Interventi

La cosa più bella di Gillo era Gillo

Un ultimo ricordo, molto personale, legato al grande critico. E ad un metodo che ha cambiato radicalmente le modalità di scrittura e lettura dell’arte.

È triste pensare che Gillo non ci sia più. Raggiungere Milano per una fiera, una mostra o un evento culturale e non passare a piazzale Lavater per un saluto a un amico così caro sarà un po’ come tornare in una città nuova, in un luogo che non conserva la familiarità, la consuetudine degli ultimi venti anni.

Quando si pranzava insieme era sempre una festa: e sempre necessariamente in compagnia d’un’amica, “per allietare”, diceva, il convivio. Ricordo la sua passione per il Cannonau di Sardegna e per una cucina povera ma elegante: un suo piatto forte erano le penne allo zafferano con cipolla e dadini di prosciutto cotto.

Negli ultimi tempi, quando ancora riuscivamo a sentirci telefonicamente mi chiedeva sempre: e allora? Come va a Macerata? Nel 2011 all’Accademia, il 27 marzo gli avevamo conferito la Laurea Honoris Causa e il Premio Svoboda al Talento Artistico e Creativo. Ne fu compiaciuto e felice. Compiaciuto d’aver trascorso dei giorni piacevoli in nostra compagnia. Felice d’aver provato una cucina diversa, d’aver degustato crema fritta e ottima Lacrima di Morro d’Alba.

Un giorno di qualche anno fa (28 febbraio 2010), dopo pranzo, ebbi accesso a una stanzetta segreta di casa sua. Era alla sinistra rispetto all’uscio d’ingresso. Un armadio, in quel luogo intimo, conservava al suo interno tutti i libri scritti in una vita. Mi invitò a prenderne quanti ne volessi, era un suo regalo, un suo vivo ringraziamento perché non solo avevo da poco concluso il mio ciclo di dottorato, ma avevo appena pubblicato un libro sulla sua avventura intellettuale, Gillo Dorfles. Arte e critica d’arte nel secondo Novecento.

Scelsi timidamente due piccoli libricini con sue prefazioni – Lyonel Feininger e L’alfabeto di Capogrossi pubblicati da Vanni Scheiwiller rispettivamente nel 1958 e nel 1962 (il primo in occasione della Mostra retrospettiva di Lyonel Feininger allestita da Emilio Dall’Oglio e Luigi Serravalli nella Sala Esposizioni dell’Azienda Autonoma di Soggiorno e Cura di Milano) – e alcune splendide monografie: Albrecht Dürer (1958), la riedizione del Discorso tecnico delle arti (2003) e la prima edizione delle Ultime tendenze nell’arte d’oggi (maggio 1961). Riapro privatamente proprio le Ultime tendenze, ci trovo una dedica e, a mo’ di segnalibro, una sua missiva inviatami il 6 maggio 2010. In quella pagina segnata, la 5 che apre la Premessa, ci ritrovo tutta la freschezza di una persona, di un pensiero, di un metodo. Trovo ciò che caratterizzava teoreticamente Gillo: il fatto che la sua vitalità filosofica e la sua curiosità si nutrivano di presente e investivano qualsiasi oggetto o cosa, ufficiale e non ufficiale. «La mia intenzione», scrive in quella prima Premessa (che reputo una “piccola lezione” quantomai attuale per leggere il mondo in cui viviamo), «non è stata quella di compilare un testo di “storia dell’arte moderna”, e nemmeno una raccolta di brevi monografie, riguardanti taluni artisti, legate tra di loro da un tenue filo conduttore: due sistemi oggi molto spesso adottati. Non ho neppure mirato a tracciare un’ennesima “estetica”, imbastendo dottrine filosofiche più o meno arzigogolate per giustificare questo o quell’aspetto d’un’arte, come la nostra, ancora in divenire. Il mio scopo è stato soltanto quello di “fissare”, prima che fosse troppo tardi (e, oggi, il “troppo tardi” viene di solito anche “troppo presto”) certe mie esperienze critiche attorno a quella pittura e scultura da me considerate come più autentiche e rappresentative per i nostri giorni, così come esse si vengono svolgendo e ramificando sotto i nostri occhi».

