Memorie d'oltreoceano

Don Q And His Gang: insegnare il Don Chisciotte in un carcere di massima sicurezza negli USA. Luigi Giuliani dialoga con Carmen Peraita

Carmen Peraita, Professor of Early Modern Cultural History and Literature presso la Villanova University (Pennsylvania) e specialista in Letteratura Spagnola del Siglo de Oro, ha impartito nell’anno accademico 2015-2016 una corso sul Don Chisciotte in un carcere di massima sicurezza grazie a un accordo fra la sua Università e lo Stato della Pennsylvania. Di questa esperienza ha parlato in varie conferenze in Spagna e in Italia, l’ultima, quella tenuta a giugno all’Università di Perugia, è stata su invito della cattedra di Letteratura Spagnola.

Perché hai accettato di insegnare letteratura in una prigione?

Villanova University ha un programma di insegnamento per i detenuti di una prigione il cui nome – per un non-disclosure agreement – non posso rilevare. Vi si insegnano varie materie che fanno parte del carico didattico dei docenti partecipanti al programma. Non si tratta di un’attività extra di tipo volontario, e sono libera di decidere il contenuto dei corsi. Così l’anno scorso ho accettato di parteciparvi e ho insegnato da agosto a dicembre 2015, per un totale di quattordici settimane – un normale semestre universitario – con lezioni di due ore di seguito ogni settimana, il mercoledì dalle 13 alle 15.

Perché hai scelto il Don Chisciotte?

Volevo che fosse un corso basato sulla lettura di un testo di narrativa e da sempre penso che il Don Chisciotte non sia solo un classico, ma anche un testo divertente che, anche se può sembrare lontano dagli interessi dei lettori di oggi, è ancora interessante per gli studenti americani del XXI secolo. In questo caso volevo anche sorprendere un po’ gli studenti con un testo inatteso e sconosciuto come il Don Chisciotte, anche se non avrei mai immaginato che li avrebbe appassionati così tanto. Poi nella mia decisione ha influito in parte anche il fatto di aver già impartito spesso corsi sul Don Chisciotte e mi sentivo più sicura in questa mia esperienza da docente in carcere con un testo che conoscevo bene dal punto di vista didattico.

Descrivici la classe. Che profilo avevano gli studenti, quanti erano, che tipo di background possedevano?

Era una classe relativamente numerosa, di 18 studenti. Siccome era un corso obbligatorio ma che non era stato mai offerto precedentemente, e per molti studenti era necessario per potersi laureare, abbiamo avuto un alto numero di iscrizioni. Avevano un profilo abbastanza vario. Nella mia esperienza di insegnante non avevo mai avuto una classe con una percentuale così alta di studenti appartenenti a minoranze: di quei 18, 14 erano afroamericani, due erano bianchi e due latinos. L’età era varia, andava dalla metà dei trent’anni (in prigione è difficile capire l’età dei detenuti) fino – direi – ai più di sessanta (magari erano più giovani ma alcuni sembravano più che settantenni). Per quanto riguarda il background, venivano quasi tutti da famiglie povere di Filadelfia e Pittsburgh. Provengono da nuclei urbani e, benché alcuni avevano già iniziato gli studi universitari prima di entrar in prigione, per molti di loro il primo contatto con gli studi superiori è avvenuto in carcere. Dal punto di vista religioso, c’erano parecchi mussulmani, un gruppo di protestanti e alcuni cattolici. Avevano poi diseguali abilità di lettura – scrittura: alcuni erano eccellenti scrittori, altri avevano problemi a comporre un testo in inglese. Ma tutti si applicavano e svolgevano i compiti loro assegnati, che mi venivano consegnati non appena entravo in classe.

E qual era il loro profilo giudiziario? Perché si trovavano lì? Hai avuto accesso a informazioni su di loro?

I colleghi che avevano già insegnato in prigione mi avevano consigliato di non cercare di sapere i loro trascorsi. Ovviamente, è sufficiente entrare in internet per scoprire cosa ha fatto ognuno di loro ma è meglio non saperlo: è preferibile vederli semplicemente come i tuoi studenti. Anche se dai commenti dei colleghi finisci col venire a conoscenza quali di loro sono lì da molto tempo o quelli che non usciranno mai.

Come hai organizzato la programmazione delle quattordici settimane e come hai distribuito i contenuti per ogni classe?

