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Volontà d’archivio: l’autore, le carte, l’opera

  1. La pelliccia del Petrarca

Nella mitologia petrarchesca, cui le “vite” delle edizioni rinascimentali del Canzoniere erigono un monumento anche più celebre e duraturo delle stesse rime, ha un posto di tutto rilievo una pelliccia di vaio da cui il poeta non si staccava mai, e con cui viene rappresentata la sua morigeratezza di costumi, e in certo modo anche quel momento dell’ispirazione che lascia traccia non solo nell’opera poetica.

Racconta il Beccadelli, nella prima versione della Vita del 1563-1564, variamente ripresa a fine Cinquecento dal Buonamici, dal Castelvetro e poi per tutto il Settecento, che egli

viveva, e stava semplicemente, e massime nelle solitudini, e diceva per tappeti fini bastargli la paglia monda, cioè le stuoje; e dal Testamento che fece, chiaramente si comprende, com’esso dice, che molti danari, e roba non avanzava. […] Non voglio qui tacere una cosa che Monsignor Reverendissimo

Pietro Bembo mi disse una volta in Padova, aver inteso dal Clarissimo M. Bernardo suo padre; il qual riferiva ch’essendo giovanetto andò con alcuni altri a spasso in Arquato, ove trovò un contadino di quel paese vecchissimo, col quale parlando del Petrarca, che in quella villa era morto, e sepolto, il vecchio disse che nella sua puerizia lo aveva più volte veduto; e che di verno portava una pelliccia di buone fodere dentro, ma di fuora scoperta, com’anco oggidì usano molti oltramontani; il che forse faceva o per l’usanza, o perchè fosse men greve. E diceva il contadino che in molti luoghi di quel cuoio era scritto variamente. Cosa che facilissimamente credo, per aver veduto scritture di mano del Petrarca fatte eziandio in pezzi di carta straccia; movendosi a scrivere repentinamente, secondo che l’animo lo sospingeva; e servendosi di qualunque materia se gli parasse davanti, uso quasi comune a tutti i poeti. Questo ho voluto qui dire più per segno della modestia sua, che per altro; essendo chiarissimo che d’avarizia non può esser notato, perchè da tal vizio fu lontanissimo.[1]

I versi scritti sul cuoio della pelliccia, su frammenti di carta, su qualunque supporto il poeta avesse a disposizione, traducono in immagine ciò che da sempre si è cercato di indagare: l’origine dell’ispirazione poetica, il germe del pensiero creativo, ciò che giace dietro l’opus perfectum, sia esso manoscritto o a stampa. E non è un caso che il mitologema della pelliccia di Petrarca sia legato al nome di Bembo, che di Petrarca ha assicurato la forza modellizzante e normativa, ma ha anche tramandato un’immagine caleidoscopica, non affidata al solo Canzoniere, ma anche alle sue carte preparatorie, quel monumento che assegna alla letteratura italiana il primato di avere il più antico caso di “scartafaccio d’autore”, il Codice degli abbozzi. È infatti Bembo, nel 1528, dopo una serie di complicate e rocambolesche vicende, a venire in possesso delle carte preparatorie, custodite «in una tasca […] bella e vaga» confezionata ad hoc e inviata a Bembo dall’amico Vittore Soranzo per custodirvi gli autografi petrarcheschi.[2]