Qui di seguito ripropongo la conversazione che ebbi con Gillo qualche anno fa:

Gillo Dorfles, flâneur della contemporaneità

Trieste, 10 aprile 1910. Sono il luogo e la data che indicano una nascita. Quella di Gillo Dorfles. Personalità – dallo spirito mitteleuropeo – tra le più straordinarie del secondo Novecento. Dorfles, lo sappiamo, è una figura poliedrica. Egli è pittore e scultore, musicista, critico e teorico dell’arte, psichiatra ed estetologo (per citare soltanto alcuni dei campi nei quali il suo pensiero si è dislocato). Amante, tra l’altro, delle buone maniere. E non dimentichiamo “critico del gusto” che è l’indicazione a cui più tiene. Flâneur della contemporaneità, Dorfles è una persona il cui rarissimo sguardo ci aiuta a vedere conoscere e capire i problemi socio-antropologici (e non solo) del nostro tempo; un tempo in cui bisogna ritornare a quell’intervallo necessario della vita quotidiana, che è interruzione critica rispetto alle cose del mondo. Il dialogo inedito che segue, nasce da un incontro avvenuto a Milano.

Comincerei con quello che dichiari in un’intervista rilasciata a Eugenio Miccini nel 1985. Tu dici che sei, fondamentalmente, un “autodidatta”; pertanto hai “autodidatticamente” apprese alcune nozioni filosofiche senza esserne impigliato o appressato. E questo ha dato vita alla tua propria teoria estetica. Ti andrebbe di delineare alcune linee che hanno dato vita a questo tuo pensiero?

Credo che parlare del mio pensiero estetico sia un po’ difficile anche perché non penso di rappresentare nell’estetica contemporanea una voce decisiva. Quello che posso dire è che la mia formazione filosofica è anomala; cioè io mi sono presentato alla libera docenza in estetica senza aver fatto le solite trafile. Sono partito decisamente da quella che possiamo chiamare una filosofia fenomenologica. Anche perché essendo molto amico di Enzo Paci, e avendo con lui fondato la rivista Aut-Aut, la filosofia che più ci interessava in quel periodo era la filosofia di Husserl, di Heidegger, quindi praticamente una filosofia post-idealistica vicina alla fenomenologia da un lato e, per conto mio, vicino anche alla psicologia e alla psicanalisi.

Ernst Gombrich e Rudolf Arnheim – del quale ha tradotto nel 1962 per Feltrinelli Art and visual perception. A psycology of the creative eye. Quanto hanno influito le loro linee psicologiche nel tuo lavoro critico?

Naturalmente io ho guardato con molto interesse il lavoro di Gombrich che, effettivamente, era abbastanza vicino al mio. E devo dire che, per quello che riguardava soprattutto la critica, l’impostazione psicologica, psicoanalitica e percettivistica, per conto mio è stata sempre molto importante. Un mio amico, e forse anche il più importante percettologo italiano, cioè Gaetano Kanizsa, che è stato anche mio collega a Trieste, ha influenzato abbastanza il mio sistema critico: e cioè quello di dare molta importanza all’aspetto percettologico.

Nel tuo lavoro sono sempre vive e presenti analisi sociologiche e antropologiche. Queste due categorie metodologiche sono altrettanto importanti?

L’antropologia per conto mio è una delle basi dell’estetica. Difatti nel mio libro L’intervallo perduto (1980) io ho fatto specificare in sopracoperta che si trattava di un testo di estetica antropologica proprio perché penso che sempre di più è importante che l’estetica non sia esclusivamente una branca filosofica tanto più che, dai veri filosofi, è considerata come qualcosa di poco filosofico; e invece è fondamentale una base psicologica, antropologica, per l’approccio all’opera d’arte. Non c’è dubbio che, sia creativamente che tecnicamente, un’opera d’arte ha bisogno di uno strumentario psico-antropologico.