Ovviamente al principio ho dato loro un programma in cui si diceva che il corso era incentrato sulla lettura completa delle due parti del Don Chisciotte, in cui illustravo basicamente le letture previste per ogni settimana, i capitoli da leggere, e una descrizione sommaria del tipo di compiti da svolgere, ma prima di iniziare il corso non avevo un’idea chiara sul tipo di attività che poteva interessare gli studenti. Una delle mie grandi preoccupazioni era: “Ecco, io vengo da fuori: che posso fare per destare il loro interesse?”. Mi sembrava importante che gli studenti scrivessero: questo è un corso universitario e ci viene sempre detto che dobbiamo mantenere alto il livello di esigenza, ma non vedevo con chiarezza che attività potevo far svolgere agli studenti prima di conoscerli almeno un poco. Avevo previsto di soffermarmi su determinati brani del romanzo, per esempio sul discorso della pastora Marcela per difendere se stessa dagli accusatori. È un discorso quasi di tipo forense in difesa della libertà e per loro poteva essere interessante da analizzare per iscritto. Avevo delle idee iniziali su cosa fare, ma non molte. Quando ho cominciato a passare del tempo con loro in classe ho pianificato una serie di attività di scrittura attraverso le quali gli studenti potessero rapportarsi col testo dal punto di vista personale e io potessi conoscerli meglio individualmente, dato che non c’era modo di poter parlare con ognuno di loro.

Come si svolgeva la lezione? Che limitazioni sono state imposte al tuo lavoro?

Avevo il permesso di entrare in aula solo all’ora stabilita, perché prima c’era il conteggio dei detenuti: non potevo arrivare prima e sperare di chiacchierare con gli studenti, perché loro non erano in aula e io non potevo comunque accedervi. Normalmente la lezione finiva quando entrava una delle guardie e distribuiva loro i salvacondotti e li portava al conteggio. Solo molto raramente ho avuto la possibilità di parlare con uno di loro. Qualche volta ci riuscivo quando erano in fila in attesa che li portassero via. Una tecnica che ho utilizzato, e che mi è stata molto utile, è stata quella di rivolgermi a ognuno di loro quando arrivavo e prima di iniziare la lezione: “Ciao James, come stai? Come è andata la settimana?” E mi rispondevano: “Come credi che sia andata?” E credo che sia stato importante, perché mi dava la possibilità di poter parlare – anche se solo schematicamente – con ognuno di loro.

Non ti era concesso di parlare con loro, di avere un contatto personale con loro?

Non potevo toccare gli studenti, non potevo dar loro il mio indirizzo di posta elettronica. Tieni conto che, anche se i detenuti non hanno accesso all’email, possono sempre contattare persone che ce l’hanno. Non potevo parlargli di me, dirgli che sono spagnola, che macchina ho, da quanto tempo vivo negli Stati Uniti. Ma gli studenti sanno che agli insegnanti è vietato parlare di questioni personali e non ti fanno domande. Non potevo neanche rivolgermi in spagnolo agli ispanici. Non potevo dar loro una matita o portare dei regali.

Su che traduzione inglese hai lavorato?

Con l’edizione più recente, quella di Edith Grossman, del 2003. L’avevo già usata in passato in un corso di master che ho impartito in inglese. È un Don Chisciotte molto adattato all’inglese americano di oggi. Ho pensato che ci sarebbero stati altri tipi di difficoltà, e che la lingua non avrebbe dovuto costituire un ulteriore ostacolo per gli studenti. Di fatto, credo che al principio del semestre parte delle loro reticenze a leggere un romanzo di quattro secoli prima erano dovute al timore di non comprenderne la lingua. L’aver visto che la traduzione risolveva ogni difficoltà linguistica li ha aiutati moltissimo nel loro avvicinamento all’opera.

Che materiali didattici hai usato in classe?

Lavoravo con degli handouts. Il materiale di tipo iconografico che volevo dare (per esempio, una riproduzione della ruota della fortuna medievale o la Y pitagorica, o mappe o dipinti) lo fotocopiavo e lo distribuivo.

Quali erano le attese degli studenti prima di iniziare il corso e come hanno reagito alla tua proposta?