Anche nella prima edizione del Codice degli abbozzi, procurata da Federico Ubaldini nel 1642, la prima edizione di filologia d’autore della storia, che pone quel “feticcio” allo stesso livello di un’opera compiuta e getta le basi di un’idea del testo che sarebbe ricomparsa tre secoli dopo, con la critica delle varianti di Gianfranco Contini, il protagonista di quest’opera di canonizzazione è sempre Bembo, che «fa testimonianza che gli venne veduto alcune carte scritte di mano medesima del poeta; nelle quali erano alquante delle sue rime, e mostrava che egli, secondo che esso le veniva componendo, havesse notate; quale intera, quale tronca, quale in molte parti cassa, e mutata più volte». E conferma, parimenti, la leggenda del “pelliccione”: «Si narra, che eziandio nella pelliccia havesse il Petrarca scritto gran numero di versi […] né tanto cassando le parole, e cangiando i concetti, ma nelle composizioni intere incrudeliva, cogliendone fra tutte il più bel fiore […]. Questi cominciamenti così rozzi a fine così pulito condotti danno ardire agli ingegni moderni di sperare altresì molto dalla loro industria, considerando che tutte le buone cose a noi si vendono dal cielo a prezzo di fatica». E «nell’abbruciare quel divin’huomo i suoi componimenti, racconta che ne lasciasse alquanti vivere, che si stavano in un cantone, “non illorum dignitati, sed meo labori consulens”, come egli stesso dice nelle epistole famigliari».[3]

Oltre alla volontà di Petrarca di «lasciarne alquanti vivere» per dare una testimonianza della propria fatica, abbiamo ora qualche altro indizio in più, che mette conto considerare e che dà a questo manufatto una facies d’autore. Analizzando più da vicino quella ventina di carte, indubitabilmente estrapolate dal mare magnum dell’archivio del poeta, che al tempo di Bembo erano sciolte e che dopo il 1582 diventano un codice probabilmente ad opera di Fulvio Orsini,[4] si è capito che almeno la sezione relativa al Canzoniere tradisce una possibile “forma” d’autore, residuo di «un ben determinato faldone dell’archivio petrarchesco, assemblato dal poeta per avviare la prima fase di accrescimento autografo della raccolta».[5] Il che suggerisce che quod superest dell’archivio abbia davvero un valore testimoniale, di tipo estetico-simbolico, più che filologico-critico. Inoltre, ciò che il Codice degli abbozzi ci dichiara esplicitamente è il loro carattere antologico: sedici carte relative a 54 poesie del Canzoniere, quattro di due Trionfi, tre carte di una delle epistole Familiari, una manciata (otto per l’esattezza) di rime disperse o stravaganti, e un paio di carte di rime di corrispondenza. E, della sezione poetica – come Pancheri ha mostrato – un fascicolo “campione”, a testimonianza del laboratorio genetico dell’opera maggiore.

Se ai tempi di Petrarca fosse mai esistito un Fondo Manoscritti di Autori Medievali e Umanistici, e qualcuno avesse chiesto al poeta di consegnare una testimonianza del suo archivio, sottraendolo alla distruzione che tutte le carte subivano dopo essere state copiate nella loro struttura e forma definitiva, ciò che il poeta avrebbe potuto raccogliere, antologicamente, a documentazione del suo laboratorio, non sarebbe stato molto diverso da ciò che è giunto fino a noi come Codice degli abbozzi: un bel po’ di poesie del Canzoniere, due Trionfi, qualche Epistola, rime disperse, qualche rima di corrispondenza. Della volontà di far sopravvivere una testimonianza del suo labor limae abbiamo una dichiarazione diretta; del fatto che la testimonianza fosse proprio quella rimasta abbiamo solo due indizi: il carattere antologico e la scelta del faldone. Ma l’assenza di testimonianze opposte, ovvero del fatto che qualcun altro, della cerchia degli amici di Petrarca, abbia voluto far sopravvivere proprio quelle carte, è un indizio e contrario. E si sa che almeno tre indizi cominciano a costituire una prova.

 

  1. Volontà d’autore, volontà d’archivio 

Ma perché il Codice degli abbozzi ha questa importanza? Perché partire proprio da questo oggetto per riflettere su una possibile “volontà di archivio”? Perché con questo gesto Petrarca ha riconcettualizzato l’idea stessa di testo come un organismo in continua evoluzione, soggetto ad alterazioni, a modifiche. Non che non si sapesse che tutti gli autori sono autori di varianti, che ogni atto di scrittura è un atto di correzione. Da Pasquali in poi, passando per Canfora, Petrucci, Dorandi, è stato ampiamente dimostrato, grazie a testimonianze indirette, che le varianti autoriali sono sempre esistite, e che il processo compositivo che nel XIV secolo era passato dalla dettatura alla fase di scrittura del libro manoscritto aveva lasciato prove di diverse volontà dell’autore sul testo. Lo sappiamo di Tommaso, Severino Boezio; lo stesso Dante cita due incipit di un sonetto della Vita nova. Qual è la novità di Petrarca? Che la decisione di conservare quella ventina di carte non poteva non scaturire dalla consapevolezza che era necessario, per i posteri, conoscere oltre al valore finale del suo lavoro, anche il processo di elaborazione che aveva portato a raggiungere quel valore.