Passiamo alla semiotica. Pensi che un corretto studio semiologico possa svolgere appieno la lettura di un’opera d’arte?

Certo. La semiotica è stata una disciplina che ha avuto un grande sviluppo una ventina d’anni fa e ha in un certo senso influenzato quella che era la critica degli ultimi tempi. Tuttavia un’interpretazione puramente semiologica dell’opera d’arte credo sia insufficiente, perché in fondo è utile per distinguere quello che è l’approccio soggettivo e oggettivo di un’opera d’arte però non basta per creare una comprensione dell’opera d’arte. Anzi direi che uno dei difetti della semiotica è quello di creare delle distinzioni nette significato/significante, sia da un punto di vista saussurreiano che da un punto di vista, poi, greimassiano il ché poi finisce per “isterilire” una visione diretta dell’opera d’arte.

C’è un concetto che ritorna spesso nel tuo pensiero e nelle tue opere. È quello di “processo”, di processualità, di fasi di lavoro che portano alla germinazione dell’opera. Mi chiedevo: quanto hanno inciso nella tua attività artistica, teorica e critica le linee-guida della Scuola di Progettazione di Weimar?

Parlare dell’atto creativo quando ci si riferisce alla propria opera è molto complicato. Anzi io in un certo senso sono nemico di tutti quegli artisti che fanno delle lunghissime disquisizioni pseudo-filosofiche sulle loro opere col ché non chiariscono un bel niente. Quindi credo molto a un approccio creativamente diretto senza una arrière pensée psicologica o filosofica. In altre parole credo che la creazione artistica, soprattutto nel campo della pittura, della scultura, delle arti visive, debba essere molto istintiva pertanto legata più all’istinto che al ragionamento cosa che naturalmente è molto diversa nell’opera letteraria o nell’opera musicale dove la razionalizzazione del pensiero creativo è indispensabile. Tanto più che, per quello che mi riguarda personalmente, la mia produzione artistica non è mai razionalizzata ossia, in quello che intendo fare c’è sempre qualcosa di spontaneo, di legato all’istinto; non voglio tirare in ballo l’inconscio perché sarebbe troppo facile ma indubbiamente sono degli elementi istintivi, patetici o patologici anche che però non sono razionalizzati. Il giorno in cui siano razionalizzati perdono la loro carica espressiva.

Fenomenologia, semiotica, psicoanalisi, antropologia, sociologia. Quali di queste posizioni teoriche e metodologiche continuano, oggi, ad essere importanti, secondo il tuo parere, per dispiegare un’opera d’arte?

Ci sono alcune tappe fondamentali che continuano a valere. Un autore come Gombrich, che abbiamo nominato prima, secondo me è ancora un autore che ha un’estrema importanza. Alcune teorie come quelle diciamo della informazione – tipo Max Bence – sono, direi, un pochino decadute proprio per la loro teoricità eccessiva. E poi naturalmente ci sono le teorie analitiche che indubbiamente hanno influenzato moltissimo l’arte contemporanea, soprattutto la pittura, per cui ancora oggi un’analisi che abbia la sua base se non l’intera teoria ma alcuni punti salienti della psicoanalisi – sia freudiana che lacaniana – hanno un’importanza notevole per un’analisi dell’opera d’arte.

Milano, Trieste, Roma, Genova, Napoli che tu definisce “il cervello d’Italia”. Qual è stato il tuo rapporto con queste città?

