In primo piano · Interventi

L’altra faccia di un’amicizia. La corrispondenza tra Ernst Jünger e Alfred Kubin

Putredine che scivola per la decrepita stanza;
ombre su gialli tappeti; in bui specchi s’incurva
la tristezza d’avorio delle nostre mani.
Brune perle scorrono per le dita morte.
Georg Trakl, Amen

Kubin. Faccia giallognola, capelli radi e appiattiti sul cranio.
Di tempo in tempo un lampo eccitato negli occhi.
Franz Kafka, Diari 1910-1923

Non si è sognatore solo sulla carta. Anzi io dico addirittura: la fantasia è il destino.
Alfred Kubin, Demoni e visioni notturne

Rammento che durante il nazismo, una volta in cui ero andato
a trovarlo, Kubin mi mostrò una fotografia nella quale si vedeva
una manifestazione di massa con migliaia di persone che acclamavano un oratore.
I singoli partecipanti erano così minuscoli da sembrare senza volto.
Mi disse: «Qui si potrebbero incollare, una vicino all’altra, molte altre copie della stessa foto, all’infinito…».
Antonio Gnoli-Franco Volpi, I prossimi titani. Conversazioni con Ernst Jünger

A Roberto Bazlen ‒  ideatore silenzioso e imprendibile, insieme con Luciano Foà, della casa editrice Adelphi, definito e non definito «uno sciamano travestito in abiti borghesi» ‒ Roberto Calasso ha dedicato un testo particolarmente intimo e intenso, unico, intitolato Bobi, che ha visto la luce il giorno stesso della sua dipartita, il 28 luglio 2021. Proprio in un passo del libro veniamo a sapere che prima della sua morte, avvenuta il 1965, «il cugino Bobi» riuscì a veder pubblicato un testo, a cui teneva particolarmente, da lui descritto come «‘una discesa agli inferi’ […] la ‘liberazione’ di chi subisce ‘lunghi periodi di crisi psichiche’, in un romanzo impregnato dei chiaroscuri di Praga […] città del Golem e degli alchimisti». L’opera era nello specifico il romanzo fantastico Die andere Seite, del disegnatore e scrittore boemo Alfred Leopold Isidor Kubin (m. 1959), dal triestino Bazlen considerato come «il più bel Kafka prima di Kafka».

Unico romanzo di un non-romanziere, avrebbe costituito il primo, mai casuale, ma esemplare tassello della collana Biblioteca dell’Adelphi, progetto epocale collocantesi anch’esso, come scrive Calasso, da «l’altra parte». Come riportava nel suo L’impronta dell’editore (2013), «nulla di simile, nella vita di Kubin, prima di quel momento; nulla di simile dopo. Il romanzo coincide perfettamente con qualcosa che è accaduto, un’unica volta, all’autore».

I due Kafka, Kubin e Franz, si erano difatti frequentati a Praga dall’autunno del 1911 e i Tagebücher di quest’ultimo ‒ dove fra le diverse annotazioni «troviamo spesso rapidi ed incisivi schizzi caricaturali, talora lunghe file di marionette…», disegni inclusi tra gli «scarabocchi» che prima della sua morte chiese invano all’amico Max Brod di distruggere ‒ ne danno più volte pittoresca testimonianza, come in questo passo curioso e non proprio lusinghiero:

Ancora Kubin: Consuetudine di ripetere le ultime parole dell’interlocutore, in ogni caso approvando col tono della voce, anche se dallo sviluppo del proprio discorso risulta che non sia punto d’accordo con l’altro. Ascoltando le sue numerose storie si può anche dimenticare quanto egli valga. A un tratto uno se n’accorge e allibisce. Si parlava di un locale dove volevamo andare e si diceva che era pericoloso; egli disse che non ci sarebbe andato; gli domandai se aveva paura ed egli rispose, tenendomi per giunta a braccetto: «Si intende, sono giovane e ho ancora molti progetti».