Nel Codice degli abbozzi vediamo nascere, per la prima volta, quella che da Simone Albonico e Niccolò Scaffai, che l’hanno indagata nella modernità letteraria[6] è stata chiamata “volontà di archivio”, ovvero una volontà d’autore che si esplica nel desiderio di lasciare una immagine di sé complementare a quella data dall’opera finita, un’immagine che diventa un modello di vita, per l’abnegazione sottesa alla fatica del labor, e di stile, per l’elaborazione fondativa del concetto di “classico”: un testo che deve essere studiato perché se ne possa ricavare, pedagogicamente, il modo in cui lo stile si è formato, e le ragioni di quello stile. E per diventare per i posteri, che potranno studiare quelle carte, un modello, così come i classici sono stati il proprio modello. Il gesto autoriale alla base di questo atto è semplice è rivoluzionario, perché fonda il concetto di classicismo come “stile da imitare”, e mette al centro di quello stile gli errori, le correzioni, i cambiamenti di rotta, meritevoli di studio non meno che la propria opera finale. L’archivio, di cui il Codice degli abbozzi è l’incunabolo, diventa così l’altra faccia della medaglia dell’opera: il verso del suo recto. E si affianca a quella attenzione per l’altra immagine di sé che da sempre era costituita dalle biblioteche degli autori, specchio fedele della loro storia intellettuale, tesoro da testimoniare presso i posteri.

Grazie a Petrarca, e alla fondazione di un’autorialità costruita specularmente nel recto e nel verso dell’opera, il caso italiano diventa unico e peculiare in tutta Europa, dando origine a una serie straordinaria di manoscritti genetici, che non troviamo in altre tradizioni occidentali: l’idea di “classicismo”, del valore modellizzante della propria opera, spinge i letterati alla conservazione delle proprie carte, con un proliferare di “scartafacci italiani” – testimoniati dall’omonimo volume curato nel 2022 da Christian Del Vento e Pierre Musitelli – da Alberti a Poliziano, da Machiavelli a Guicciardini, al Casa, allo stesso Bembo, Varchi, fino ai celebri frammenti autografi dell’Orlando furioso, divenuti non a caso la pietra fondativa della critica delle varianti.

È per tale ragione che gli archivi letterari degli autori italiani sono un osservatorio privilegiato, non solo per studiare le pratiche di scrittura attraverso i secoli, ma anche, e forse soprattutto, per interrogarsi sull’esistenza e sulle manifestazioni delle diverse volontà d’archivio dalla fine del Trecento alla modernità letteraria del secondo Ottocento, momento spartiacque in cui – come il volume di Albonico e Scaffai ben dimostra – la moltiplicazione dei materiali genetici e la nascita di un’idea di autore corrispondente al modello del “genio romantico” provoca una maggiore consapevolezza da parte degli autori dell’importanza della conservazione delle proprie carte e l’opera materiale diventa consustanziale a quella testuale: la famosa malle aux manuscrits di Victor Hugo, dalla quale non si separava mai, non è meno preziosa delle sue opere a stampa. Una consapevolezza che, se tradotta in una riconoscibile volontà, trova preziosi interlocutori nelle istituzioni di conservazione pubbliche e private (archivi, biblioteche, fondazioni), che si spendono per raccogliere, conservare e rendere fruibili questi documenti.

