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Clara Borghesi intervista Donato Loscalzo

Lucano di origini, Donato Loscalzo è docente di Lingua e letteratura greca presso l’Università di Perugia. Si è interessato prevalentemente di lirica greca e in particolare di Pindaro e del teatro classico. Ha alternato gli studi classici all’interesse verso la poesia che ha frequentato da giovane. La sua prima silloge, Aspetti d’esistenza, risale al 1980 e racchiude piccoli testi composti dai sedici ai diciotto anni, mentre nel 2001 pubblica una raccolta di poesia: Memórias e outras histórias em versos diversos (Lisbona 2001), con testo a fronte e traduzione portoghese curata da S. Fadda. Predilige la narrazione di piccole sequenze quotidiane, anche scontate, quando diventano però occasione di riflessione, di smarrimento e di ricerca di senso. Il “senso”, accolto solo come desiderio di ancorarsi a una realtà mutevole e precaria, trova nella poesia una dignità esistenziale e recupera un sentimento anche religioso, quello della speranza. Ha pubblicato una trilogia, dal 2015 al 2018: L’amore, invece, che tratta dell’amore come ossessione che accompagna ogni fase della vita dell’uomo, anche nei momenti in cui sembra essere una pulsione marginale; poi Lunario interiore, incentrato sulla percezione del tempo, inteso nella sua ciclicità, come manifestazione di una consolazione e di una escatologia che nel cristianesimo ha trovato una sua definizione religiosa; infine Bastano i Sassi, una silloge dedicata ai temi e alle declinazioni della memoria, alla fugacità della vita umana che lascia segni indelebili solo su una materia che appare meno intelligente e duttile, come sono le pietre, le quali preservano tracce umane, scritte, date, memorie. Nel 2018 ha pubblicato con la casa Editrice Di Felice Dietro l’Estate, una raccolta dedicata a due temi: la nostalgia di una “vacanza”, o meglio di un’epoca ancestrale felice (un Paradiso perduto) che accompagna ogni gesto quotidiano, e la disperata ricerca di risposte definitive. Se la poesia a volte si rivela come una risposta possibile ai grandi quesiti, alla fine essa s’incarna in una domanda, o meglio in una delle tante domande impossibili, e che, proprio perché impossibili, costituiscono lo stimolo costante alla ricerca individuale e, più in generale, alla letteratura. È autore di libri di fiabe, tra cui Fiabe umbre ritrovate (Perugia, con xilografie originali di M. Leboroni), Gatto in fabula (Assisi 2000) e Le fiabe dell’Umbria (Orvieto 2013).

In una cornice come questa, che vede l’ambiente al centro della riflessione poetica, vorrei partire proprio dalla terra, anzi, dalle sue due terre: la Lucania e l’Umbria. In cosa sono simili, in cosa diverse, e come vengono diversamente (o similmente) trasfigurate nella sua poesia?

Appartengo alla Lucania che rappresenta per me i due raccordi di un ponte che è l’Umbria. Quest’ultima è la terra di passaggio, la terra che attraverso ogni giorno e che costituisce lo scenario delle mie riflessioni. È la terra di Francesco e dei boschi, una sorta di cuore ferito dal Tevere che la divide in due, in due parti distinte, in due diverse tradizioni (gli Etruschi e gli Umbri), due diversi dialetti, due diversi modi di considerare la Natura stessa. Dalla parte degli Etruschi essa appare come alimento e sostegno dell’uomo, dall’altra come luogo di protezione e di vita ancestrale. Chi attraversa il Tevere da parte a parte ne avverte subito la differenza già nei dettagli, più che nella sostanza. A una lettura approfondita coglie i diversi modi di due popoli “rivali”, che si scontravano cioè da una “riva” all’altra del fiume. Una complessità simile la ritrovo nella mia terra di origine, la Lucania, che considero come le due basi di appoggio del ponte, l’imbocco dove vive la mia memoria (i boschi di Accettura, il mio paese di origine, i fiumi magri, le fiumane che si alimentavano solo in autunno e inverno) e dall’altra l’approdo che non è quasi mai reale ma è il miraggio della speranza, il luogo del ritorno, il non-luogo magico dove si neutralizzano le mie angosce e le mia paure. La Lucania è, sostanzialmente, una mia proiezione, la topografia del procedere dei miei sogni e della mia immaginazione. Con i suoi cerri i suoi precipizi, i lunghi tratti incontaminati o abbandonati del paesaggio argilloso e lunare dei calanchi, con le improvvise condensazioni di macchie verdi e l’alternanza di ampie radure quasi sempre secche, è un po’ il percorso della mia esistenza, una grammatica interiore che trova in questi paesaggi verdi e brulli la sistole e la diastole del mio errare.

