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Gli esordi di Jean Genet e il dramma “Héliogabale”

Nel turbolento scenario della Francia occupata durante la Seconda Guerra Mondiale, un giovane scrittore, Jean Genet (1910-1986), emerge come figura controversa e poliedrica. Egli naviga in un panorama culturale complesso e sfaccettato. A Parigi, si associa a scrittori come Jean Cocteau, Roger Nimier, Antoine Blondin, sperimentando l’effervescenza intellettuale della città occupata. Orfano e cresciuto senza una formale istruzione, Genet ha iniziato a coltivare la sua passione per la scrittura durante il periodo di detenzione nella prigione di Fresnes. Utilizzando materiali di recupero e carta da imballaggio, ha iniziato a plasmare il suo talento letterario. È stato sostenuto e incoraggiato da figure influenti come Jean Cocteau, il quale ha contribuito a facilitarne l’uscita dal carcere.

Durante gli anni ‘40 e ‘50, Genet ha pubblicato quattro romanzi, con il culmine rappresentato dal suo Journal du voleur (Diario del ladro) nel 1949. Questo periodo di fervida creatività ha segnato anche la preparazione delle sue opere complete per la casa editrice Gallimard. Il saggio di Sartre, originariamente concepito come introduzione a queste opere, è cresciuto fino a diventare un’opera separata intitolata Saint Genet, comédien et martyr nel 1952, contribuendo notevolmente alla fama e alla comprensione dell’opera di Genet.

A partire dal 1957, dopo un periodo di cinque anni di relativo silenzio letterario, Genet ha dedicato la sua attenzione esclusivamente alla scrittura teatrale. Il suo debutto in questo campo risale a dieci anni prima con l’opera Les Bonnes (Le serve).

Jean Turlais, poeta e regista teatrale, e Roland Laudenbach, tra i fondatori delle Éditions de la Table ronde, giocarono un ruolo fondamentale nell’introdurre Genet – allora semplice bouquiniste (il ‘nostro’ venditore di libri usati) lungo la Senna – negli ambienti culturali parigini[1]. Nell’aprile del 1942[2], presentano Genet a Cocteau, condividendo la sua poesia Le Condamné à mort[3]. Questa amicizia – che è parsa autentica – è suggellata dal dono di Genet a Turlais di un suo ritratto, disegnato da Cocteau. Inoltre, un poema intitolato Une seule chose est necessaire – dalla raccolta Savoir par cœur di Turlais – suggerisce il legame tra Turlais e Genet. L’epigrafe «Ad intentionem. J. G.» lascia evincere che la lirica è dedicata all’autore di Notre-Dame-des-Fleurs[4]. A quel tempo, ha raccontato Roland Laudenbach a Jean Jacques Kihm:

«Con una certa regolarità passeggiavo lungo le banchine alla ricerca di libri a buon mercato – e anche solo libri in generale, perché le librerie ne erano sprovviste – insieme al mio amico, il giovane poeta Jean Turlais. Abbiamo così incontrato un venditore di libri usati, Jean Genet, che mi ha parlato di Proust, che verrebbe letto bene solo negli ospedali e in prigione, e di Jouhandeau. Avremmo saputo in seguito che era uno scrittore, un poeta, che amava i ragazzi e infine che rubava. E a questo proposito, poiché Turlais gli parlava di un’edizione in più volumi di un bellissimo Corneille nella vetrina di Gibert, Genet gli spiegava la seguente manovra: Genet sarebbe prima andato a “seppellire” uno dei volumi, poi Turlais sarebbe passato due o tre giorni dopo acquistando i volumi spaiati a un prezzo molto basso, e finalmente Genet avrebbe “dissotterrato” il suo volume, che non avrebbe più avuto alcun valore. Tanto che Corneille divenne il nostro nome comune, Turlais e io ci accordammo per incontrarci “da Corneille” – cioè Genet – e quando Turlais non era con me, Genet mi chiedeva notizie del “petit Corneille”».[5]

