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Levi, Alvaro, Pasolini. Dialogo con Francesco Sielo

Francesco Sielo è ricercatore di Letteratura italiana contemporanea presso l’Università Vanvitelli. Ha pubblicato i volumi Montale anglista (ETS, 2016) e L’atroce morsura del tempo (Sinestesie, 2018) entrambi incentrati sul poeta ligure. Nel suo ultimo libro, Animali, Macchine, Stranieri (Liguori, 2023) analizza invece gli scritti di Primo Levi, Corrado Alvaro e Pier Paolo Pasolini alla luce della loro visione dell’umana identità.

Cominciamo dalla struttura. Il tuo libro è diviso in due parti …

Esattamente. La prima è dedicata a Primo Levi e ai suoi racconti fantastici ed è divisa nell’analisi di due temi, ovvero gli animali e le macchine, entrambi fondamentali nella sua riflessione sull’identità umana. La seconda parte del libro si occupa invece di due autori, Corrado Alvaro e Pier Paolo Pasolini, studiati in rapporto a un tema che li accomuna, vale a dire lo straniero, anzi nella fattispecie la straniera Medea, protagonista di tante riscritture novecentesche del mito classico.

L’idea fondamentale di questo libro consiste nell’analizzare le riflessioni letterarie sulla questione dell’identità umana, attraverso l’approfondimento critico delle rappresentazioni di quello che non è umano (animali e tecnologia) o viene spesso deumanizzato (lo straniero, l’appartenente a una diversa identità).

Nella Premessa parli di identità come reazione al processo di omologazione globalmente diffuso. Ci spieghi questo concetto?

Credo che la crescente attenzione al concetto di identità, visto sia negativamente come affermazione aggressiva e discriminante di un’identità dominante su altre subordinate e marginalizzate, sia in senso positivo, come fondamento valoriale dell’esistenza di individui o gruppi sociali, sia una reazione all’omologazione culturale derivante dall’estensione globale del capitalismo in quanto sistema economico e culturale. L’identità è insomma un problema chiave del nostro tempo, sia ad un livello individuale che collettivo, proprio nel momento in cui le reali differenze tra individui e popoli anche molto distanti geograficamente si sono assottigliate. Alcuni conflitti tra identità diverse vengono mantenuti o addirittura radicalizzati per motivi moralmente poco condivisibili; allo stesso tempo si fa fatica a riconoscere e coltivare esperienze comuni in un ambito condiviso, come se fossimo reclusi in identità via via minori, fino ad arrivare al limite dell’individualismo (o del solipsismo) più assoluto. Mi sembra che invece sia possibile e auspicabile, per confrontarci con problemi sempre più estesi come le diseguaglianze sociali e le crisi ecologiche, coltivare un’identità di specie, vale a dire una rinnovata riflessione sulla nostra identità di esseri umani.

Ancora in premessa, spieghi come a livello di rappresentazione letteraria il rapporto umani-animali venga a volte frainteso o sovrainterpretato alla luce di “uno sguardo antropocentrico e marginalizzante”…

Dagli anni Settanta in poi si è sviluppata una modalità di analisi letteraria, l’ecocritica, che si occupa proprio di studiare le modalità di percezione e rappresentazione dell’essere umano rispetto a tutti gli elementi, sia non viventi che viventi, dell’oikos, cioè di quella dimora planetaria che è l’ambiente. L’attenzione umana si concentra quasi inevitabilmente sugli elementi viventi e, tra questi, soprattutto sugli animali, che diventano quasi l’emblema del sistema ecologico.

Se l’uomo tende a sentirsi estraneo nei confronti dell’ambiente circostante, ecco che la rappresentazione degli animali diventa stigmatizzante: l’animale incarna quindi i vizi, le storture, gli istinti. Viene utilizzato come metafora di comportamenti e caratteristiche che in realtà sono umani e, anche quando viene rappresentato positivamente, viene valutato da un punto di vista antropocentrico. Si operano quindi distinzioni tra animali belli e brutti, cattivi e buoni, utili o inutili. Tuttavia la riflessione sugli animali in quanto inevitabilmente diversi da noi ma accomunati da alcuni tratti fondamentali (il piacere e il dolore per esempio) può portare a esiti molto interessanti, come dimostrano i racconti di Primo Levi, nella comprensione dello stesso essere umano, di cosa sia effettivamente un essere umano.