Ha iniziato a scrivere in giovanissima età. Com’è nato questo impulso, e perché proprio verso la scrittura poetica? E com’è cambiato nel corso del tempo il suo rapporto con la poesia?

Ho cominciato a scrivere da giovane. Avevo ricevuto in regalo un’agenda per i miei sedici anni, un’agenda rivestita in pelle che regalavano le banche ai loro correntisti. E lì cominciai ad annotare quasi quotidianamente pensieri molto brevi che risuonavano alle mie orecchie di andamenti prosodici spesso involontari, non ricercati. Non sapevo neanche dare un nome a questi pensieri che annotavo quasi quotidianamente. Avevano tutte un interlocutore (talvolta il mio “lettore interno”) al quale descrivevo segmenti del paesaggio lucano, le frane del terreno argilloso, la vastità di querce secolari, l’orizzonte lontano che portava verso il mare.  Da allora la mia poesia si è solidificata in questo trinomio: un paesaggio raccontato a un tu che spesso cambia profilo, per cercarne un significato. A volte sono testi brevi che si presentano come una richiesta disperata di dare un senso, un senso provvisorio, a quello che vedo. Credo che solo la poesia, più che la scienza, possa orientarci in questo bisogno di significare ciò che viviamo e che ci accade. Basti leggere le poesie più belle che l’umanità abbia scritto che sono per esempio i Salmi. Per ritornare alla mia arte versificatoria in itinere, mi resi presto conto di provare una certa soddisfazione nell’appuntare queste riflessioni nei segreti di quel primo “diario”. Molti erano in versi endecasillabi. Era la mia stanza privata e sin da allora ho sempre provato un certo piacere a scrivere, una sorta di consolazione, quella che mi regala l’ingresso in un mondo autentico e tutto mio. Ho avuto poi varie fasi. Spesso mi sono vergognato di me stesso, ma poi ho deciso di liberare tutta questa materia, darla in pasto agli amici prima e poi ai lettori sconosciuti, senza mai la pretesa di renderla letteratura. Vuoi che ti riporti i primi versi (mai pubblicati) che scrissi? “A volte si muore per le proprie ragioni / a volte per le ragioni degli altri si vive”.

Lei è anche docente di Lingua e letteratura greca presso l’Università di Perugia. Quanto ha inciso lo studio della lirica greca nella sua produzione letteraria? In un suo saggio, Saffo, la hetaira, lei si muove con uno sguardo al tempo stesso letterario, storico e antropologico sul mondo di colei che è considerata la poetessa d’amore per eccellenza.

Saffo ha inventato il linguaggio d’amore, ha sperimentato la metafora per raccontare qualcosa di inesprimibile come questo sentimento poliedrico, cogliendone le sue diverse evoluzioni e angolazioni. Per noi oggi è scontato parlare di “tempesta” o di “vento” d’amore, è quasi scontato descrivere i segni fisici dei turbamenti d’amore. Saffo lo ha fatto per prima, servendosi del linguaggio quotidiano, delle parole più semplici e usuali per rappresentare qualcosa di profondo e allo stesso tempo incomprensibile. La sua grandezza ha permeato tutta la cultura occidentale, basti pensare che già Socrate la riconobbe come sua “maestra d’amore”. E aveva ragione. Dal Romanticismo in poi abbiamo sottovalutato la portata dei sentimenti che l’amore in primo luogo rappresenta. Si tratta di ciò di cui ogni giorno dobbiamo rendere conto a noi stessi. È il confronto con le attese che nutriamo verso chi ci sta accanto, e che spesso sono smentite, che diventano per noi ferite di abbandoni e ci portano nel panico. Sono la presa d’atto del mutare del sentimento non solo negli altri ma anche in noi stessi. L’amore può essere l’anticamera della disperazione, basti pensare a quanti insuccessi (dai rapporti amorosi, a quelli famigliari o anche a quelli di lavoro) la nostra psiche deve far fronte nell’arco di un’esistenza.

Torniamo al discorso della terra, più propriamente ai sassi: in Bastano i sassi del 2017, si percepisce forse qualcosa di animico nella materia inorganica, come i sassi, le pietre?

Bastano i Sassi è forse la mia silloge più apparentemente semplice, ma che voleva essere una riflessione sui paesaggi della memoria. I Greci mi hanno insegnato che di là dalla consolazione che offrono la religione e la fede nella sopravvivenza dell’anima, ci sono sempre altri tentativi messi in atto da noi per conservare un ricordo del nostro passaggio in questo mondo. Siamo ossessionati dall’idea che la nostra vita possa finire in un nulla, in una mancanza di eredità, e per questo ci ingegniamo a lasciare qualcosa, un insegnamento, dei beni materiali, degli oggetti d’oro, che rappresentino il segno della nostra presenza e della nostra sopravvivenza. In realtà, studiando le civiltà antiche ho notato che ciò che sopravvive più a lungo è ciò che si incide sulla materia immobile, e per noi ignobile, della pietra. Non è solo la poesia a sopravvivere, come diceva Foscolo, ma sono anche quelle tracce materiali che non fanno da supporto più duraturo alla nostra memoria. Siamo al paradosso. Spesso ciò che è marginale e inconsistente rimane più a lungo del miracoloso prodigio delle macchine più sofisticate. E una di queste è proprio l’uomo.