Volendo aggiungere un altro tassello alla storia degli esordi di Genet, è utile ricordare la testimonianza di François Sentein, scrittore amico di Genet[6], prossimo a Charles Maurras e all’Action Française, e nel dopoguerra firma della rivista d’ispirazione reazionaria Rivarol e al contempo scrittore dalla fama di libertino: «Ho visto Jean Genet per la prima volta sulla terrazza del caffè Capoulade – indica Sentein in una lettera a Harry E. Stewart – […], intorno al 10 settembre 1942, insieme a Jean Roland Laudenbach e Jean Turlais […] quest’ultimo, ancora uno studente (era più giovane di me di circa due anni), era stato il primo a incontrarlo alcuni mesi prima»[7].

Le lettere di Genet raccolte da François Sentein, ribattezzato “petit Franz”, offrono una prospettiva dal “di dentro” che permette di ricostruire i rapporti intercorsi tra Genet, Sentein, Turlais e Laudenbach.[8] Tutto ciò accadeva chiaramente prima che Genet passasse – per così dire – “all’altro schieramento”. In precedenza, infatti, le relazioni instaurate da lui durante l’Occupazione con giovani intellettuali come Laudenbach, Sentein o Turlais, potevano far presagire una certa vicinanza anche politica. In un certo senso, anticipavano il polo non-conformista rappresentato da Roland Laudenbach alla Table ronde, rivista e poi casa editrice; polo che sarebbe stato ulteriormente illustrato da Roger Nimier negli scritti raccolti in Grand d’Espagne nel 1950.[9]

Nella prefazione Sentein riporta che nella primavera del 1939 Roland Laudenbach lo invitò a unirsi a un gruppo di giovani che si ritrovavano presso un libraio della Muette con l’intento di fondare insieme una piccola rivista: Prétexte. Titolo suggerito dallo stesso Sentein, che precisa non doveva essere inteso in senso letterale, o come segno di devozione giovanile a quella «antiquaille avancée» di Gide[10], ma nel senso della toga praetexta, che a Roma era portata dai giovani della loro età e che gli attori indossavano nelle fabulae praetextae, i drammi romani di soggetto moderno.

Il 16 febbraio 1943 Jean Cocteau annota nel suo diario la consegna da parte di Genet del suo primo romanzo, Notre-Dame-Des-Fleurs: ne è profondamente affascinato e al contempo è preoccupato della sorte del suo nuovo amico. Genet è infatti ancora un ladro ricercato dalla polizia: «Tremiamo – segna nelle pagine del suo diario – dal timore che scompaia e vengano distrutte le sue opere. Bisognerebbe poterle pubblicare, in pochi esemplari, clandestinamente». Pochi giorni più tardi, il 22 febbraio 1943, osserva: «La mano che lo scrive è innocente, libera da ogni costrizione». E poi, perentorio, riconosce di essere di fronte allo «scintillio di un astro nero» nascente.[11]

Il 3 giugno 1943, dalla prigione della Santé, Genet comunica all’amico di essere stato arrestato: il 29 maggio, per il furto di un libro; il libraio del 7 rue de la Chaussée-d’Antin lo aveva inseguito per oltre trecento metri fino al boulevard des Capucines.