Sono sempre rispettosi e grati ai docenti che hanno deciso di insegnare in prigione. Dedichiamo il nostro tempo a un programma che non è necessariamente molto popolare anche a Villanova (ci sono colleghi e dipartimenti che non vi hanno mai partecipato). Nel mio caso era la prima volta che insegnavo lì, e gli studenti vedevano che non conoscevo le regole della prigione e me le spiegavano, per esempio non sapevo che sarebbe entrata la guardia con i salvacondotti. Soprattutto all’inizio mi hanno detto chiaramente e con rispetto che loro erano interessati ad altri argomenti. “Vogliamo saperne di più sulla nostra Nazione, sull’Islam, sull’Africa o sulla storia della schiavitù…”. Ma alla fine del corso, quando ho passato un questionario per chieder loro su cosa avrebbero voluto studiare nei corsi seguenti, non avanzavano più quelle richieste ma scrivevano: “su Cervantes, ecc.”. All’inizio non c’era molto interesse per un romanzo scritto in Spagna quattrocento anni prima, ma io ho insistito molto sul fatto che Cervantes era stato in carcere, aveva conosciuto la prigionia, sapeva cosa vuol dire esser privati della libertà, scriveva da un mondo marginale, era passato per la povertà ed era morto in una situazione di insuccesso sociale, e questo ha destato subito il loro interesse.

Quali sono stati gli elementi del romanzo che li hanno più colpiti, che li attraevano dopo quel primo momento di sconcerto?

Il carattere umano dei personaggi, con le loro debolezze, le loro arrabbiature, le discussioni fra Sancio e Don Chisciotte, la loro profonda amicizia, il loro sentimento di reciproca lealtà. È un mondo che in certi aspetti sentono molto vicino, nell’espressione dei sentimenti, nel tipo di situazioni che si vengono a creare… Si sono sentiti vicini alle reazioni di certi personaggi, come nel caso del Curioso Impertinente, di cui hanno compreso l’ostinazione autodistruttiva, un’ostinazione che riconoscono in se stessi. Mi facevano notare poi che soprattutto nella Seconda Parte, Cervantes non si ripete mai: c’è sempre una nuova avventura, ci sorprende sempre con qualcosa di nuovo. Ne ammiravano l’inventiva e anche il senso dell’umorismo.

In molte pagine del romanzo viene toccato il tema della privazione della libertà.

Individuavano non solo gli episodi in cui il tema è centrale, come quello dei galeotti o di Roque Guinart, ma anche tutte le microallusioni – e sono molte – in cui appaiono riferimenti, anche en passant, alla libertà o alla prigionia. Per loro erano spunti per comparare ciò che significa la privazione della libertà e per commenti più o meno diretti sulla loro situazione personale. Soprattutto – e anche se alcuni di loro hanno commesso atti orribili, cosa che non negano (sebbene tutto fosse detto in maniera abbastanza elusiva) – sono coscienti del fatto che il sistema penitenziario in cui si trovano sia totalmente ingiusto, anzitutto dal punto di vista legale, poi da quello del trattamento personale. E il trattamento e il rispetto fra persone sono temi a cui anche Cervantes è molto sensibile. Sono poi degli studenti molto politicizzati. Anche se non possono votare, sono al corrente di ciò che accade in politica, delle decisioni della Corte Suprema, ecc. E attraverso il Don Chisciotte esprimevano il loro punto di vista sulla situazione in cui si trovano.

Mi parlavi del fatto che avessero differenti fedi religiose. Come reagivano davanti ai brani del romanzo che toccano il tema della religione?

La religione ha un ruolo fondamentale nelle loro vite. Anche se insegno in un’istituzione universitaria cattolica non ho mai avuto studenti per i quali la religione fosse un elemento così centrale, sia per i mussulmani sia per i cattolici (il mio miglior studente lavorava nell’ufficio del cappellano…) o per i protestanti. Gli studenti riconoscevano immediatamente ogni citazione biblica. Molti di loro leggono la Bibbia ogni giorno. La religione è per loro qualcosa di fondamentale non solo dal punto di vista spirituale ma anche sociale perché in prigione è importantissimo appartenere a un gruppo solidale. Uno studente afroamericano di origine giamaicana, che non era mai vissuto in un ambiente religioso, mi ha raccontato che quando è entrato la prima cosa che gli hanno chiesto è stata: “Di che religione sei?” Lui ha risposto: “Di nessuna”. E allora gli hanno detto solo: “You’d better find one” (“Faresti meglio a trovartene una”). Molti diventano religiosi o si convertono. Credo che non ci sia nessuno in prigione che non sia credente. Lo studente di cui ti parlo è un juvenile lifer, un condannato all’ergastolo che è entrato in prigione quando era minorenne ed è dentro da più di vent’anni. È uno studente davvero brillante, il migliore della classe, e avrebbe potuto studiare all’MIT. Chiamava il nostro corso “Don Q And His Gang”. Pochi mesi fa, a marzo, la Corte Suprema dello Stato della Pennsylvania ha dichiarato incostituzionale l’ergastolo per i minorenni, tuttavia non è chiaro cosa ne sarà dei >juvenile lifers già condannati, e se la sentenza della Corte è retroattiva e a quali condizioni.