Queste città che ha citato sono, indubbiamente, quelle che mi erano più familiari. Trieste, Genova, Milano, Napoli, anche Cagliari, dove ho passato parecchi anni nell’Università. Devo dire che ognuna di queste città ha delle caratteristiche sue specifiche. Per quanto riguarda il mio rapporto con Napoli è sempre stato molto vivo e, tra le varie città, non è una scoperta, Napoli è effettivamente tra le più intelligenti e creative d’Italia: lo è stato e credo che continui ad esserlo. Il mio rapporto con le diverse popolazioni di queste città è stato diverso proprio perché queste popolazioni sono molto diverse. La mancanza di espansività dei liguri di fronte alla maggiore espansività dei napoletani o anche dei palermitani, la riservatezza e anche la minor fantasiosità dei cagliaritani, la superficialità ma anche la vivacità dei triestini. Certo, detta così, in poche parole, naturalmente, è una assurdità, ma ognuna di queste città ha una sua caratteristica ed è, oltretutto, quello che rende l’Italia, nel suo insieme, così interessante; di essere appunto estremamente diversa nelle sue diverse regioni.

Passiamo a Salerno. Penso subito al tuo rapporto di amicizia con Filiberto Menna. In un’intervista rilasciata a Marco Di Capua nel 1989 hai detto “Con Menna ero d’accordo su quasi tutto, e quando non lo ero riconoscevo comunque la sua intelligenza”. Ti andrebbe di descrivere alcune linee questo tuo rapporto con Filiberto Menna?

A parte l’amicizia, per cui la sua scomparsa mi ha colpito molto, devo dire che io Filiberto lo consideravo veramente una delle persone più intelligenti, più creativamente intelligenti d’Italia. E anche la sua critica mi convinceva moltissimo. La sua Linea analitica (1975) è un libro ancora oggi fondamentale. Non solo, ma credo d’averlo detto qualche volta: “Filiberto è l’unica persona con cui abbiamo fatto insieme quella che io considero una delle mostre più interessanti degli anni Settanta”. Una mostra che si chiamava al di là della pittura, a San Benedetto del Tronto. Una mostra dove sono state esposte anche, per la prima volta, delle installazioni, delle ambientazioni che allora non erano ancora diventate di moda. C’erano opere che andavano da Piero Dorazio a Enrico Castellani, da Carlo Alfano a Mario Schifano ecc. poi c’erano parecchi napoletani. Artisti che allora, in fondo, contavano, e che erano i più interessanti. È stata una delle mostre fondamentali di quell’epoca. E credo solo con Filiberto avrei potuto fare una mostra del genere, tanto è vero che quando mi fu chiesto di fare la mostra da Amatucci, un critico molto bravo di Ascoli Piceno, io dissi: “sì, la faccio, a parte che ci sia anche Filiberto”. Proprio per avere due visioni diverse ma concordi.

Specific Object

Passiamo alle tue pubblicazioni. Nel 1951 pubblichi il Discorso tecnico delle arti. In questo tuo scritto, in cui combatti e abbandoni la linea idealista crociana (allora alla moda), parti da una frase di Johann Wolfgang von Goethe: “L’arte è una mediatrice dell’ineffabile, perciò sembra una stoltezza il volerla nuovamente trasmettere con le parole”. È sintomatico che questo tuo Discorso parta dalla poesia. E mi chiedevo dunque: Gillo Dorfles nasce dalla poesia? E quale importanza presta Gillo Dorfles alla poesia?

Naturalmente qui bisognerebbe fare tutto un catalogo delle arti; un rapporto tra le diverse arti, cosa sempre molto pericolosa. La poesia direi che è una delle arti fondamentali. Ovviamente da sempre è stata realizzata dall’uomo, come del resto anche la pittura; dai primi graffiti in poi l’uomo ha da sempre cercato di dipingere e di poetare. Però non darei una prevalenza all’una piuttosto che all’altra; dipende da quella che è la sensibilità dell’artista insomma. Quindi non credo che si possa dire “viene prima la poesia, poi la pittura” o, “prima la musica e poi la scultura”. Ogni arte ha la sua caratteristica e credo che succeda molto spesso che un grande poeta è completamente “sordo” alla musica o alla pittura o, viceversa, che un pittore non capisce niente di musica. E questo avviene molto frequentemente.

Pensi che “ipotizzare” sia la strada migliore per ragionare di arte della contemporaneità?