Prima ancora della sua scarcerazione, avvenuta il 15 ottobre, Genet aveva avviato la pubblicazione di Le Condamné à mort, finanziato di sua tasca, che circolò in forma clandestina. In quel periodo, l’autore aveva completato diverse opere – tra cui il dramma Héliogabale – per le quali cercava un editore. Il 22 ottobre 1943 Genet scrive a Sentein chiedendogli di passare da Cocteau per recuperare quattro suoi drammi dati in lettura allo scrittore per ottenerne il suo prezioso parere; tra questi, oltre a Héliogabale, figurano Pour la Belle, Persée e Journée Castillanne e Les Guerriers nus. L’autenticità di alcune di queste opere è stata talvolta messa in discussione, ma per quanto riguarda Héliogabale, la sua esistenza è stata confermata da testimonianze come quelle di François Sentein, Jean Cocteau e Marc Barbezat, il primo editore di Genet. Tuttavia, Jean Marais, a cui era stato offerto il ruolo principale dopo aver letto la pièce, non ne fu particolarmente entusiasta. Nel maggio del 1943, durante un soggiorno a Villefranche, Genet decise di rivedere il testo, ma nonostante gli sforzi, Héliogabale rimase solo un manoscritto. Pur rimanendo molto legato all’opera, Genet non rinunciò al progetto di pubblicarla o di farla rappresentare in teatro. Durante l’estate del 1948, le Edizioni Nagel annunciarono su Carrefour la sua pubblicazione in autunno, come riportato anche nel 1949 dal settimanale Samedi-Soir. Anche nel 1955, Genet sembra aver avuto difficoltà nel proporre Héliogabale a diversi editori. La pièce, a lungo creduta perduta, è stata ritrovata nelle collezioni patrimoniali della Houghton Library (Università di Harvard) ed è oggetto della recente edizione Gallimard a cura di François Rouget.

Il dramma rappresenta le ultime battute della vita di Eliogabalo, che Genet ritrae come un seguace del dio Sole, deciso a distruggere con se stesso l’Impero, in cerca di liberazione; un illuminato che cerca, attraverso la trance, di raggiungere una nuova forma di estasi. Così il personaggio della spietata nonna di Eliogabalo, decisa a strangolare il nipote con le sue stesse mani rugose: «Ma il culto del Sole e quello della sua pietra nera, mi sconvolgono! Perché non bisogna dimenticare che è gran sacerdote e dio. Non l’hai visto come me, quando va ad unirsi al Sole. Inizia a girare in tondo. Sembra che stia volando, senza ali e senza muoversi, che stia volando dentro di sé, dove è il Sole»[12].

Eliogabalo era succeduto a Macrino, il primo imperatore proveniente dal rango equestre, e subito respinto dalle dinamiche del potere dinastico. Consapevole del rischio che alcune influenti figure femminili rappresentavano per lui, come Giulia Domna, decise di confinare quest’ultima in Siria: dove, malata, si tolse la vita. Ma la logica familiare le sopravvisse: infatti la sorella, in accordo con le figlie, identificò nel nipote, Vario Avito Bassiano, un adolescente di quattordici anni figlio di Soemiade (sua figlia) e sacerdote ereditario del Sole, il nuovo imperatore. Diffondendo la voce che fosse figlio illegittimo di Caracalla, e rendendolo, così, gradito ai soldati, lo fece proclamare imperatore a Emesa con il nome di Marco Aurelio Antonino, noto come Eliogabalo, dal nome del dio da lui venerato. Eliogabalo giunse a Roma nel 219. La sua politica antimilitare gli alienò immediatamente il sostegno delle legioni. Inoltre, non smise il suo ruolo di sacerdote, una volta diventato imperatore, cercando piuttosto di presentarsi come un imperatore-sacerdote di stampo orientale. Va da sé, ciò gli attirò l’antipatia dell’aristocrazia pagana tradizionale, soprattutto quando cercò di imporre il culto del dio emeseno come principale a Roma.[13] Inoltre, come tramanda l’Historia Augusta, invece di servirsi dell’esperienza dei giurisperiti rivolse tutte le sue attenzioni ai liberti promuovendoli a corte:

«[ne] condusse a corte molti, che aveva notato per il loro bell’aspetto, traendoli dalla scena, dal circo e dall’arena. Amava a tal punto Ieroclie da baciarlo in maniera tale che ci fa arrossire solo a menzionarla, affermando che cosi compiva i riti sacri a Flora. Commise incesto con una vestale, profanò i templi portandone via le sacre immagini, volle spegnere il fuoco perenne. Cercò di soffocare tutte le altre religioni sia in Roma sia altrove, volendo far trionfare dovunque il culto di Eliogabalo».[14]

