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Ivo Elies Oliveras intervista Víctor Obiols Llandrich

entrevista en català

Nel prologo della sua edizione antologica (Sol de Lluna ple), Pere Rovira parla di una casa «generosa d’abundància cultural»; mi piacerebbe sapere come questo ambiente familiare l’abbia influenzata nella sua formazione poetica.

È stato un vero privilegio nascere a Barcellona nella casa dei miei genitori: mio padre era uno psichiatra umanista, amante di arte, attivista culturale nei tempi della dittatura, amico di pittori, poeti e musicisti. Mia madre, pianista di acuta sensibilità, apparteneva alla famiglia dei Llandrich, originari dell’Empordà (un bisnonno, il Maestro Llandrich, fu professore di solfeggio di Pep Ventura, il riformatore della sardana, che poi sposò sua figlia, che curiosamente si chiamava come mia madre, Maria). A casa ho conosciuto fin da bambino il poeta Joan Brossa, il pittore Tàpies, il compositore Frederic Mompou, e tanti altri personaggi illustri della cultura catalana. Questo ambiente, insieme alla biblioteca e alla collezione di musica, mi hanno naturalmente influenzato. Quando avevo vent’anni mio padre morì di infarto mentre visitava Salvador Dalí a Port Lligat. L’ultimo regalo che mi fece prima della scomparsa fu un piano, un episodio che ho sempre vissuto come un testamento. Dovevo fare qualcosa con quello strumento, e ho dedicato molti anni a comporre e a suonare canzoni. Penso che si tratti di un’estensione della mia attività poetica.

Quali libri ricorda della sua infanzia?

Non saprei dire quali libri di preciso, ma fin dai tredici anni andavo sempre con le poesie complete di Rimbaud sotto il braccio, come se si trattasse di un vademecum.

«Sentir-me fet en part / d’un altra entranya»: questi due versi fanno parte della sua poesia Pare (Carrer d’hivern, 1983). Grazie alla mostra Art i follia: Joan Obiols Vié, l’anno scorso siamo riusciti a conoscere di più la sua figura: medico eminente, psichiatra di Dalí, amico del poeta Brossa: che importanza ha avuto suo padre nel suo esordio poetico?

Fondamentale: ha voluto pubblicare le mie prime poesie, composte all’età di tredici anni, un’autentica follia. Opus zero (1974), però mi è servito per imparare a lottare contro la fretta di pubblicare in continuazione, e allo stesso tempo mi ha consentito di conoscere i giovani poeti del momento, fra cui ero ovviamente il più giovane. La prima condizione per avviarsi nell’infinito apprendimento della poesia e quello di crederci. Come l’insetto stecco che si camuffa nell’albero, che forse imitando e imitando – con un po’ di fede – riesce a trasformarsi in un ramoscello, divenendo albero.

Arriviamo agli anni della formazione universitaria. Laureato in Filologia Classica (specializzazione in greco) presso l’Università di Barcellona, è stato lettore di catalano a Bristol (UK) e poi all’Università di Southampton, ha compiuto gli studi di dottorato con una tesi intitolata Catàleg general 1952-1981. Elements intertextuals en l’obra de Joan Ferraté. Qual è stato l’influsso che lo studio costante di questo prolifico traduttore e poeta ha avuto sulla sua produzione poetica?

È stata un’istruzione di primo livello. Joan Ferraté non è un poeta notevole: risulta un eccellente fabbro del verso e un critico poetico molto acuto, nonché teorico di poesia; i suoi testi permettono di approfondire diversi aspetti, ed è inoltre un poeta divertente, qualità da tenere sempre in considerazione. La sua influenza è stata molto importante per la formazione e l’approfondimento di concetti di retorica e poetica. È uno studioso di letteratura, grande lettore e traduttore, e la traduzione è risultata nella mia formazione una vera ‘scuola di scrittura’. Mi ha onorato il cum laude ricevuto nella difesa della mia tesi. Nella commissione c’erano grandi critici di poesia, amanti della cultura catalana e ispanisti, come Arthur Terry, Alan Yates o Henry Ettinghausen.

«Confessa sons agònics, o menteix…» (Cotxe regalat, vida a remolc [Dia 2], a D’un juny dur,). Nella sua opera D’un juny dur (2014), mi è sembrato di osservare una ricerca formale incentrata sul significante: la ricerca di una musicalità dura ed aspra. Come ha declinato questo aspetto nei suoi testi?

Risulta interessante la valutazione. In effetti non invento niente. Mallarmé aveva già consacrato la sua scrittura poetica come un ‘grande magazzino’ di suoni. La concezione che la poesia debba cantare è un’idea ancestrale. Nel prologo dell’opera, Pere Gimferrer fissava l’attenzione sulla ricerca di rime differenti, e osservava come il rimario catalano richiedesse una revisione. Abbiamo accettato senza problemi le rime composte sulle o e sulle e aperte e chiuse, come rime all’occhio, e tradizionalmente ci siamo serviti poco della vocale ‘neutra’ [ə]. È vero che gli stati d’animo che intendevo descrivere in questo libro esigevano un impiego specifico della lingua: non è una lingua amabile, né per il suono né per le immagini. Per qualche aspetto mi sono sentito trasportato verso questo idioma, e credo di essere stato molto cauto; mi risulta molto difficile ‘scatenarmi’, forse in fondo sono molto più apollineo di quello che penso.