Molti di loro sono mussulmani. Cosa li attraeva del romanzo?

Uno degli elementi che mi hanno aiutato a catturare la loro attenzione è stato parlare sin dalle prime lezioni dell’eredità araba nella cultura spagnola. Non sempre coglievano l’ironia dei commenti di Cervantes come quelli su Cide Hamete Benengeli che, in quanto moro, viene presentato come un bugiardo. Su questo punto per loro è difficile apprezzare l’ironia. Tutta la storia del prigioniero ad Algeri, il tema della fuga, l’episodio di Zoraida e di suo padre, li leggevano con molta attenzione proprio in quanto segno della presenza dell’Islam nella narrazione e nella cultura spagnola. Hanno fatto molte domande sul rapporto fra le religioni nella Spagna dell’epoca, sui contatti fra le culture mussulmana ed ebrea, o su chi fossero esattamente i moriscos e perché vennero espulsi.

Cosa sapevano della cultura spagnola all’inizio della lettura?

Non sapevano assolutamente nulla. Non avevano mai sentito parlare della Spagna, non sapevano neanche ubicarla geograficamente. Ho cominciato il primo giorno col tracciare sulla lavagna una mappa della Spagna, e nelle prime lezioni ne ho dovute disegnare tante che mi hanno detto: “Senti, perché non ci porti una mappa e ce ne dai una copia ad ognuno?” La prima cosa che hanno notato è che la Spagna è accanto all’Africa, a solo venti chilometri, e hanno imparato cos’è Gibilterra. Poi, una volta iniziata la lettura del Don Chisciotte, c’erano molti spunti per parlare di storia. Per esempio: Avellaneda era di Tordesillas, e siccome avevano sentito parlare del trattato di Tordesillas, ho dovuto portare un’altra carta per spiegare cosa succedeva a quel tempo nei territori spagnoli del Nuovo Mondo. Volevano sapere di Bartolomé de las Casas, e allora ho fotocopiato e ho portato in classe l’introduzione alla Brevísima relación de la destruición de las Indias. Ovviamente si sono stupiti del fatto che Las Casas appoggiasse l’importazione di schiavi africani per sostituire gli indios come manodopera. È stato un tema difficile da discutere in classe.

Cosa li interessava maggiormente della trama del romanzo?

In generale, il profilo dei personaggi. Nel Don Chisciotte appare un barbiere, e c’era un barbiere anche fra gli studenti, un detenuto che aveva imparato il mestiere nella scuola per barbieri della prigione, anche se si tratta di un lavoro che è vietato loro esercitare una volta tornati in libertà. Quello studente è rimasto affascinato dal personaggio del barbiere, voleva sapere come funzionavano gli strumenti della barberia menzionati nel romanzo, è rimasto sorpreso dall’apprendere che all’epoca i barbieri eseguivano dei salassi, e nel suo diario annotava ogni giorno qualsiasi riferimento al mestiere. Per esempio, l’episodio della principessa Micomicona e delle barbe posticce – episodio che spesso è stato letto da un punto di vista psicoanalitico – lo commentava in un modo molto più letterale. Finì col dare ai suoi compagni quasi una conferenza su come era un barbiere nel Rinascimento.

Hai detto che gli studenti scrivevano un diario. È stato per un tuo suggerimento o è stata una loro iniziativa?

È un’idea che ho avuto una volta iniziato il corso, non lo avevo mai fatto prima nelle mie lezioni. Volevo che prestassero attenzione al loro modo di leggere il testo, anche dal punto di vista materiale: dove, come, con che luce, con quali interruzioni, ma anche con quali immaginazioni, associazioni di idee… Quando annunciai: “Voglio che scriviate un diario di lettura da consegnare ogni tre settimane” la prima reazione non è stata molto positiva: “Perché dobbiamo tenere un diario?”. Poi il diario li ha interessati molto, non solo perché non avevano mai prestato attenzione prima a come leggono un testo, ma anche perché dava loro l’opportunità di divagare sulla propria situazione personale, sulla settimana, sulla lettura.