La sfida di questo volume è di reperire le varie tracce che, al netto degli inevitabili fenomeni di dispersione, distruzione e manipolazione a cui sono andati incontro i documenti coinvolti, permettono di individuare la fisionomia originaria degli archivi dei vari scrittori, e di cogliere eventuali manifestazioni di una concezione ab origine unitaria (autoriale) degli insiemi documentari. Non si tratta di seguire l’iter compositivo di una singola opera letteraria, né di esplorare le pratiche compositive degli autori, quanto di indagare la dialettica tra autore e opera, centrando il focus sulle carte, considerate come il luogo di maggiore prossimità, o di intersezione, tra le due volontà: quella esplicitata dall’opera e quella, implicita, ma non meno importante, presente nell’archivio.

 

  1. Luogo d’osservazione o teatro di mistificazione? 

Prima però di considerare le possibili forme che la “volontà di archivio” può avere assunto negli autori considerati bisogna sgombrare il campo da tre possibili equivoci, che potrebbero rendere tutta l’operazione un affascinante quanto antistorico processo alle intenzioni, o un fantasioso e ingenuo restauro della romantica “mistica dell’autore” sub specie archivistica.

Bisogna sempre ricordare che ciò che si offre alla nostra analisi, infatti, è quod superest di un processo di perdita che, prima di tutto, va indagato nelle sue dinamiche storiche, mettendo sempre in relazione le ragioni esterne e quelle interne della conservazione o della distruzione. Ogni archivio è il risultato di questo bilanciamento, e non sempre le ragioni più forti sono quelle volontaristiche, ma sono condizioni materiali subite dall’autore e che vanno preliminarmente messe in conto per capire l’oggetto dell’analisi. Vi sono archivi dispersi per la scomparsa repentina dei loro autori, archivi perduti per una damnatio memoriae, altri disseminati causa biografie peregrinanti. Di ogni archivio, prima di valutare l’intentio auctoris, bisognerebbe analizzare le condizioni materiali e la storia della tradizione, ovvero la successiva riorganizzazione dell’opera, che spesso soggiace a ragioni editoriali, sia interne (l’autore allestisce i materiali per edizioni che non riesce a realizzare), che esterne (gli eredi, esecutori testamentari, organizzano le carte in funzione di stampe, o le riorganizzano tardivamente). Tra i pieni e i vuoti, a volte possono essere molto più parlanti i secondi.

Un altro elemento insidioso, se non viene posto in sufficiente attenzione, è costituito dagli ordinamenti. Proprio la storia della tradizione, ricostruita preliminarmente e accanto all’indagine sulle carte, mostra quanto l’ordinamento degli archivi soggiaccia a un processo di riorganizzazione che spesso ha seguito il criterio bibliografico, relativo alle opere a stampa, smembrando o addirittura distruggendo le tracce di ordinamenti pregressi, magari preesistenti alla riorganizzazione editoriale seguìta da chi, familiari o archivisti, si è occupato del condizionamento e della conservazione. Lo pone bene in luce, con una serie di esempi dal Casa a Sereni, Simone Albonico, mettendo in guardia da un’astratta fiducia nella verità affidata agli originali, e nell’autorialità degli ordinamenti archivistici, ed esortando a circoscrivere bene fino a dove, e in che termini, arriva il lavoro dell’autore e dove inizia quello della tradizione (qui comunque mescolati, e in una parte dei casi di fatto inscindibili); evitando di puntare tutto su un testimone contrapposto ad altri, e impegnandosi invece a desumere dall’insieme della documentazione, originale o meno, i criteri operativi seguiti dall’autore e dagli altri vari attori della tradizione.[7]

L’altro errore che si deve evitare nel considerare la “funzione archivio”, è quello di cadere nella modellizzazione imposta, consapevolmente o meno, da ogni autore. Se le carte sono il “rovescio della medaglia” dell’opera, e l’autore affida alle forme della loro costituzione e conservazione nel tempo la possibilità di presentare alla posterità un’immagine parallela e speculare a quella offerta dalla propria opera, è inevitabile che imponga ad esse le medesime strategie retoriche e formali che impone all’opera. Come ha scritto Almuth Grésillon, le carte d’autore, non sono «des documents privés, écrits pour soi, destinés à aucun lecteur»,[8] ma sono “carte geografiche” del pensiero creativo che negli archivi d’autore si compongono in una mappa culturale. Si tratta allora di indagare il livello di consapevolezza con cui un autore ha considerato la funzione del proprio archivio letterario presso i posteri, di individuare, se esiste, la strategia volta a controllare e/o indirizzare la fruizione dei documenti, i rapporti dialettici tra archivio d’autore e opera pubblicata e, infine, se è possibile, rintracciare nei documenti conservati una traccia di questa volontà modellizzante.