Se lo stesso Kubin aveva visto la propria immaginazione colpita dalla Weltanschauung rappresentata nella breve storia del 1919 intitolata Ein Landarzt (“Un medico di campagna”), diversa, più complessa, è la storia dell’amicizia tra Ernst Jünger (m. 1998), il diarista del secolo, e Alfred Kubin. Amicizia che trova la sua origine e collocazione proprio in quel lato opposto da cui le loro stesse straordinarie opere avrebbero avuto scaturigine, in quell’inconscio potente e oscuro del quale lo stesso romanzo era stato, a detta di Carl Gustav Jung (m. 1961), una felice rappresentazione artistica quanto un’imperfetta esperienza umana.

Mancava poco allo scoppio del primo conflitto mondiale, quando ad Hannover, nel 1914, Ernst Jünger vide esposto nella vetrina di una libreria un disegno a penna di Kubin, intitolato Der Krieg (“La Guerra”), del 1907. Tremenda premonizione, pregna di marziale “Ambivalenz”, delle tempeste d’acciaio in cui sarebbe presto maturato lo scrittore tedesco e con lui una generazione intera, tra cui il pittore espressionista Franz Marc, amico di Kubin caduto presso Verdun nell’anno 1916. Come scrive Heimo Schwilk nella sua biografia dedicata a Jünger «l’immagine mostrava il dio della Guerra Ares, un mostro che, agitando la clava, schiaccia, come formiche, un esercito di bandiere e lance. Solo adesso, sulla base della sua esperienza al fronte, gli si chiarisce d’un lampo la qualità profetica del disegno di Kubin, che anticipa la guerra d’annientamento». Orribile catastrofe, quella bellica, verso la quale Kubin, pur rimastone impressionato e profondamente scosso, non proverà nessun “entusiasmo elementare”: come egli scrive «ero fuori dalla mischia». Apparentemente fortuito appare dunque il primo incontro di Jünger con colui che avrebbe definito come «dopo E.T.A. Hoffman, il più grande autore della letteratura fantastica di lingua tedesca».

Proprio Ernst Jünger, in una serie di conversazioni con il mai troppo compianto filosofo Franco Volpi (m. 2009) e Antonio Gnoli dal titolo I prossimi titani, rievoca il suo secondo, fulminante incontro con l’opera di Kubin, questa volta nella forma del romanzo L’altra parte ‒ pubblicato nell’estate del 1909 dall’editore George Müller ‒ o come opinatamente sottolinea il germanista e traduttore Quirino Principe sarebbe meglio affermare L’altra faccia:

Un paio di anni più tardi, di ritorno da una licenza e diretto al fronte, mi fermai a Cambrai per trascorrervi la notte. Era sera, e non sapendo che cosa fare, mi infilai nella libreria militare, che era ancora aperta. Fu lì, rovistando tra i libri ‒ in verità piuttosto scarsi ‒ che mi capitò tra le mani il romanzo fantastico di Kubin L’altra parte. Cominciai a sfogliarlo e vidi che conteneva numerose illustrazioni dell’autore. Lo acquistai, e ricordo che passai l’intera notte sveglio a leggere avidamente il racconto delle vicende di Perla, la città capitale di un regno immaginario di cui Kubin narra la rovina. A Perla non si vedono né il sole né la luna né le stelle, tutto è coperto da un opprimente grigiore. Vi governa sovrano Patera, che pur vivendo ritirato e inaccessibile nel suo palazzo, è presente con il suo spirito in ogni angolo del regno. Finché arriva nella città Hercules Bell, un ricco Americano che scatena una lotta per spodestare Patera. Il loro conflitto, in cui è simboleggiata l’antitesi tra la pulsione di morte e la volontà di vivere ‒ le due forze fondamentali dell’esistenza ‒, causa la rovina di Perla, che Kubin descrive in toni cupi, apocalittici, ispirandosi al celebre dipinto di Bruegel La torre di Babele.