Che condizioni ci sono in carcere per lo studio?

Abbiamo il falso mito del molto tempo a disposizione dei detenuti. Molta gente mi dice: “Sono bravi studenti e riescono a leggere il Don Chisciotte perché hanno molto tempo libero”. Non è vero. Anzitutto, lavorano: cominciano a lavorare alle 7 di mattina e arrivano a lezione distrutti. Molti di loro sono obbligati o semiobbligati a lavorare, e naturalmente vengono pagati pochissimo. Inoltre il loro tempo libero non è un tempo di qualità. Non hanno uno spazio in cui studiare. Gli studenti mi dicevano: “In carcere non c’è mai silenzio, mai, per tutte le ventiquattro ore”. E difatti la prima impressione che ho avuto quando sono entrata nella prigione è stata quella di un frastuono assordante. Vivono dunque costantemente in mezzo al rumore, non hanno spazio, non hanno una sedia, un tavolo a cui sedersi per lavorare. La cella è piccolissima e devono dividerla con un compagno, con la televisione accesa, e per di più non è loro permesso tenere materiali di studio. Alla fine del corso mi sono sentita colpevole di avergli portato così tanto materiale, perché magari in una qualsiasi ispezione della cella glielo tolgono e lo buttano. Si lamentavano di non avere uno spazio tranquillo, silenzioso, comodo, dove lavorare. Non esistono spazi comuni come una biblioteca o una sala di studio. Il lifer che lavorava come aiutante del cappellano mi scriveva nel diario che sapeva di essere molto fortunato perché poteva usare l’ufficio del cappellano e studiare su un tavolo, mentre per gli altri le condizioni anche solo per leggere un libro non erano agevoli. Ora sembra che si stia aprendo uno spiraglio per farci avere uno spazio in cui gli studenti possano lasciare in deposito il materiale di studio per potervi accedere dopo le lezioni.

Come hanno affrontato il gioco di specchi, le scatole cinesi rappresentate dall’autore, dal manoscritto ritrovato, dal traduttore, da tutte le convenzioni letterari e anche dalle incongruenze del romanzo?

Non avevano mai letto un romanzo con una struttura narrativa del genere. In realtà leggono pochi romanzi, o nessuno, perché le lezioni di letteratura inglese sono soprattutto di poesia contemporanea. All’inizio per loro è stato difficile entrare nella struttura narrativa del Don Chisciotte, e in classe dicevano spesso: “Continuo a non capire” “Non afferro bene cosa sta succedendo”, “Ma allora, chi è l’autore? Che succede?”. Tutto questo gioco di scatole cinesi o il fatto che la narrazione si interrompa perché si è interrotto il manoscritto, e poi occorre cercare di scoprire come continua la storia, e che alla fine risulta che esiste un autore della storia ma è un bugiardo… tutto questo ha provocato molte discussioni in classe, e alla fine ho dovuto portare loro uno schema del romanzo. Ma una volta entrati, una volta passate le difficoltà delle prime settimane, hanno compreso molto bene il gioco della Seconda Parte, e sono stati colpiti specialmente dal fatto che Don Chisciotte dichiarasse di essere lui l’autentico Don Chisciotte. Sono rimasti affascinati dal meccanismo messo in moto dall’apparizione del Don Chisciotte di Avellaneda, soprattutto dal fatto che non fosse un’istanza superiore, quella del narratore, a smascherare l’”impostore”, l’altro Don Chisciotte, ma lo stesso protagonista.

Si sono appassionati al romanzo…. 

Non volevano saltare delle parti, nessun capitolo. In generale per me è difficile decidere quali capitoli saltare, ma avevo pensato che magari se ne poteva omettere qualcuno di quelli che si svolgono nel palazzo dei Duchi, perché altrimenti ci sarebbe stato un numero eccessivo di pagine da leggere per ogni sessione. Ma quando l’ho proposto in classe – con il corso già avanzato, quando stavamo per iniziare la Seconda Parte – il lifer di cui ti parlavo ha detto: “No, no, non ci piace saltare delle parti”, e tutti gli altri si sono detti d’accordo.