La nonna Giulia Mesa e la zia Giulia Mamea cominciarono a tramare, così, contro Eliogabalo e a meditare un progetto di successione che, sacrificandolo, garantisse la sopravvivenza dinastica. Nel 221 Gessio Alessiano Bassiano (figlio di Mamea e quindi cugino di Eliogabalo) fu fatto adottare da Eliogabalo e fu fatto proclamare Cesare col nome di Marco Aurelio Severo Alessandro. Così l’Historia Augusta:

«Mentre Eliogabalo svernava in Nicomedia, turpemente abbandonandosi ai suoi amori omosessuali, i soldati incominciarono a pentirsi di aver tradito Macrino per creare un simile principe, e mostrarono preferenza per il cugino dello stesso imperatore, Alessandro, che il senato alla morte di Macrino aveva nominato Cesare. Chi avrebbe potuto infatti sopportare un principe talmente invasato da frenetica libidine? Nemmeno ad un animale si concederebbe tanto, e lo si caccerebbe. A Roma non faceva altro che mandare in giro emissari a cercare i più gagliardi giovani per diventarne succube. Rappresentava nella reggia il dramma di Paride, in cui sosteneva la parte di Venere, lasciando ad un tratto cadere le vesti e comparendo nudo, con le mani atteggiate a schermo del petto e del ventre, mentre si chinava ancheggiando turpemente. Atteggiava il viso all’espressione che la dea di solito ha nei dipinti; e si depilava il corpo. Il suo più alto ideale era quello di apparire adatto a prestarsi ai desideri di molti».[15]

François Rouget, nel saggio introduttivo Héliogabale, un «dieu de théâtre» tenté par le martyre, sottolinea l’influenza che deve aver avuto su Genet nella stesura del dramma la lettura del saggio Héliogabale ou l’anarchiste couronné di Antonin Artaud, come tale opera abbia plasmato i tratti principali del personaggio di Genet: un ermafrodito devoto del dio Eliogabalo e un imperatore deciso a demolire il potere per raggiungere la santità. Un primo confronto tra i due testi evidenzia chiaramente l’influenza di Artaud su Genet, che ha sicuramente riversato anche molto di sé nel suo lavoro, come ha sempre fatto.[16] Ancora Rouget, ci fa notare alcune similitudini: come il suo personaggio, Genet è cresciuto senza padre, era omosessuale in cerca di riconoscimento e redenzione, ha commesso crimini ma è anche stato percepito come una vittima. Più significativo è, a parere del curatore, comprendere la visione di Genet sulla sua opera, specialmente quando la presenta come un «teatro dentro il teatro». Héliogabale abbonda di apartés, ovvero i commenti dell’autore sulla sua opera, noti come metadiscorsi. Fin dall’inizio, per mezzo di un àugure, viene predetta la morte dell’eroe. Nonostante la storia sia permeata di classicismo e gravità, Genet aggiunge elementi «disforici»[17] che denunciano l’artificio teatrale. Sembra quasi di assistere a una commedia. Del resto, la spietata nonna del protagonista annuncia sin dalle prime battute: «Stiamo per concludere la commedia»[18]. È una commedia – ci dice Rouget –, una commedia di inganni, travestimenti e maschere, dove ognuno complotta contro l’altro e l’eroe stesso cerca di svelare segreti repressi e intenzioni nascoste. In breve, la scena di Héliogabale «è truccata come un teatro»[19], così come sarà truccato il protagonista nelle battute che precedono la sua fine con in dosso «magnifici abiti femminili»[20] («Non c’è altro imperatore che una puttana d’imperatrice, e tu ce l’hai di fronte»[21]). E – nota ancora Rouget – in questo atto di appropriazione dell’opera da parte del suo autore, possiamo vedere riunite le due facce del personaggio Genet, «à la fois […] comédien et martyr»[22].

info@giuseppebalducci.it

[1] S. Colomba, A. Dichy, L’immoralità leggendaria. Il teatro di Jean Genet, Ubulibri, Milano 1990, p. 378.

[2] Stando al diario di Roger Lannes, l’incontro sarebbe in realtà avvenuto il 15 febbraio 1943, cfr. J. Cocteau, Diario (1942-1945), a cura di J. Touzot, trad. it. di G. Parodi, Mursia, Milano 1993, p. 177.