L’asperitas presente in D’un juny dur si contrappone alla musicalità delicata delle poesie di Dret al miracle (premio Carles Riba, 2015). I componimenti di quest’opera si contraddistinguono proprio per l’opposto: per un lessico dolce, e per un insieme di testi composti tramite la ripetizione di emistichi e di versi; una poetica che ci trasporta verso alcuni dei tratti particolari della poesia galega: è una mia impressione? A cosa si deve questo cambiamento? Siamo arrivati forse a una nuova tappa più matura?

Può darsi… Questo della poesia galega lo dice per la citazione di Rosalia? In fondo c’è quest’idea atlantica così malinconica e nostalgica, questa saudade – di cui la traduzione enyorança non rende l’idea – qualcosa di sacro, no? Mi stupisce questa sua impressione, ma è vero che si tratta di poesie molto formali, molto elaborate formalmente, che cercano una certa duttilità. Il trittico, in certo modo dantesco, che forma Dret al miracle, è una costruzione artificiale. In effetti, abbiamo sempre a che fare con l’artificio. In certe occasioni palpiamo le parole nel buio. Tendiamo a formalizzare perché è l’unica cosa che possiamo fare. Spesso, non sappiamo nemmeno quello che intendiamo dire, ma alla fine riusciamo a formularlo.

 

Poesia e musica, musica e poesia. Víctor Obiols ha un alter ego musicale: Víctor Bocanegra. Con questo pseudonimo ha pubblicato recentemente Sacrilegis: poemes musicats de clàssics catalans. Di che tipo di antologia si tratta? Qual è l’atto sacrilego che si nasconde dietro ognuno dei componimenti?

Certo, questo lo spiego nel testo del libro che accompagna il CD di canzoni, mettere nuova musica a una poesia risulta in sé un sacrilegio, poiché stai imponendo una seconda musica a quella propria che il componimento già possiede. Chi è il compositore per cucire sopra un componimento una nuova musica? Quale audacia! Quando questo viene eseguita da grandi compositori, il risultato può essere sublime. E, infatti, se osserviamo gli esempi dei lieder di Schumann o Schubert, e qualche composizione di Heine, riusciamo a constatare come la forza musicale di tali compositori oltrepassi quella poetica. Inoltre, nel mio caso sussiste una seconda funzione che posso attribuire a questa operazione (non sono io che devo giudicare la qualità musicale della mia propria antologia, ci mancherebbe…): sedurre l’ascoltatore mediante la musica per far sì che arrivi al componimento poetico e scopra il poeta. Questo l’hanno fatto con ottimi risultati alcuni cantautori come Paco Ibáñez in Spagna, e Leon Ferré, mettendo in musica Rimbaud e Verlaine..

Ritorniamo alle origini. Fra le note presenti nell’introduzione di Opus zero leggiamo che quella pubblicazione giovanile l’ha guarito contro la brama di pubblicare in eccesso. Lei crede che nei tempi in cui viviamo, tendiamo a pubblicare in maniera ‘bulimica’?

Senza dubbio, c’è una saturazione di pubblicazioni, in parte dovuto al fatto che adesso, tecnicamente, risulta molto più facile pubblicare. Adesso ci si può autopubblicare attraverso internet. E lo stesso accade con la musica. Tutti sono in grado di avere un piccolo studio di registrazione a casa. Difatti, i cellulari consentono di registrare con ottima qualità, e la diffusione della musica è totale. È dappertutto, e si può produrre con assoluta facilità. Nella letteratura accade lo stesso. Se questo da un lato può risultare positivo, perché consente a tutti gli autori di pubblicare e condividere le loro opere, può creare d’altro canto un’anarchia pericolosa dovuta alla massa acritica che consuma tutte queste opere senza domande. Adesso inoltre vige il mantra per cui possono coloro che hanno potere di farlo. Risulta necessario educare, coltivare la critica del pubblico per non aderire in maniera superficiale condividere troppo leggermente le correnti del momento.

Nella letteratura catalana contemporanea – come accade nel resto delle letterature di lingue minoritarie – si parla in continuazione di dati numerici, come se fosse importante solamente il numero assoluto di pubblicazioni raggiunte in catalano, il numero di lettori, il numero di libri o saggi scritti da questo o quell’autore. L’interesse per il chi e per il quanto ha come conseguenza il fatto che in molte occasioni non si faccia troppa attenzione al quale e al come, aspetti di rilievo di tutte le letterature. Lei come vede la letteratura catalana attuale?

Mi pare che avessi già cominciato a rispondere alla questione nella domanda precedente. Viviamo in una specie di boom, ci sono molti scrittori e penso che nella Catalogna si produca una letteratura equiparabile alle letterature più prestigiose del mondo; tuttavia, sento la mancanza di voce competenti di critici equanimi e preparati in grado di ordinare tale confusione. Io sono un critico di poesia, ma solo dal punto di vista del lettore-creatore che sente l’interesse di annotare l’effetto che producono le letture appena fatte; ma non mi considero un critico professionista e attualmente ne siamo molto mancanti. Credo che sia importante che coloro che scrivono poesia parlino dei loro contemporanei, e anche dei classici, ovviamente, ma deve esistere anche un corpo di critici che valutino da un altro punto di vista – non necessariamente accademico –, diverso da quello soggettivo che un creatore può apportare nel dibattito.

 

 

 

 

 

L'autore

Ivo Elies Oliveras
Ivo Elies Oliveras (Barcellona, 1987) si è laureato in Storia all’Universitat di Barcellona, ateneo in cui ha compiuto anche il Master in Culture Medievali; adesso vive a Padova, città in cui ha concluso la laurea in Filologia Moderna. Si occupa prevalentemente di letterature romanze delle origini, in particolare di galego-portoghese e di occitano.

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