Sì. Finché un periodo non è esaurito è difficile riuscire a collocarlo veramente, quindi è anche difficile dire fino a che punto arriva la contemporaneità. Noi oggi possiamo dare uno sguardo abbastanza obiettivo sull’Ottocento. Darlo sul Novecento è già molto difficile. Tanto più difficile darlo su quello che si svolge sotto i nostri occhi. Quindi credo che sia quasi impossibile dare un giudizio veramente obbiettivo.

Nel 1959 pubblichi Il divenire delle arti: una sorta di rivisitazione e continuazione del tuo lavoro del 1951. Parli spesso di durata, di “divenire” appunto “legato alle arti”, di metamorfosi e di “successione”, di “oscillazione” (termine centrale in un tuo libro del 1970, Le oscillazioni del gusto, appunto), di transitorio dell’arte e della critica. Ti andrebbe di distendere questo tuo concetto basilare e sempre presente, d’altronde, nella tua opera?

Si, precisamente, io nel Divenire delle arti mi richiamo a Georg Wilhelm Friedrich Hegel (che dei filosofi del passato è quello più moderno) proprio per dire che questo divenire continuo mi pare che sia veramente fondamentale non solo per oggi, ma per tutti i tempi. Ho fatto molte volte l’esempio del Rinascimento o del Barocco eccetera. Cioè alla fine di ogni periodo è come se tutto quello che è stato fatto in quel periodo fosse sbagliato cioè c’è questa necessità di sopprimere quello che c’è stato prima per creare quello che deve venire dopo. Nella nostra epoca questo divenire è ancora più evidente. Scrivendo Le oscillazioni del gusto dicevo proprio questo: noi abbiamo questo continuo trasformarsi sotto i nostri occhi e se non ce ne accorgiamo non riusciamo a capire quello che sta avvenendo. Il difetto dello storico dell’arte tradizionale è quello di restare fermo al periodo in cui ha studiato l’arte e dopo, ovviamente, non è stato più capace di andare avanti. Questo vale per gli storici dell’antichità ma vale anche per gli storici dell’arte contemporanea; quello che hanno studiato a venti, venticinque anni, quando ne hanno quaranta non lo capiscono già più.

Il divenire delle arti (1959) e Ultime tendenze nell’arte d’oggi (1961) sembrano essere “opere aperte”. Opere alle quali tu ritorni continuamente. Una sorta di meditatissimo work in progress. È questo il punto? Cioè il legame di queste opere con il concetto di divenire, di nuovo, di mutamento?

Sì, effettivamente, questa metamorfosi direi che è una delle costanti non solo dell’arte di oggi ma dell’arte di sempre. Basti pensare al trapasso dagli etruschi ai romani, o dai greci ai romani, ai bizantini, eccetera. Questo continuo trapasso mi pare sia una delle cose fondamentali nell’opera d’arte; e non solo nelle arti visive ma in tutte le arti. Quindi certo, in queste mie opere ho tenuto conto di questo, anche quando parlo dell’Intervallo perduto (1980), che è una delle opere alle quali tengo di più, in fondo dico qualcosa di analogo: cioè ci vuole sempre uno spazio tra un’opera e l’altra, ma anche tra un’epoca e l’altra, perché ci possa essere il superamento di questo intervallo, di questa specie di pausa.


Quanto ha inciso – e se ha inciso – nel tuo lavoro la teoria dell’evoluzione creatrice formulata da Henri Bergson?

L’Evolution créatrice è certamente un libro fondamentale. Non è che io mi sia rifatto molto alla teoria di Bergson, ma sia Matière et mémoire che Evolution créatrice sono due concetti fondamentali. Il relativismo di Bergson, il problema del déjà vu per esempio, è fondamentale in Bergson; ma anche la sua concezione del tempo credo sia un dato ancora oggi accettabile. In un certo senso mi è più vicina una filosofia come quella di Bergson che quella di Martin Heidegger tanto per fare il nome principe più amato e più detestato dei nostri tempi. Ma il suo tempo, Sein und Zeit, mi soddisfa molto meno del tempo bergsoniano.