Allo stesso modo, “paragone e ambiguità portano anche al riconoscimento di una misinterpretazione opposta nei confronti delle macchine, che da oggetti vengono trattati e considerati come creature viventi, addirittura superiori all’essere umano” …

Il problema è che l’essere umano tende a confrontarsi con la macchina come se fosse un soggetto e non una sua creazione, determinata dalle funzioni ad essa assegnate. Il ruolo di emblema dell’alterità, che veniva assegnato agli animali, viene ora svolto dalle macchine, con la differenza che a una relazione di superiorità si sostituisce un’indebita sensazione di inferiorità. L’essere umano viene costretto dalla comparazione con le macchine a interrogarsi sulla propria identità e a giustificare continuamente le proprie differenze rispetto a questa, differenze che vengono interpretate come mancanze, come debolezze.

Primo Levi, invece – nella sua preoccupazione che l’uso distorto delle macchine possa “radicalizzare un’alienazione già presente, innescata dal fatto che l’uomo contemporaneo basa gran parte della propria identità sulla tecnica” – che rapporto ha con le tecnologie?

Così come quella sugli animali, la riflessione di Primo Levisu tecniche e tecnologie rivela aspetti molto interessanti. L’uso di tecniche (come la scrittura e la medicina) o di tecnologie (dalle armi primitive ai computer) è un fattore ineliminabile dell’identità umana che però, soprattutto in questo, si percepisce distinta da un’identità “naturale”. La téchne sembra essere il tratto vincente dell’evoluzione umana ma vincola la sopravvivenza dell’uomo (non solo ma soprattutto di quello contemporaneo) a qualcosa di esterno alla sua fisiologia, di culturale. Primo Levi riflette su quanto anche questo fondamento dell’identità umana sia a rischio di pervertimento, nel momento in cui l’uomo crea tecnologie sempre più autonome nel loro funzionamento, per motivi spesso ancora legati all’atavico e mai superato sfruttamento dell’uomo sull’uomo. La sua preoccupazione dunque, a differenza di quelle di tanti intellettuali “apocalittici”, non demonizza la macchina in quanto tale, poiché Levi non dimentica mai che la tecnologia è un oggetto non un soggetto e quindi non può essere demonizzata. La preoccupazione di Levi è sempre rivolta a esseri umani che inventano e perfezionano tecniche e tecnologie senza assumersi la responsabilità o senza preoccuparsi degli usi distorti che possono essere fatti.

Una domanda che esula, in parte, dal tuo libro ma che mi sembra centrale in merito alla fortuna di Levi in Italia. I racconti fantabiologici e fantatecnologici di Primo Levi, nonostante siano oggi oggetto di studio relativamente diffuso da parte della critica, restano per lo più sconosciuti al grande pubblico di lettori, che identifica lo scrittore ebreo per lo più con la sua produzione testimoniale. Pensi ci sia stata, in anni passati, una strumentalizzazione in tal senso – si è, cioè, politicamente e socialmente voluto far conoscere solo il Levi di Se questo è un uomo e de I sommersi e i salvati – o esiste qualche motivo “altro” (editoriale, critico …) a una tale mancanza?

Sicuramente l’interesse per il Levi memorialista è stato maggiore non solo a causa di una crescente attenzione per la ricostruzione storica della shoah e per la confutazione dei primi negazionismi ma anche per il riconoscimento critico, pressoché unanime, dello specifico valore della testimonianza e delle riflessioni di Levi rispetto a quelle di altri sopravvissuti ai lager. È stato insomma via via riconosciuto il valore letterario ed extraletterario di Se questo è un uomo e de I sommersi e i salvati, forse talvolta con una predilezione per il valore extraletterario. In questo senso Primo Levi è stato talvolta ridotto a una figura iconica, da leggere per il suo valore pedagogico rispetto a uno specifico e ristretto ambito, mentre invece la sua riflessione di intellettuale e la sua produzione artistica di scrittore sono molto più complesse e variegate rispetto alla sola testimonianza, che pure appare ovviamente come uno dei centri fondamentali della sua esperienza.