Da quella che definiva come «stazione sperimentale austriaca della Fine del mondo», anche il geniale scrittore e aforista Kark Kraus (m. 1936) aveva descritto il tramonto del mondo asburgico nei termini di un’apocalissi, «come gli ultimi giorni dell’umanità». Come scriverà Calasso, ed ebbe a sperimentare Jünger, Die andere Seite è un «libro che si legge come entrando e permanendo in una allucinazione possente».

Nella sua fondamentale Storia della letteratura tedesca il germanista Ladislao Mittner (m. 1975) sostiene che «l’«altro lato» dell’esistenza è esattamente il rovescio del mondo di ieri». Il romanzo di Kubin, per una figura affascinante e singolare di studioso autodidatta quale Furio Jesi (m. 1980), nel testo intitolato Germania segreta (1967), sarà esemplare al fine di rivelare il rapporto viziato con il passato di una parte della cultura tedesca e quel processo di «tecnicizzazione del mito», nel senso ad esso attribuito dal filologo e storico delle religioni ungherese Károly Kerényi (m. 1973), da cui esso deriverebbe. Mythos che, perduta la sua genuinità e purezza, diviene negativo, assumendo parvenze orride e demoniache per opera di uomini che nel processo di reversione del mito alterano il passato autentico, deformandolo e proiettandovi le proprie malattie allo scopo di realizzare degli scopi che sono in genere principalmente politici. In un tale schema, esemplificato dalla terrifica visione del «vecchio mago di Zwickledt», andrebbe inquadrata a dire di Jesi la stessa vicenda esoterica del nazismo.

La rappresentazione kubiniana, in cui è ravvisabile l’influenza dello scrittore e amico Gustav Meyrink e delle atmosfere del Golem che avrebbe dovuto illustrare ma venne invece illustrato con 25 litografie da Hugo Steiner-Prag (m. 1945), fu piuttosto per Jünger una cruciale chiave fantastica, al fine di comprendere la finis Austriae, «il tramonto di un mondo perduto per sempre, il mondo felice della vecchia Austria e della borghesia guglielmina». Non è superfluo ricordare cosa affermava lo slavista e poeta Angelo Maria Ripellino nel suo mirabile testo dedicato alla città vltavina, quando avvertendovi «un riferimento specificamente praghese» sostiene che «piú che una metròpoli asiatica, Perla, coi cortili ammuffiti e coi neri camini, con le mansarde recòndite, e le scale a chiocciola, e i tetti di legno o di tégole, e la moltitudine di bizzarri comígnoli, è un cittadone da Mitteleuropa». Ancora in una missiva del 4 giugno 1935 a Carl Schmitt, Jünger, che aveva recensito il testo nel 1929, consigliava all’amico la lettura del romanzo rilevando come esso fosse «in rapporti sorprendenti con il nostro tempo; lo leggi come se stessi camminando per le cantine su cui sono stati eretti i nostri edifici».

Le note che Jünger dedicherà all’opera grafica e pittorica di Kubin ‒ in un saggio breve apparso nelle Hamburger Nachrichten il 30 dicembre 1931, Die Staubdämonen (“I demoni della polvere”), l’unico sull’arte mai pubblicato ‒ testimoniano proprio del crollo, seguito all’irruzione delle potenze distruttrici, «dell’Austria che fu». Crollo sintomaticamente accostato al tono di doloroso sfacelo (Verwesung) delle liriche del poeta Georg Trakl (m. 1914), quale uomo appartenente ad un mondo oramai spettrale definito da Claudio Magris al cospetto di «un viandante senza meta, nuvola dispersa dal vento, fiore in attesa d’essere falciato» e morto suicida durante la Grande Guerra. La simbologia adottata stilisticamente da Kubin appare infatti essere una simbologia dell’òbito, del trapasso. Connotata da intrinseca ambiguità, evoca l’idea di disfacimento nei vari luoghi, negli oggetti come nella vita animale e nella sfera vegetale, richiama la vertigine sinistra della sconfitta, il demonico turbamento nel quale la vita stessa delle persone viene colta «imprigionata come in una ragnatela» e i mestieri sono avvolti in «un losco doppio senso». Annuncio d’angoscia mortale di un grosso pesce arenato nella riva:

Nella stessa misura in cui l’ordine diventa dubbio, in cui i panni della festa marciscono e si sbriciolano come miccia fradicia e le convenzioni sociali si trasformano in un grottesco teatro di marionette, strane esistenze accampano pretese di riconoscimento. Suonatori, zingari, giocolieri, oratori popolari, falsi profeti, ciarlatani, tipi da baracconi di fiera, buffoni, domatori di serpenti, saltimbanchi che fanno ballare gli orsi, pazzi, tipi balcanici ed esotici penetrano in città minacciate nello stesso tempo dall’irruzione di forze elementari, primordiali e animali. Terremoti, incendi, alluvioni, eruzioni vulcaniche, potenze torpide e assassine, esseri favolosi, sciami d’insetti e orde di serpenti entrano in scena come organi esecutivi di un’apocalittica fine del mondo.

Siamo di fronte alla fine di un ciclo della vita universale, la quale con riso sardònico decompone le sue vecchie forme. Kubin scrive a Jünger nella missiva del 18 gennaio 1932 di averlo letto «con gioia sincera», sostenendo inoltre che «non avresti potuto fare di meglio».

Non trascurabile in questa visione pessimistica è il debito verso il pensiero di Philipp Mainländer e la sua opera capitale, La filosofia della redenzione (1876), che ebbe un’influenza anche su Friedrich Nietzsche, ma soprattutto quello nei confronti di Arthur Schopenhauer, la cui lettura aveva segnato anche la narrativa di Ferdinand von Saar (m. 1906), scrittore che visse con grande intensità e consapevolezza la finis Austriae. In quanto nel tramonto definitivo di un mondo, quello della borghesia liberale di nostalgica, schnitzleriana memoria, ad essere messi a fuoco sono «i segni della distruzione organica (die Zeichen der organischen Zerstörung)», i quali si collocano ad un livello più profondo e originario rispetto a quello essoterico dei fattori tecnico politici, Jünger non ha dubbi: anche in futuro l’opera di Kubin, opera di scavo, da metalleutes ‒ mossa da una forza motrice enigmatica, «io creo per un impulso oscuro vicino alle concezioni primordiali» aveva egli stesso dichiarato ‒ permarrà alla stregua di «una di quelle chiavi che dischiudono spazi più segreti e arcani di quelli rivelati dalla storiografia». Non a caso era sempre stata la foresta con la sua àura ‒ Wald che nella sua «cupa monotonia ti accoglie misteriosamente, maternamente, donando!»  ‒ piuttosto che le montagne imponenti, i mari e le steppe, ad essere sentita da Kubin come «il paesaggio della mia anima».

