poi sulla strada più adatta.

D’altronde – e questa di Serianni è senz’altro la lezione più alta e più importante – chi insegna non può permettersi il pessimismo, perché ogni studente è prezioso e perché in ogni studente bisogna riporre la massima fiducia possibile. Il tempo dirà che non è stata fiducia sprecata.

giulio.vaccaro@unipg.it

 

 

L'autore

Giulio Vaccaro
Giulio Vaccaro, romano e romanista, è un ciclista amante delle salite lunghe. Insegna Storia della lingua italiana all’Università di Perugia, dopo aver lavorato all’Opera del Vocabolario Italiano e all’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea.
Dal 2009 al 2016 ha diretto il progetto DiVo – Dizionario dei Volgarizzamenti (di cui ha coordinato l’attività dell’unità della Scuola Normale Superiore di Pisa, all’interno di un progetto FIRB – Futuro in Ricerca 2010); dal 2014 al 2016 ha diretto il progetto bilaterale Manoscritti italiani in Polonia: ricerca, catalogazione, studio / Włoskie rękopisy w Polsce: poszukiwanie, inwentarz i badanie e ha coordinato il Laboratorio Volgarizzamenti: storia, testi, lessico presso il Centro di Elaborazione Informatica di Testi e Immagini nella Tradizione Letteraria della Scuola Normale Superiore. Nel 2018 è stato research fellow presso il Deutsches historisches Institut in Rom. Ha collaborato alla GSR-Grammatica Storica del Romanesco, finanziata dal Fondo Nazionale Svizzero e coordina un’unità del progetto CorTIM. Corpus Testuale dell’Italia Mediana. Si occupa di volgarizzamenti di classici latini e mediolatini negli antichi volgari italiani (Albertano da Brescia, Seneca, Vegezio), di studio materiale dei manoscritti ai fini della storia della tradizione dei testi, di testi genealogici tra Due e Cinquecento, di contatti tra Italia e Spagna nel Medioevo e di autori dialettali romaneschi (Sindici, Tacconi, Zanazzo).