Tuttavia la minore attenzione del grande pubblico rispetto alla produzione “fantastica” di Levi può essere stata influenzata anche dal discredito in cui la critica italianateneva la fantascienza, considerata un genere minore oppure «sottoletteratura». Si pensi all’esordio come narratore fantastico dello stesso Levi che pubblica la sua prima raccolta di racconti, Storie naturali, sotto pseudonimo su indicazione della casa editrice, timorosa di apparire troppo pronta a sfruttare il prestigio del Levi memorialista per vendere meglio il Levi fantastico, considerato quindi implicitamente meno importante o letterariamente riuscito.

Tutto questo ha fatto sì che quando il pubblico italiano ha finalmente scoperto la fantascienza si sia rivolto comunque non alle poche produzioni nostrane, presentate spesso dagli editori con timidezza, quasi fossero dei divertissement di autori solitamente più seri, bensì all’enorme e qualitativamente variegata fantascienza estera, soprattutto statunitense, in grado di soddisfare sia i lettori più esigenti che i consumatori meno preparati. Credo che la crescente attenzione critica verso questa parte dell’opera leviana potrebbe contribuire in futuro a una sua maggiore conoscenza anche presso il grande pubblico.

Quanto a Medea, ci mostri come spesso, nel corso del Novecento, questa figura venga riutilizzata e riscritta in chiave politico-ideologica. In che modo ciò avviene?

Secondo Massimo Fusillo, dei tre nuclei fondamentali del racconto classico come definiti da Albrecht Dihle, ovvero Medea innamorata, Medea demonica e Medea barbara, il Novecento predilige nettamente quest’ultimo, il tema della Medea straniera, discriminata e perseguitata a causa di pregiudizi deumanizzanti. Le Medee novecentesche esprimono quindi spesso un discorso antirazzista e anticolonialista.

Quali sono le caratteristiche di queste due riscritture?

In Alvaro viene rappresentata la creazione del pregiudizio in tutte le sue fasi, da un’accettazione superficiale purché ci sia un’apparente integrazione che è in realtà una marginalizzazione, fino al momento in cui un potere politico, qui rappresentato da Creonte, comprende che può facilmente consolidare e rendere più totalizzante il proprio dominio coalizzando le forze sociali contro un capro espiatorio. Aizza quindi le componenti irrazionali sempre presenti e tanto più forti quanto più misconosciute e represse nella Grecia sedicente razionalista e scatena l’odio della folla contro la diversa, straniera e per di più donna. La conclusione alvariana mostra quanto sia pericoloso tentare di sfruttare le paure irrazionali per il proprio tornaconto “razionale” e Creonte viene travolto dalla stessa follia che ha suscitato. In tutto questo la Medea di Alvaro, recuperando fonti storiche pre-euripidee, risulta l’unico personaggio che non si abbandona all’irrazionalità, non invia doni maledetti e invece cerca il compromesso e il dialogo. Uccide infine i suoi stessi figli ma solo per sottrarli al linciaggio della folla, nel paese cosiddetto “civile”.

Pasolini costruisce invece una rappresentazione complessa della barbarie, centro ideologico dei suoi interessi in quel periodo. La sua Medea è la sacerdotessa di una religione arcaica, tipica di una società contadina che non aveva ancora rinunciato alla sacralità, anche se espressa attraverso sacrifici umani. Medea lascia la sua terra e permette il furto della reliquia più sacra perché attratta da Giasone: solo per lui tenta di integrarsi in una diversa civiltà, che ha ormai abbandonato i suoi vecchi miti e in cui la violenza è solo calcolo politico e avventura predatoria. Anche in Pasolini, come in Alvaro, è fondamentale il rapporto tra razionalità e irrazionalità: quest’ultima continua a esistere nonostante la razionalità si sia imposta ed è proprio dall’arrogante illusione di poter controllare tutto razionalmente che scaturisce una consequenzialità tragica. Anche qui Medea non invia doni avvelenati, però ha una visione in cui lo fa, obbedendo a un desiderio di vendetta. Infine uccide i suoi figli durante una ninna-nanna, quasi come se fosse tornata nella dimensione sacrale della sua cultura d’origine.