In passato hai centralizzato l’attenzione su Bosch (1953) e Dürer (1958). Perché proprio questi due artisti? Sono legati tra loro da un qualche pensiero di fondo?

Parlare di questi due miei “peccati” di adolescenza è sempre un po’ difficile, anche perché allora ero agli inizi della mia attività critica. Era un caso che mi fosse stato proposto di fare questi due volumetti della collana di Mondadori. Li ho fatti con molto interesse perché era la prima volta in cui studiavo, da vicino, due artisti del passato: cosa che poi non ho mai più fatto. Ma la ragione credo che sia abbastanza facile. Bosch, in fondo, rappresentava il non plus ultra della fantasia e del surrealismo ante litteram nell’antichità. E non solo. Bosch mi affascinava anche per tutte le sue relazioni con l’alchimia, con i tarocchi, con queste nozioni diciamo, tra alchemico e misteriosofiche, che mi hanno sempre interessato. Per cui rappresentava una sorta di padre della misteriosofia. Dürer. Anche in Dürer c’era questo aspetto misterioso. In fondo il modo in cui lui si poneva di fronte alla prospettiva per esempio, di fronte alla Melanconia, coi simboli relativi di melanconia di Saturno, quindi di questioni astrali o astrologiche; era anche questo un problema che mi interessava allora moltissimo perché mi ero interessato molto di astrologia, di tarocchi e di questo sostrato occulto nell’opera d’arte dell’antichità e quindi anche in quella presente.

Il disegno industriale e la sua estetica (1963), poi mutato in Introduzione al disegno industriale (1972) sposta fortemente la riflessione nel campo delle arti applicate. In questo ambito di studio rientrano, ovviamente, anche le tue riflessioni sulla moda. Ecco; c’è un rapporto di continuità tra questi suoi interessi con le teorie della Bauhaus?

Qui siamo in un territorio diverso da quello dell’occultismo e dell’esoterismo. Difatti siamo nell’attualità più determinata e determinante. Ora, io mi sono occupato precocemente del disegno industriale e sono stato tra i primi a prenderne coscienza anche, diciamo, scientificamente; perché mi pare che sia uno dei versanti più importanti dell’arte di oggi. Insomma, quel versante dove tutto l’aspetto tecnologico, scientifico, economico del presente trova un suo quoziente estetico. Per questo mi pare che lo studio del disegno industriale, come del resto della moda, sono proprio quei punti dove c’è un incontro e un incrocio tra l’arte intesa in un senso ideale, idealistico e quindi irrealistico, e invece una coscienza della società dei nostri giorni, coi suoi pregi e i suoi difetti, dove però anche l’elemento artistico ha una sua indispensabile presenza.

Gillo, quanta importanza può avere oggi lo “spirito comunitario”, l’alleanza, l’idea di gruppo di lavoro che animava, ad esempio, il Bauhaus?

Dopo il Bauhaus che ha avuto l’importanza che sappiamo direi che questo concetto di scuola, anzi, di alta scuola delle arti, è stato molto meno importante. Oggi abbiamo una decadenza delle Accademie e invece abbiamo una maggior coerenza dei Politecnici. Per cui credo che quel tentativo di unificazione di tecnica e arte, che è stata in fondo alla base del Bauhaus, oggi sia meno necessaria. Ossia credo che l’arte sia di nuovo più svincolata da questa necessità tecnologica e scientifica. D’altro canto abbiamo tutti i nuovi mezzi a disposizione dell’uomo, tipo elettronici, internet, computer, video eccetera, che non hanno più bisogno di avere quella iniziazione che era indispensabile all’epoca del Bauhaus. Il bambino, ad esempio, manovra il computer ancor prima d’imparare a leggere; e quindi è una cosa talmente radicata nella personalità odierna che non è più qualcosa di estraneo com’era all’epoca del Bauhaus. 