[3] J.-J. Khim, E.M. Sprigge e H. Behar, Cocteau, l’homme et les miroirs, Table ronde, Paris 1968, p. 274. Il 6 febbraio 1943, Cocteau annoterà nel suo diario: «Talvolta si compie il miracolo. Per esempio Le Condamné à mort di Jean Genet. […] L’erotismo di Genet non scandalizza mai. La sua oscenità non è mai oscena. Un grande e magnifico movimento domina tutto. […] Stile perfetto» (J. Cocteau, Diario (1942-1945), cit., p. 172).

[4] H. E. Stewart, R. Roy McGregor, Qui etait Jean Turlais?, in Id., Jean Genet: From Fascism to Nihilism, P. Lang, New York 1993, p. 50.

[5] Citato in J.-J. Khim, E.M. Sprigge e H. Behar, Jean Cocteau, l’homme et les miroirs, Table ronde, Paris 1968, 273-275. (trad. nostra)

[6] Fu lui per altro a essere incaricato, prima della pubblicazione di Notre-Dame-des-Fleurs, di rivedere, correggere e punteggiare il testo del celebre romanzo.

[7] Citato in E. White, Jean Genet, Gallimard, Paris 1993, p. 192.

[8] J. Genet, Lettres au petit Franz, présentées et annotées par Claire Degans et François Sentein, Gallimard, Paris 2000.

[9] M. Dambre, Roger Nimier, lecteur de Jean Genet, in Estudos em homenagem a António Ferreira de Brito, Faculdade de Letras da Universidade do Porto, Porto 2004, p. 98.

[10] Il riferimento è a Prétextes (1903) e Nouveaux prétextes (1911), in cui Gide raccolse le sue riflessioni sulla letteratura e la morale.

[11] J. Cocteau, Diario. (1942-1945), cit., p. 179.

[12] J. Genet, Héliogabale. Drame en quatre actes, édition établie et présentée par François Rouget, Gallimard, Paris 2024, p. 47. (trad. nostra)

[13] Cfr. M. Pani, E. Todisco, Storia romana. Dalle origini alla tarda antichità, Carocci, Roma 2008 p. 300.

[14] E. Lampridio, Vita di Antonino Eliogabalo, in Scrittori della Storia Augusta, a cura di L. Agnès, UTET, Torino 1960, p. 264

[15] Ibid.

[16] F. Rouget, Héliogabale, un «dieu de théâtre» tenté par le martyre, in J. Genet, Héliogabale, cit., p. 14.

[17] Ivi, p. 17.

[18] J. Genet, Héliogabale, cit., p. 40. (trad. nostra)

[19] Ivi, p. 84. (trad. nostra)

[20] Ivi, p. 65. (trad. nostra)

[21] Ivi, p. 68. (trad. nostra)

[22] F. Rouget, Héliogabale, un «dieu de théâtre» tenté par le martyre, in J. Genet, Héliogabale, cit., p. 18.

L'autore

Giuseppe Balducci
Giuseppe Balducci è critico e traduttore letterario. Ha studiato presso l'Università di Bari, dove si è laureato in lettere con una tesi su Mario Praz. In ambito editoriale, ha curato, tra gli altri, i seguenti volumi: M. Proust, Soggiorno a Venezia (Luni, Milano 2022), P. Loti, Uomo di mare (Robin, Torino 2023), N. Douglas, Capri. Annotazioni Antiquarie (La nave di Teseo, di prossima uscita). Ha inoltre condotto un lavoro di riscoperta dello scrittore e saggista italiano Mario Praz, curando, per Aragno, i seguenti volumi: Misteri d’Italia (2022), Omelette soufflée à l’antiquaire (con Giovanni Balducci, 2023), Collezionare libri (2023), Alcibiade. Gli scritti di "Paese Sera" 1960-1972 (di prossima uscita). È autori di saggi scientifici, apparsi sulle riviste “Illuminazioni”, “Studium”, “Studi Francesi”.