Che differenza c’è tra la Medea pasoliniana e quella di Alvaro?

In Pasolini la descrizione del rapporto razionalità-irrazionalità e la narrazione della barbarie si intrecciano. Tutti gli esseri umani percorrono una via di progressiva razionalizzazione, durante la loro vita, dall’infanzia all’età adulta. Allo stesso modo anche le civiltà si razionalizzano, laicizzano e tecnicizzano, tuttavia l’irrazionalità rimossa resta psicologicamente attiva, anche se per lo più trascurata e repressa, anche nelle civiltà moderne. Questo però porta l’autore a esaltare le società arcaiche in quanto più irrazionali e non a rappresentarle nel loro complesso intreccio di razionalità e irrazionalità. In Alvaro assume più importanza la riflessione sul potere e sulla società, visto che i singoli individui devono decidere che posizione assumere rispetto a entrambi. È interessante l’esempio della scelta di Creusa (la figlia del re Creonte, Glauce in Pasolini) che si rifiuta di entrare nella dinamica sociale adulta, giudicata come inevitabilmente violenta, e si suicida. Questa reinterpretazione alvariana servirà da modello alla Glauce pasoliniana che, dopo essersi immedesimata nella rivale, darà libero corso a una sua irrazionalità latente e metterà fine alla sua vita.

Per concludere: il problema della razza, del rapporto con l’altro, della diversità “barbara” lega in qualche modo Levi a Corrado Alvaro e Pier Paolo Pasolini, alle loro interpretazioni di Medea, nello specifico. Ci spieghi come?

Nel trattamento del film di Pasolini erano descritte alcune scene, poi cassate durante la stesura della sceneggiatura, in cui il mitico centauro maestro di Giasone bambino, non solo si rivelava un semplice essere umano, come vediamo nel film, ma completava la sua parabola evolutiva come tecnico, addirittura come capitalista. Il rapporto con i viventi non umani, il rapporto con la tecnica e quello con esseri umani deumanizzati e reificati sono tre aspetti interconnessi. Più volte Medea viene paragonata a una bestia feroce, sia in Alvaro che in Pasolini, e in entrambi gli autori la Grecia sedicente razionale si dimostra più avanzata solo sul lato tecnologico (la costruzione della prima nave della storia, l’Argo) ma non su quello umano. Tutti gli autori esaminati descrivono il pericolo che tecniche e tecnologie possano essere usate per rendere più pervasivo e occulto lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, e inoltre che la pretesa razionalizzazione nasconda pulsioni di aggressività intraspecifica che riguardano tutti gli animali sociali e non hanno ancora smesso di riguardare anche l’essere umano.

teresa.agovino@unimercatorum.it

 

L'autore

Teresa Agovino
Teresa Agovino (1987) ha conseguito il dottorato di ricerca nel 2016 presso l'Università 'Orientale' di Napoli con una tesi incentrata sulle riprese manzoniane nel romanzo storico del Novecento. Insegna Letteratura italiana presso l'Università Mercatorum (Roma) e Metodologie di scritture digitali presso l’Università Europea di Roma. Si occupa di ricerca su Alessandro Manzoni, Primo Levi, Giancarlo De Cataldo, Andrea Camilleri, autori sui quali ha pubblicato numerosi articoli in rivista e atti di convegno. Ha pubblicato i volumi: Dopo Manzoni. Testo e paratesto nel romanzo storico del Novecento e Elementi di linguistica italiana (Sinestesie, Avellino 2017 e 2020); I conti col Manzoni e «Sotto gli occhi benevoli dello Stato». La banda della Magliana da Romanzo criminale a Suburra (La scuola di Pitagora, Napoli, 2019 e 2024);“Non basta essere bravi. Bisogna essere don Rodrigo”: Social, blog, testate online, Manzoni e il grande pubblico del web (Armando editore, 2023). Ha vinto il premio 2023 dell’Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti, Classe di Lettere, con il saggio Da Manfredi all’innominato. Suggestioni dantesche in Manzoni.