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Sul cibo e sul cibarsi. Dialogo con Romeo Pulsoni

L’immagine di copertina è di Enrico Pulsoni

Romeo Pulsoni (campomonticchio@gmail.com) è medico, contadino, coofondatore nel 1988 con Giovanni Bollea di “ALVI” (Alberi per i vivi), e già docente a contratto dell’Università dell’Aquila. Nel 2009 è stato responsabile sanitario dei territori identificati come COM 1 (L’Aquila Città) e COM 4 (area tra Pianola e Celano) per l’emergenza sisma. Questa funzione, svolta per l’intero periodo emergenziale, comprendeva la gestione della Sanità pubblica, dell’Igiene pubblico e ambientale, dell’organizzazione dell’assistenza, della vigilanza e controllo delle attività commerciali e produttive. Per tale impegno è stato insignito della Medaglia d’argento per la Sanità pubblica dal Presidente della Repubblica.

Il movimento degli uomini, degli animali è in funzione di procacciarsi il nutrimento. È cambiato qualcosa oggi, più esattamente cosa si è inceppato nel meccanismo?

A mio avviso, il concetto di lavoro è tra le origini dell’inceppo. La vita è ovviamente anche quella dei vegetali. Tempo fa scrissi una nota dal titolo: Dimostrazione scientifica che le pietre camminano. La vita necessita di tre elementi e basta: la luce, l’aria e il cibo, i primi due sono gratuiti e in quantità sufficiente, il terzo è disponibile in natura ma bisogna procurarselo. Tra le piante e gli individui del regno animale esiste uno scambio equo: le piante producono ossigeno, gli animali anidride carbonica, che è il nutrimento principale delle piante.

L’idea che ci si possa nutrire senza movimento, appunto il lavoro, crea problemi riguardo alla percezione stessa del lavoro. Di fatto questo movimento è il requisito fondamentale per la crescita e l’evoluzione individuale, e la spinta di ogni singola specie.

Considero l’avversità al lavoro e al movimento alla stregua di una “nevrosi vitale”.

L’altro inceppo sta nell’avere scambiato il bisogno con il desiderio: il bisogno è vitale e costitutivo, mentre il desiderio, a parte quello artistico, è fittizio, falso innaturale e quindi malato.

La vita è sostanzialmente vitalità e non prevede disoccupazione. Gli animali, presenti negli zoo o allevati in cattività, sono di fatto in galera.

Non c’è mai stata tanta abbondanza di cibo, come oggi, Allora come dobbiamo interpretare tutte queste patologie legate all’alimentazione?

Nei rapporti umani, in buona grazia, è sempre esistito ed esiste lo scambio e il mutuo soccorso. Da bambino mi mandavano allo spaccio per comprare la mortadella, che pagavo con le nostre uova fresche.

Parliamo di abbondanza di cibo, ma ci riferiamo a una popolazione limitata, e da essa deriva l’errato principio secondo il quale ciò che è utile è anche positivo. Per citare Salvator Satta: il senso dell’utile e dell’inutile è estraneo a Dio e ai bambini.

Sistemi di produzione che utilizzano tecnologie meccaniche avanzate, come l’uso di concimi e fitofarmaci, ma soprattutto la circolazione mondiale del cibo con l’importazione di prodotti da paesi non occidentali per usi secondari, che a volte diventano primari. In questa parte del mondo vanno forte dietisti, nutrizionisti e così via: si occupano di una popolazione ristretta e minoritaria. Personalmente sostengo che la migliore dieta alimentare, considerando la totalità degli umani viventi, è che tutti abbiano qualcosa da mangiare!

Racconto un episodio realmente accaduto. Io vivo in campagna e la mia casa affaccia sull’orto. Mia figlia, che aveva fatto tardi la sera, svegliandosi a mezzodì, si affaccia alla finestra e dice di aver fame. Era ora di pranzo e le chiedo cosa vuole mangiare. Detto fatto: scendiamo e prendiamo cose dall’orto e basta. Una volta lavato gli ortaggi, iniziamo e mangiamo. Ne segue una riflessione: coltura e cultura sono la stessa cosa. Il percorso verso l’orto e le stoviglie sono cultura.

Un ettaro di terra coltivata, forse anche un po’ meno, bastava a nutrire una famiglia mediamente numerosa. Dove e come si sono ingarbugliate le cose?

Qui siamo alla mia diretta esperienza familiare: si viveva con un ettaro di terreno del Fucino. Certamente secondo gli attuali parametri, eravamo molto “poveri”; ma questo significava anche che la piccola casa non era piena di cose assolutamente inutili.

Fino alla metà degli anni ’60, non si acquistava praticamente nulla. Racconto un altro episodio personale: nel 1961 avevo dieci anni e uno zio, trasferitosi a Roma, mi portò con sé per farmi conoscere la capitale: camminando a piedi, notai lungo le strade, soprattutto agli angoli, grossi bidoni scuri, e domandai allo zio cosa fossero: “sono i bidoni per la monnezza”, ed io “zio che cosa è la monnezza?”.

Tutto nelle case dei paesi era circolare, non si produceva nessuna “monezza”: i resti organici erano per galline, conigli, maiali o cani; qualche carta paglia era regolarmente riciclata e infine, quando consunta, bruciata al camino; altro finiva nel letame. Occorre fare un quadro di cosa accadeva fino a quegli anni: se qualcuno volesse visitare le campagne montane abruzzesi, potrà notare mucchi di sassi spietrati per liberare cento metri quadri di terreno per seminare lenticchie, ceci o grano, e anche per creare un po’ di pascolo; i sassi erano riusati per costruire capanne a secco per le persone, o anche per le pecore che avevano appena partorito. Immagini di spietramenti possiamo ammirarle in rete.

