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Punti di sutura, nel vuoto spinto

«Noi apparteniamo a dei dispositivi e agiamo in essi»
Deleuze

  1. Il corpo glorioso, la piombatura

Come forzieri inespugnabili che però mostrano il potere magnetico del loro tesoro mediante una trasparenza disarmante, i corpi ermetici realizzati da Claudia Giannuli in questa sua nuova personale rappresentano tutto quello che si può dire quando alle parole si toglie la voce. Sono organismi solitari, murati in una torre d’avorio dove non ci sono mancanze biologiche ma assenze dialogiche e dove ogni tipo di rapporto sociale è sgretolato, frantumato, polverizzato, ridotto a ricordo sbiadito. Giannuli muove dall’idea che il corpo umano sia prima di tutto aristotelicamente il mezzo con cui facciamo conoscenza del mondo (ci appropriamo del mondo) e ci rapportiamo con l’altro all’interno della comunità: è un luogo politico che funge da adattatore a situazioni sociali e da catalizzatore di energie il cui grado di coscienza porta a emancipazione interpersonale, a empatia, a partecipazione emotiva. Con questo suo percorso scandito in cinque tappe Giannuli smonta ora la periferia del corpo e al distanziamento prolungato sostituisce l’occupazione di spazi vuoti (gli spazi del sentire) riempiti, otturati, resi inaccessibili da interventi metaforici d’urgenza che sono anche interventi estetici (linguistici) su un corpo che da cassa di risonanza e da specchio d’apertura all’altro diventa luogo di clausura, ambiente a reparto stagno.
Ma dov’è questo corpo che non si vede se non in alcuni impianti video di stampo strettamente (volutamente, strategicamente) didascalico disseminati al secondo piano del museo e che appare nella distratta forma di un avatar femminile (roseo e gommoso e laccato e sbiadito) nella sua imperfetta perfezione di essere trascendenza o rappresentazione del corpo, sembiante costretto in un nulla (in una lontananza astratta) che è l’immagine racchiusa e proiettata mediante il video?

Il corpo in questo suo nuovo discorso è soltanto immagine riflessa del corpo dell’ipotetico spettatore che inciampa su lastre di vetro, che può guardare ma non addentrarsi, che può percepire la spigolosa divaricazione: e se davvero se c’è un corpo, questo corpo è ora soltanto una teca cristallina, un riquadro geometrico, un riparo dentro il quale mostrare brandelli di vita, paesaggi naturali elettroaddomesticati da una luce rosea che palesa una sorta di coltivazione indoor e definisce le linee generali di una serra, di uno sbarramento, di un restringimento e di un riavvolgimento in se stessi. Ecco che la spietata topia fatta di carne e sangue e ossa nel chiudersi ermeticamente a riccio paradossalmente esplode, si moltiplica e replica in cinque contenitori che accolgono al loro interno la diversità di scenari vitali: emblemi di differenza, di complessità, di alterità.
Nel diventare teca, vetrina che permette l’accesso ridotto e apparente dello sguardo (proprio come accade quando si è di fronte a un monitor dove non si può pretendere di prendere la barretta di cioccolato dal televisore come fa il piccolo Charlie nel romanzo di Roald Dahl), il corpo è ridotto dall’artista a cosa, a contenitore immobile da cui traspare l’inerzia, la spossatezza di essere in attesa, in un forzato lockdown.

  1. Gli oggetti di turno, le protesi

In queste cinque teche realizzate come terrari e acquari, ognuno dei quali ha una identificazione particolare (uno acquatile, uno con natura arida, uno con natura più florida e accecante, uno con funghi e muffe del sottobosco), sono custodite, o meglio conservate come reperti, sette manufatti che corrispondono alle principali brecce del corpo verso l’esterno. Dalle forme apparentemente innocue e attraenti, queste cinque stazioni dello sguardo presentano a pieno titolo la forma di gioielli floreali legati all’oreficeria tarantina del III e II secolo a.C., in particolare alla Corona a foglie di quercia e al Diadema fiorito conservati al Marta, o anche ad alcune condizioni che hanno portato la Controriforma a emanare il De invocatione, veneratione et reliquis sanctorum et sacris imaginibus e la Congregazione del Concilio di Trento a oscurare (con decreto del 21 gennaio 1564) le nudità michelangiolesche della Genesi e del Giudizio Universale: «le pitture nella Cappella Apostolica vengano coperte, nelle altre chiese vengano invece distrutte qualora mostrino qualcosa di osceno e di patentemente falso». Ma a ben vedere l’innocuità di questi oggetti è solo il pulito travestimento di un pensiero disincantato che si curva lungo un orizzonte riflessivo in cui si perde ogni traccia di benevolenza e si espleta invece un’intera gamma di πρόϑεσις, di oggetti che possono essere utilizzati per porsi davanti ai sensi per guastarne o ottunderne il corretto funzionamento. Giannuli trasforma così il semplice e docile ornamento in qualcosa di offensivo e invasivo, di correttivo e punitivo, per spingere il discorso lungo un sentiero in cui gli organi sensoriali che ci mettono in relazione con l’esterno vengono definitivamente mortificati e rendono visibile l’alienazione, l’inefficienza, l’isolamento coatto. Con le loro splendide e smaglianti forme ambigue che tessono costantemente elementi naturali a elementi culturali, queste sette preziose gioie sono chiavi d’accesso che diventano velenose toppe di blindatura, oggetti di piacere corporale e assieme di dispiacere, segni e segnali di un allarme che edifica una costante armatura difensiva e rompe definitivamente la diaspora fisiologica che appartiene al mondo contemporaneo dell’arte.