In quanto docente di un’Università d’élite i tuoi alunni sono di solito di classe media o alta, in maggior parte bianchi. Nella tua esperienza, che differenza hai riscontrato fra i tuoi studenti dell’Università e quelli del carcere? 

L’intensità e la voglia di imparare degli studenti della prigione non l’ho mai rinvenuta nelle mie classi dell’Università, soprattutto in quelle undergraduate. Agli studenti universitari non interessa particolarmente la letteratura. A quelli del carcere nemmeno, e tuttavia la loro lettura del Don Chisciotte è stata di un’intensità, una profondità davvero speciali. Credo anche che ciò sia dipeso dal fatto che non hanno accesso a internet o a una biblioteca che possa soddisfare il loro enorme desiderio di imparare. Per loro le lezioni sono un mezzo per migliorare la vita, un’opportunità da non sprecare.

Cosa credi che abbia lasciato in loro la lettura del Don Chisciotte?

Una questione cruciale per me in quanto insegnante di letteratura spagnola è far sì che la letteratura sia qualcosa di importante nelle loro vite, qualcosa a cui vale la pena dedicare del tempo. Per me è importante aprir loro la mente a un campo, alla cultura spagnola, che non conoscevano. Ora possiedono delle nozioni un po’ più sofisticate della storia d’Europa e comprendono come tutto ciò possa avere un rapporto con la loro storia. E hanno scoperto che leggere letteratura, leggere un classico, un testo di tanto tempo fa scritto in un paese lontano può essere qualcosa di importante e di piacevole.

E cosa ti ha apportato questa esperienza sia in termini di metodologia didattica sia a un livello più personale?

In un sistema universitario come quello americano, estremamente caro e molto orientato al mondo del lavoro, siamo portati a dubitare che insegnare il Don Chisciotte o i classici in generale abbia un senso. Questa esperienza ha rinsaldato in me la convinzione che questi testi abbiano un valore fondamentale, pedagogico e umano, e che continuino a essere centrali persino in un’educazione che tenda alla formazione professionale. Sono ancora questi i testi che vanno insegnati. Mi ha reso più sicura su un qualcosa che all’inizio della mia carriera docente era molto importante ma che si è andato logorando sotto gli attacchi di quanti sostengono che non bisogna più insegnare letteratura ma corsi di cultura, organizzare internships, ecc… Il corso mi ha dato delle idee perché il carcere mi ha spinta a ripensare la mia impostazione iniziale, a creare delle attività differenti per un corso sul Don Chisciotte non tanto incentrato sull’aspetto letterario o sulla teoria della letteratura, ma aperto a far sì che lo studente possa giocare con la propria lettura, scegliere determinati aspetti dell’opera e applicarli alla propria situazione personale. Mi ha dato inoltre un’enorme energia e ha rinforzato la mia vocazione all’insegnamento, una vocazione che ho sempre avuto sin dalla mia gioventù ma che nell’attuale difficile situazione in cui versano gli studi umanistici correva il rischio di logorarsi. E voglio continuare questa mia esperienza in carcere non limitandomi solo alla docenza in aula ma anche organizzando altre attività. Non ho ancora pensato al programma, ma sono nella lista dei docenti del prossimo anno e vorrei sviluppare delle attività fuori dall’aula, anche se la cosa è complicata. Uno dei motivi per cui sono andata a parlare con la direttrice del programma di insegnamento in prigione è proprio quello di richiedere che gli studenti possano avere una biblioteca, un luogo dove studiare. Forse mi si può rimproverare di avere un atteggiamento un po’ chisciottesco verso il mio lavoro, ma anche questo è uno dei molti insegnamenti del romanzo di Cervantes, no?


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L'autore

Luigi Giuliani
Luigi Giuliani
Luigi Giuliani è professore associato di Letteratura spagnola dal 2014 presso l’Università degli Studi di Perugia. Ha vissuto per 25 anni in Spagna dove ha insegnato Teoria della letteratura e Letteratura comparata presso l’Universitat Autònoma de Barcelona e l’Universidad de Extremadura. Specialista di teatro barocco (edizioni critiche e studi su Lope de Vega, Lupercio Leonardo de Argensola, Juan de la Cueva, Cristóbal de Mesa), si è occupato (un po’ schizofrenicamente) di teoria della performance, critica testuale, poesia dialettale romanesca e narrativa italoamericana. Scrive regolarmente di baseball e letteratura sul sito www.baseball.it