Oltre i vari debiti rilevabili, e dichiarati dall’autore stesso, verso l’opera grafica di Klinger, Goya, de Groux, Rops, Munch, Ensor, Redon e Bruegel, sono gli spazi del simbolo a disvelarsi nell’imaginatio kubiniana, nella sua «psicografia». Ma, come sottolinea Massimo Cacciari in un saggio che introduce il testo di Alessandro Nigro intitolato Alfred Kubin. Il profeta del tramonto, di un simbolo colto nel suo movimento kenótico. Ossia bloccato al suo carattere elementare negativo, in cui è piombato e che genera quelle allucinazioni di massa delle quali Kubin, appartenente come scrive Jünger nel suo Diario 1941-1945 a quel «mazzo di autori orientali» che la decadenza hanno saputo potentemente delineare, «è grande visionario». Il simbolo tradizionale ‒ come nei casi della Madre e del Labirinto, o del Nodo ‒ sarebbe dunque irreversibilmente spezzato nella sua struttura, la sua pienezza risultando inattingibile e non valendo più il principio di una rigenerante reversibilità, né l’identità dei contrari. Se nel 1903 Kubin, appellato anche quale “ein österreichischer Goya”, era stato definito da Ferdinand Avenarius un evocatore di sogni, “Traumkünstler”, come ricorda nella sua autobiografia intitolata monen und Nachtgesichte (Demoni e visioni notturne), bisogna rammentare che di sonni infranti si tratta. Siano essi diurni o notturni, entrambi risultano soggiogati dall’irredimibile carattere maligno del simbolo. Ridotto a burattino di una imprevedibile, oscura sostanza-forza, in cui movente e mosso si confondono in una ridda «angosciante perchè insensata», l’uomo è di fatto creatore di un Karneval che René Guénon definiva quale sinistre «carnaval perpétuel» e che Cacciari così riassume:

Poiché il suo periodo non è più in-stante che ritmicamente fa ritorno, Festa, hohe zeit (momento sublime), dove si ri-crea l’ordine tra la creatura e il suo cosmo, il suo generalizzarsi coincide con il crescente panico per la sua insecuritas. Poiché non deve tornare (e i suoi giochi sono caso), esso può sempre cessare. Il sinistro carnevale perpetuo vale come estrema manifestazione del simbolo carnevalesco, ultimo carnevale, figura del suo compimento, secondo l’accezione più ampia del termine. Carnevale che si ‘celebra’ all’ombra di un vulcano, su una terra cui è divenuto impossibile ‘credere’, palude che non rigenera, labirinto chiuso, ostile, pronto a inghiottire masse serpentiformi, masse-insetto, mute di ibridi.

Come «vivo a metà, pieno di vita nel distruggere» l’avrebbe definito criticamente Paul Klee, scorgendovi l’incapacità di evadere dalle intricate maglie del divenire, nelle quali Kubin si sentiva «oppresso dal tracollo del tutto». Ancora Cacciari nel suo Dallo Steinhof comparando L’altra parte con l’opera Auf den Marmorklippen (“Sulle scogliere di marmo”) nota che «la storia non conosce che la via all’ingiù della dissoluzione, e che identica, in Kubin e Jünger, è la descrizione delle forze che la perseguono».

Jünger, non dedicò alla figura di Kubin solo pagine significative, ma cercò di avere un contatto, fino a realizzare di incontrarlo ripetutamente e intrattenere con lui un prezioso epistolario, che sarà pubblicato nel 1975 col titolo Eine Begegnung. Folgorato dalla lettura del romanzo e dopo aver visionato il disegno del 1902 intitolato Der Mensch (L’Uomo), il 21 febbraio del 1921, da giovane scrittore alla ricerca del proprio destino letterario aveva inviato al disegnatore una poesia espressionistica, una delle poche che egli scrisse ad esserci giunta e non finire distrutta, che così recitava:

Sogno, bagliore, diviene Visione, Cristallo,
Questione primordiale, l’Essere si fa Follia, Cataratta:
Uomo Eretto; gettato nello Spazio,
Un uragano nei Capelli, pallido, solo, nudo.

Incavo di Curva infinita, tramonta il Mondo,
Schianto nell’Oscurità, trascendente Slancio,
Grida la Vita, brusca dal Nulla ruggita,
Proscenio per un folle Salto circense.

Tema centrale del loro scambio epistolare, come di un’amicizia, risulta la rappresentazione di un’epoca e del suo inevitabile tramonto. Così scrive Jünger nella missiva del 10 febbraio 1929 anticipando l’intenzione di elaborare un testo:

Nelle prossime settimane vorrei scrivere un testo su L’altra parte, libro assai poco noto, purtroppo, ma da me tenuto in gran considerazione. Partirei innanzitutto dalla Sua capacità di tracciare un’immagine decisiva, quasi sismografica, degli sviluppi della nostra epoca. A tal riguardo desidero citare anche Van Gogh e il defunto poeta salisburghese Trakl.