L’ambiente si connota temporalmente, in definitiva: da una parte la ciclicità delle stagioni dall’altra la quasi immortalità degli elementi inorganici. Come si combinano questi due aspetti nelle sue raccolte poetiche?

Il ciclo delle stagioni, il mutare della natura intorno a noi, fornisce uno spettacolo che ha del religioso: il tempo che riporta con una cadenza più o meno fedele i colori nuovi, i sapori, i frutti della terra. È un rituale che ho cercato di raccontare nella sua primigenia essenza di conforto sia in Lunario interiore, sia in Dietro l’estate. Nel primo caso vi ho colto la dimensione religiosa del calendario che noi abbiamo interiorizzato da secoli, per cui aspettiamo la primavera come tempo della rinascita, o la libertà che l’estate comporta con i suoi viaggi e le sue evasioni, la introversione dell’autunno o la dimensione famigliare e protetta dell’inverno. Sono archetipi che la religione ha insegnato a scandire e dai quali non sono immuni neanche gli atei (che spesso mi fanno gli “auguri” a Natale o a Pasqua). Bastano i Sassi è, invece, il risvolto opposto dell’ambiente inteso non nella sua mobilità confortante, ma nella sua staticità promettente, come deposito di memorie, di lapidi, di case, di segni del passaggio dell’uomo. Il problema è che spesso questo passaggio risulta inquinante e controproducente non solo per la memoria e per l’ambiente, ma per l’uomo stesso.

Se dovesse sintetizzare il significato e il valore della parola ‘ambiente’?

Credo che l’ambiente non sia qualcosa di esterno a noi e che dobbiamo preservare per un dovere etico verso le generazioni future. L’ambiente rappresenta le propaggini della nostra esistenza, è il luogo interiore dell’epifania del divino che è in noi stessi. Noi siamo l’albero che ci ha fatto ombra, o che ci ha riparato dalla pioggia, il mare che ci ha bagnato, il sole che ogni mattina celebra il sorgere della vita. Noi siamo la rugiada del mattino, per esempio. E non solo perché l’ambiente è metafora della nostra vita ma perché è dentro di noi. Chi ha visto l’alba tra le dune del deserto ha capito cosa sia la ciclicità della vita, il ritmo alterno del giorno e della notte. Nessun trattato filosofico, nessun grande poeta è in grado di allargare la coscienza dell’uomo quanto l’osservazione dell’ambiente che ci circonda.

Nella poesia Operaio del verso (Dietro l’estate) dice: Continui a non capirmi, lo ripeti / Che parlo strano e cerco rime nuove. Visto lo spazio che dedica alla memoria, ritiene che queste rime nuove possano avere anche una qualche funzione sociale o sono destinate a non essere comprese? E dunque può esserci un rapporto tra memoria e salvaguardia dell’ambiente?

Una poesia che non ci faccia guardare con occhio nuovo il volo degli insetti, o non ci faccia ascoltare con orecchio più attento il chiacchiericcio di un fiume è, per me, poesia inutile. È questa la vera memoria. Il ricordo della vita che ci circonda e la capacità che la poesia ci dona nel prenderne coscienza. Siamo qui grazie alle api che sanno darci il miele e impollinare i fiori. I poeti dovrebbero fare lo stesso, celebrare il processo della vita, ricordare ogni giorno che quello che vediamo è un’espansione del nostro io, un miracolo da preservare, anche nelle sue contraddizioni e nelle sue ferite profonde.

L’intervista è stata realizzata in collaborazione con Sapereambiente

 

 

 

L'autore

Clara Borghesi
Clara Borghesi
Clara Borghesi nasce a Urbino nel 1999. Cresce e si forma a Perugia, laureandosi in Filologia romanza presso l’Università di Perugia, con una tesi sperimentale (relatore il prof. Carlo Pulsoni) incentrata sul lavoro di rimusicazione di cantigas galego-portoghesi ad opera del cantautore galego Xoan Curiel. Da sempre dedita all’arte in ogni sua forma - in particolare il canto e la danza sin da giovanissima -, dopo l’università decide di dedicarsi totalmente alla sua passione più grande: la recitazione. È attualmente allieva dell’Accademia d’Arte del Dramma Antico di Siracusa (Fondazione INDA), formandosi ed esibendosi con registi e attori di fama nazionale e internazionale.

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