Claudia Giannuli scorre il vocabolario dell’ornamento femminile e, assecondandone i flussi, lo intreccia a quello della gogna (o anche della tortura) riprendendo, ad esempio, la storia di Bessie Tailiefeir (prima donna ad essere punita per pettegoleria) il cui nome è legato alla mordacchia o anche scold’s bridle: a una museruola composta da una sorta di casco di ferro che serviva per intrappolare la testa della donna e da una piastra che veniva inserita in bocca per bloccarle la lingua. Il suo è uno spostamento lineare (un attraversamento, una teoria dinamica della causazione) che parte dalla briglia della vergogna e via via risale lungo la dorsale del pensiero dove segnare le tappe dell’oggetto punitivo e dell’oggetto con funzione correttiva estetica (l’apparecchio ortodontico) o anche dell’oggetto preventivo (il bloccautero teorizzato dal neurologo Jean-Martin Charcot nell’Iconographie photographique de la Salpétriêre con lo scopo di soffocare l’isteria femminile nella Versailles del dolore), per dar vita così a una vivacità e velocità di movimenti psicologici che lasciano chi guarda sempre sul filo del rasoio e che, a luci alterne, fanno vedere il gusto del fregio e dello sfregio, della guarnizione e del castigo.
Realizzati tutti in terracotta bianca smaltata con finitura a terzo fuoco che rende la superficie vitrea, piacevolmente perlacea, questi gioielli nell’idea dell’artista si sono però evoluti per trasgredire, svincolarsi dal loro naturale assetto servizievole e diventare attrezzi di comando, astiosi e inespugnabili, il cui scopo è definire al meglio ogni forma di congelamento comunicativo con una sorta di autoerotismo (assecondato dal loro aspetto formale) che erode e corrode, che lascia il passo al tempo deprimente della vetrinizzazione sociale e alle dinamiche, sempre più incalzanti, dell’esibizionismo vuoto e appiccicoso e ampolloso.

  1. La rasoiata sugli occhi, l’esposizione

Nell’organizzare questa esposizione Claudia Giannuli disegna un itinerario che a pieno titolo diventa dispositivo, area in cui si percepisce una costante stasi e contestualmente un cambiamento determinato esattamente dai sette video collocati negli appositi vani realizzati illo tempore per ospitare gli apparati di approfondimento del MArTA e in cui è possibile ora percepire piccoli movimenti, rotture di rigidità nella salda e sadica plastica di una immagine che si proietta identica a se stessa e che a tratti abbandona la difesa della rigidità per cambiare di posa. L’artista assume in questa fase l’andamento dell’apertura per esporre con maggiore vigore e determinazione il senso di clausura: entra nell’idea di svolgere il racconto – di mostrare il proprio racconto – seguendo la multilinearità dell’insieme, l’apertura all’aperto dello spazio chiuso del museo. Lo fa prima di tutto scegliendo come titolo Silent Spring per richiamare in causa il romanzo pubblicato da Rachel Carson nel 1962 (volume che rappresenta l’incipit del movimento ambientalista), poi per evidenziare l’importanza socratica del prendersi cura dell’altro e del prendersi cura dei luoghi per prendersi cura di sé. In quanto fenomeno sociale e culturale, l’esposizione diventa dunque per l’artista un macrocorpo glorioso che evita di chiudersi in un compartimento stagno, che sfugge all’autarchia assoluta, necessitando di continue sollecitazioni e interazioni che ne garantiscano il costante e mutevole rinnovamento interno dettato dal passo dello spettatore. Qui entra in gioco anche l’idea di concepire il disegno come un grande racconto che fa brillare l’altro e l’esterno con una luce accogliente in cui si scorge lo schizzo dell’attuale che, seguendo il dettato di Deleuze, rappresenta l’«Altro con il quale già coincidiamo».
Una ulteriore sollecitazione l’artista infine la trova nella lettura delle note sull’Ecofemminismo scritte da Tara Londi il 14 ottobre 2020, in cui l’autrice mira a rovesciare la maledizione di Adamo. Usando a proprio vantaggio questa visione, Giannuli concepisce la mostra come una grande nutrice protettiva (e da proteggere) in cui natura e cultura lavorano lungo la bava di una solida orizzontalità e la forza della donna impone la sua grazia per farsi luogo del richiamo, del dialogo, dell’apertura alla communitas.

Claudia Giannuli, Silent spring

 

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