Per farla breve propongo di considerare due cose: la prima che allora esisteva l’attuale modaiolo chilometro zero, e che, come effetto secondario, si aveva la costruzione e il mantenimento artistico del territorio. Il paesaggio dei paesi era sorprendentemente bello, grazie alla presenza attiva delle persone. Non era da meno la manutenzione delle siepi che venivano potate in estate, perché i ramoscelli erano usati come cibo per i conigli. In quel panorama storico va ricordato il diffuso, essenziale apporto dei coltivatori mezzadri o terzisti.

Un accenno merita l’editto delle chiudende della Sardegna, dove non esisteva proprietà privata (probabilmente perché il territorio era usato quasi totalmente per la pastorizia): l’editto assegnava la proprietà di un terreno a chi lo avesse delimitato, chiuso. La cosa generò tra l’altro la costruzione dei famosi muretti a secco, che fino agli anni ottanta è stato simbolo di lotte ideologiche…”tancas serradas a muros….”. A proposito di valore artistico, le tancas sono ora sono assurte a patrimonio dell’umanità.

Merita un accenno la storia dell’immediato dopoguerra, ovvero l’esproprio dei latifondi, che l’allora Ministro dell’agricoltura, Gullo del Partito Comunista, intendeva nazionalizzare. Furono le lotte di Bonomi con la fondazione dei Coltivatori Diretti a creare le condizioni per l’assegnazione delle terre ai piccoli contadini, e questo generò l’optimum della nostra magnifica agricoltura locale.

Il mercato globale però ha creato l’imprenditore agricolo: a esempio nel Fucino, dove la famiglia riusciva a vivere con un ettaro di terreno, ora l’imprenditore può sopravvivere solo se possiede almeno 200 ettari. Tra gli effetti collaterali di ciò, la disoccupazione e, più recentemente, il bracciantato con operatori per lo più nordafricani. Il costo del cibo di largo consumo è generato, oltre che dal costo di produzione (minimo), soprattutto dalla distribuzione e dalla pubblicità.

Trovo interessante la recente polemica innescata dall’attuale Ministro dell’Agricoltura, secondo cui i poveri mangiano meglio. Dovrei allungare molto il discorso per spiegare che ha assolutamente ragione.

Andrea Zanzotto, tra i pochissimi in tempi non sospetti ad occuparsi dell’abbandono della campagna, affermava che dopo “i campi di sterminio assistiamo allo sterminio dei campi”.  Quali suggerimenti o proposte concrete possono ovviare a tale diffuso disastro?

Oltre a slogan di varia matrice e provenienza, occorre incentivare molto la coltivazione diretta a chilometro zero, la creazione di orti per pensionati in buona salute, di campi per giovani che hanno bisogno di attività fisica connessa al cervello, nonché di spazi per bambini da educare assistiti da maestri e maestri d’arte volontari. E perché no, ricreare le colonie agricole penali. Probabilmente il vero recupero passa attraverso la riconciliazione con la terra e il sudore della fronte.

Insegnare che la cura del territorio è un valore artistico importante. Questo valore rappresenta nel quotidiano il simbolo e il rito che sono la manifestazione visibile dei valori di una civiltà, che essi stessi promuovono.

Nello stesso modo in cui paghiamo il petrolio ai paesi produttori, così dovremmo pagare ai paesi amazzonici l’ossigeno, prodotto dalle loro foreste, evitando così il processo di deforestazione.

Ne La figlia di Jorio, quando la madre passa il pane a Vienda, promessa sposa di suo figlio Aligi, distrattamente lo fa cadere. Ora sembrerebbe un banale incidente dovuto alla distrazione, ma per secoli questa diretta, mancata consegna era simbolo di sventura. Perché il pane ha perso la sua sacralità?

“ … Dacci oggi il nostro pane quotidiano…”: il pane è sacro perché donato direttamente da Dio, quindi sprecarlo è (era) peccaminoso. Il peccato (pes captus) è un inciampo che provoca la caduta, e anche la rottura di qualche osso negli esseri viventi. Vienda, maldestramente o involontariamente, interrompe il sacro passaggio del pane da suocera a nuora.

Fin qui abbiamo parlato di cibo, essenziale per la sopravvivenza, necessario e fondamentale requisito per la crescita e per l’evoluzione. La natura, in questo senso, ci offre una variegata gamma di stimoli e di incentivi per la riproduzione e il miglioramento della specie: alcuni odori e colori per i fiori, e certe voglie per gli animali costituiscono, nel loro insieme, l’universo erotico.

Oggigiorno il pane è un banale e secondario oggetto di consumo e non più un elemento basilare e sacrale dell’alimentazione. Ciò rientra nella strategia, squisitamente consumistica, di confondere e sovrapporre il bisogno con il desiderio. Il pane, o qualunque alimento, perdendo la sua specificità di bisogno primario, assume un’altra connotazione, caratterizzata da un forte desiderio erotico che, se non controllato, può diventare facilmente tossico e generare tutti quei misfatti legati alla bestialità del branco che leggiamo quotidianamente nella cronaca.

 

L'autore

Enrico Pulsoni
Enrico Pulsoni
Enrico Pulsoni è il direttore di Insula europea (http://www.insulaeuropea.eu/enrico-pulsoni/)