(“Per gentile concessione dell’editore, si pubblica qui la prima parte dell’Introduzione del volume Volontà d’archivio, pp. 13-20″)

 

[1] Vita del Petrarca scritta da Mons. Lodovico Beccatelli Arcivescovo di Ragusi al Signor Antonio Gigante da Fossombrone [1563-1564], in Francesco Petrarca, Rime di Francesco Petrarca riscontrate con ottimi esemplari stampati e con somma diligenza corretti, Venezia, Bortoli, 1739, pp. XXXIV-XXXV.

[2] Francesco Petrarca, Il Codice degli abbozzi: edizione e storia del manoscritto Vaticano Latino 3196, a cura di Laura Paolino, Milano-Napoli, Ricciardi, 2000, pp. 50-51.

[3] Francesco Petrarca, Le Rime di Messer Francesco Petrarca estratte da un suo originale, a cura di Federico Ubaldini, Roma, Grignani, 1642.

[4] Petrarca, Il Codice degli abbozzi, pp. 82-85 e Alessandro Pancheri, Il “Codice degli abbozzi” di Francesco Petrarca, in Gli “scartafacci” degli scrittori. I sentieri della creazione letteraria in Italia (secc. XIV-XIX), a cura di Christian Del Vento e Pierre Musitelli, Roma, Carocci, 2022, pp. 89-122: p. 100.

[5] Ivi, p. 98.

[6] L’autore e il suo archivio, Atti del Convegno (Losanna, 28-29 novembre 2013), a cura di Simone Albonico e Niccolò Scaffai, Milano, Officina Libraria, 2015.

[7] Simone Albonico, Autografi, documenti, archivi. Solitudine degli originali e configurazioni storiche dei manoscritti letterari, in La Tradizione dei Testi, Atti del Convegno (Cortona, 21-23 settembre 2017), a cura di Claudio Ciociola e Claudio Vela, Roma, SFLI, 2018, pp. 51-73: p. 59.

[8] Almuth Grésillon, Éléments de critique génétique. Lire les manuscrits modernes, Paris, CNRS-Editions 2016 (prima ed. Paris, PUF, 1994), p. 9.

L'autore

Paola Italia
Paola Italia insegna Filologia Italiana e Scholarly Editing all’Università di Bologna. Si è occupata di vari autori e tematiche dell’Ottocento e del Novecento, con una particolare attenzione ai problemi filologici e linguistici legati alle edizioni dei testi cartacei e digitali (Editing Novecento, Salerno, 2013; Editing Duemila, Salerno, 2020) e allo studio e all’edizione delle varianti degli autori (Che cos’è la filologia d’autore, scritto con Giulia Raboni, Carocci, 202010,  nel 2021 tradotto in inglese: What is authorial philology?, OBP, Cambridge, 2021), tra cui Manzoni e Leopardi (Il metodo di Leopardi, Carocci, 2016; Manzoni, Carocci, 2020). In ambito novecentesco si è occupata di Savinio, Bassani, Tobino e Gadda (Come lavorava Gadda, Carocci, 2017 di prossima pubblicazione in traduzione francese: Dans l’atelier de Gadda, Hermann, 2022). Con Giorgio Pinotti e Claudio Vela è responsabile della nuova edizione Adelphi delle Opere di Gadda, di cui sta curando la nuova edizione del Giornale di guerra e di prigionia. Nel 2010 ha fondato il sito Filologiadautore.it, che, nella piattaforma WIKI Gadda, ha avuto più di 800.000 contatti.

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