Circa il testo, rivelante «il punto cruciale di uno sviluppo psichico», Kubin aveva scritto nella sua autobiografia che «mentre lo componevo, maturò in me la convinzione che i più alti valori della vita non fossero contenuti solo nei momenti bizzarri, comici o sublimi, ma che anche le umili cose comuni e disadorne dell’esistenza quotidiana contenessero gli stessi misteri». Egli risponde dunque positivamente cinque giorni dopo, accogliendo la notizia e incoraggiando lo scrittore:

Sono assolutamente convinto che la sua persona sia in grado di mettere in luce, nel testo, i nessi essenziali de “L’altra parte”, scritta nel 1908. Il libro conobbe l’apprezzamento delle menti migliori, senza eccezione alcuna, ma per lunghi anni rimase pressoché ignoto. Nel 1927, l’anno del mio cinquantesimo compleanno, purtroppo era ancora fuori catalogo. Solo lo scorso autunno è apparsa la terza edizione, con un’autobiografia ampliata.

Il tramonto di un’epoca e la sua satirica, profetica trascrizione, cosa per cui Kubin, il 9 aprile 1938, scrive a Jünger «sembra che io sia una sorta di raffinato becchino della vecchia Austria imperialregia», risulta speculare a quello dell’individuo. L’opera del disegnatore per Jünger pare possedere proprio questa valenza, risvegliare in lui questa coscienza:

È sempre un piacere leggere la sua calligrafia, di una valenza fisiognomica per me del tutto affine ai suoi disegni. […] Ogniqualvolta osservo i suoi disegni divengo sempre più consapevole di come l’individuo, nella nostra epoca, sia destinato ad un inesorabile tramonto, pur possedendo un rifugio ultimo, raggiungibile però solo attraverso la morte. (Jünger a Kubin, 19 ottobre 1931)

Kubin risponde, il 19 dicembre 1931, sul tema della decadenza dell’individuo, portando una nota interessante:

Comprendo benissimo cosa intende quando parla del tramonto dell’individuo ‒ il pensiero della morte, da me così spesso rappresentato simbolicamente, in fondo possiede un che di gaio e liberatorio…

Ancora Kubin, artista totalmente apolitico al quale ben poco sembravano dire le estasi politiche, tornava sul tema dell’angoscia, vero e proprio ìncubo, in particolare sulla natura esoterica della sua arte:

Lei conosce fin troppo bene la natura dell’artista per poter anche comprendere come questi, in un certo qual modo, debba essere allo stesso tempo “contemplativo” e creativo, ossia produttivo. Per tale ragione, i problemi socio-politici e politico-culturali mi toccano indirettamente, e non rispettano affatto il mio intimo “segreto”. Fisicamente sto abbastanza bene, ma dal punto di vista psichico, relativo alle mie emozioni, le cose vanno sempre peggio ‒ come se un orribile Alp, alla fine, facesse gravare su di me il travaglio del nostro mondo mitteleuropeo. (Kubin a Jünger, 15 settembre 1932)

Affascinante la nota che Jünger ‒ il quale anche dal fronte elogiava, in un mondo di “reproduzierende Automaten”, l’opera di Kubin ‒ invia a sua volta, il 1 giugno 1943, evocazione della malinconica Perla, asfittico centro del suo romanzo fantastico:

Sovente pensai a Lei e a Perla, la capitale del Regno del Sogno, durante il mio soggiorno nel Caucaso. Là, in quelle città, incontrai la compenetrazione di Europa e Asia, riportandomi alla mente le sue descrizioni. Soprattutto una volta, in un cimitero abbandonato di Stavoprol’, oggi Vorošilovsk, rimasi particolarmente colpito dalla parola interrata “Patera”, scritta in lettere greche, che decifrai su una lapide in rovina.