Da un punto di vista più strettamente filosofico il tuo pensiero analizza la cultura come Weltanschauung cui coadiuvano fattori allegorici, simbolici, fantastici, mitici. Dopo Simbolo comunicazione consumo (1962), Nuovi Riti Nuovi Miti (1965), L’estetica del mito (1967), reputi ancora oggi, forte, nella nostra società la sfera magica?

Sì. Questi argomenti mi hanno molto interessato. E credo che ancora oggi il pensiero magico abbia un’importanza proprio direi addirittura sociale. Naturalmente è molto pericoloso dare molta importanza agli aspetti puramente scandalistici oppure falsamente esoterici; questo direi che vada scartato. Ma il fatto che alla base dell’attività artistica ci sia questa specie di inconscio collettivo, se così possiamo chiamarlo, credo che sia molto importante. Insomma il mito anche oggi deve essere alla base di molta creazione.

 

Hai detto che L’intervallo perduto (1980) è stato il libro che ti ha dato maggiore soddisfazione. Anche se ti aspettavi una più ampia divulgazione. Ora, l’intervallo è da te inteso non solo come fase intervallare di tutto il suo discorso sull’arte, sulla produzione artistica e sulla critica d’arte, ma anche come simbolo di totalità d’un pensiero legato a delle dominanti necessarie. D’altronde l’intervallo è importante per una giusta pausa riflessiva. Sappiamo che, in un certo qual modo, abbiamo perso quell’intervallo necessario: pertanto dove siamo diretti, secondo te, al tempo d’oggi? Dov’è diretta l’arte, e dove la critica d’arte? E quale potrebbe essere la novità, «la situazione di novità» in grado di garantire appunto il “nuovo”?

Mi fa piacere che tu abbia sottolineato questo libro. Per fortuna è stato ristampato. Io tengo molto a questo libro e, anzi ho intenzione di pubblicare alcuni altri saggi dove cercherò di sviluppare questa questione del rumore. Il rumore non soltanto nel senso del traffico, ma nel senso appunto di quello che ci impedisce la comunicazione anche da un punto di vista della teoria dell’informazione. Rumore è l’opposto del messaggio. Mi pare che proprio una delle basi negative della nostra epoca, sia un’obliterazione comunicativa dovuta alla mancanza della pausa e dell’intervallo. Per cui siamo sopraffatti dal rumore.

Angelo Trimarco dedica una parte d’un suo recente libro, L’arte e l’abitare (2001), al tuo percorso critico, soffermando l’attenzione su alcuni termini del tuo vocabolario teorico. Trimarco avvisa, precisamente, che nel tuo avanzare nel campo della critica “fra le altre, alcune parole si fanno largo: consumo, comunicazione […], kitsch, conformismo, feticcio, fatti e fattoidi”. Di quest’ultimo termine dice: «(fattoide è una bella invenzione linguistica, non c’è che dire)”. E continua ancora scrivendo che (conviene citare per esteso) “ci sono ancora altri termini” nel vocabolario di Dorfles che meritano attenzione: artificio, entropia, asimmetria. E ancora Barocco. Da questo spoglio, rapido e frettoloso, non scarterei neppure preferenza. Meglio se usata al plurale: preferenze. Appunto, preferenze critiche. In conclusione non si dovrebbe dimenticare il termine intervallo. Perché intervallo è snodo cruciale per le arti e per la critica”. Ti andrebbe di parlare un po’ della tua terminologia? Di quei neologismi che hai utilizzato per dispiegare alcuni pensieri?

Mi fa piacere che tu abbia individuato questa caratteristica che praticamente nessuno ha mai messo in evidenza. Personalmente ho dato sempre molta importanza ai titoli dei miei libri appunto Artificio e Natura, Simbolo Comunicazione Consumo. Nel titolo c’era già tutto. Questo, ad esempio, per Simbolo Comunicazione Consumo è indubbio. Questa che io chiamavo trinità dei nostri tempi era già tutto quello che conteneva il libro. Lo stesso per il fatto “proaieretico”, cioè la preferenzialità; anche questo mi pareva una cosa molto importante perché era legato, in parte, alla teoria dell’informazione ma anche legato a quei concetti humeiani della novità e della facilità, la facility e la novelty, un altro problema che mi ha sempre molto interessato e che non ho mai capito perché sia stato così poco sottolineato. È un fatto che io invece reputo fondamentale perché nella fruizione e comprensione dell’opera d’arte il dilemma tra novità e facilità sia appunto fondamentale per la comprensione. Una cosa che mi pare fondamentale ripeto, ma che in fondo non è stata sottolineata. Né presa più in considerazione dalle varie critiche che ho avuto di questo mio libro Simbolo Comunicazione Consumo. Prima accennavo al fatto che ero stato poco contento del riscontro che aveva avuto l’Intervallo perduto. Ecco, quando questo libro è stato tradotto in francese ha avuto un suo effetto, tant’è vero che la Sorbonne ha dedicato un seminario a questo libro, L’intervallo perduto. Un seminario dove intervennero non solo persone dell’estetica ma anche dell’informazione. In Italia è decisamente il libro, per conto mio, passato più o meno, inosservato. Purtroppo succede. Succede molto spesso. Anche per una ragione: nei trequarti degli studiosi italiani noi troviamo citati ad ogni pagina Jean Baudrillard, Jean-François Lyotard, Edgar Morin, giustissimamente ma molto spesso non vediamo citati dei nostri autori altrettanto importanti: un Galvano Della Volpe chi lo cita? O chi cita un Enzo Paci? Molti dei nostri migliori saggisti vengono completamente dimenticati.

Trimarco parla ancora di un lavoro, “il lavoro dell’artista” messo da parte per essere protetto. Parla di una “vocazione a fare pittura” “che è, insieme, ‘cosa mentale’, secondo il detto di Leonardo, ma anche sapere della mano”. E ripenso anche a quello che hai detto in un’intervista rilasciata – nel ’90 – a Lea Vergine. E precisamente che, se avessi “dovuto scegliere un mestiere anziché una professione”, senza dubbio, avresti fatto “il falegname”. Ecco: quanta importanza dai alla manualità e dunque al lato tecnico del processo che porta all’opera d’arte?

Io presto molta importanza a questo problema fattuale e anche diciamo pure manuale persino nell’opera d’arte. Proprio oggi in cui abbiamo i nuovi mezzi che ci permettono di creare dal niente, e col niente, ossia senza nessun intervento diretto, credo che sia importante un recupero di questa presenza della traccia umana nell’opera d’arte. Questo non significa screditare i nuovi mezzi comunicativi, per esempio attraverso il computer possiamo creare delle opere grafiche che non si potevano creare prima. Quindi è ovvio che ogni nuova tecnica permette nuovi tipi di creazioni però credo che l’intervento diretto dell’uomo sia che si serva del suo corpo, della sua mano, sia che si serva dei mezzi, è fondamentale.

Un’ultima domanda. Molti studiosi e giornalisti ti hanno proposto domande su questa tua “vocazione” pittorica; un percorso parallelo ma distante rispetto a quello critico. Perché questa separazione netta?

Credo che sia un minimo necessario. Credo che le due cose siano distinte. Io non pretendo di saper criticare la mia arte per cui dipingendo abbandono la mia veste di critico. D’altro canto, criticando l’opera altrui, io devo disfarmi completamente da quelle che sono le mie preferenze e tendenze pittoriche perché non potrei giudicare in maniera obbiettiva. Certo, non è mai possibile essere completamente obbiettivi però io credo di essere riuscito a vedere sempre il lato positivo dell’artista che studiavo o criticavo.

(il ricordo è stato pubblicato originariamente in «exibart.com», il 7 marzo 2018; mentre  l’intervista vide la luce in Quaderni d’Altri Tempi, no. 12, marzo-aprile 2008)