Kubin aveva precedentemente scritto in una lettera elogiando invece il carattere spirituale della pesca che, quale magico Angler di spettri, ha diverse volte fortunosamente illustrato:

Mi ha rallegrato molto, alcuni giorni or sono, ricevere Sue notizie in forma epistolare circa le esperienze norvegesi del 1935. Non sapevo che avesse visitato anche la Norvegia e ‒ non senza invidia ‒ vengo a conoscenza delle battute di pesca. Ho sempre considerato il “pescare” come qualcosa di mistico, un’attività ermetica rispetto alla caccia! Impossibile ma al contempo reale. Pescando, restavo in attesa di prede favolose! L’intima complicità con l’elemento acquatico era un’eterna tentazione, e ogniqualvolta una buona cattura appagava, o meglio smagava, un tale incanto, quasi me ne rattristavo. (Kubin a Jünger, 21 maggio 1943)

L’ipocondriaco Kubin ‒ assolutamente centrale nelle sue missive risulta il tema della senilità (Altwerden), definita quale ‘esperienza massima’, capace di quietare la tragicità e la catastrofe della storia ‒ avrebbe poi accettato l’offerta di illustrare negli anni Quaranta l’opera intitolata Myrdun, edizione proprio del resoconto del viaggio compiuto in Norvegia da Jünger. Una tale Kombination, sorta come scrive il disegnatore il 10 gennaio 1944 da uno spirito di simpatia (Geist der Sympathie), fu dunque salutata con gioia da entrambi i protagonisti.

“Meister Kubin” ricevette la sua ultima lettera dallo scrittore tedesco nel mese di aprile del 1952, in occasione del suo settantacinquesimo compleanno. Non vi rispose mai. I due si erano anche incontrati di persona a più riprese, contemplando insieme disegni, vecchie fotografie, persino disquisendo su Napoleone III, la cui figura tanto affascinava il disegnatore, il quale già aveva rimpianto in gioventù che il suo semidio, l’imperatore Napoleone, non fosse nato austriaco! Ma furono in particolare i racconti che Kubin gli fece del proprio mondo onirico, delle fantasie «che lo assalivano», a risultare cruciali per comprendere l’atmosfera in cui L’altra parte aveva, per necessità, preso vita. Scrivendo nel 1933 a proposito di questo crepuscolare regno intermedio dell’anima Kubin si era espresso dichiarando che «per la verità si potrebbe usare questo libro come una sorta di Baedecker per quei paesi con i quali non si ha molta confidenza». In una copia del testo donata a Jünger nell’autunno del 1937 egli aveva scritto una poesia, una dedica che quale invito all’èrebo, alla caduta, ai precipizii lontani ‒ e forse ancora miracolosamente salvifici? ‒ dell’arte, recitava:

Wenn Deine Seele, Dein Herz erschrickt
vor Abgründen, die kein Auge erblickt,
springe hinab, gesegnet Dein Fall,
Wahrheit umgibt Dich dann überall.

Se l’anima tua e il tuo cuore restan sgomenti
dinanzi ad abissi che mai alcun occhio ha scrutato
buttati, la tua caduta sarà benedetta
e ovunque ti abbraccerà la verità.

Con assonanti parole sul destino dell’artista aveva chiuso la propria autobiografia questo caricaturista dell’incubo metafisico. «Vero artista ‒ aveva infatti sostenuto ‒ può essere soltanto colui che fa esperienza di ciò che, a tutti gli effetti, è la nostra essenza più profonda».

Ma un nuovo fervore di vita continuamente ci spinge a utilizzare ogni nuovo giorno che sorge. E questo è forse l’ultimo vero significato dell’artista: gettare nella sua creazione un velo sull’assurdo nonsenso della vita, un sottile velo che copra l’abisso di forme caotiche, che per noi non sono assolutamente nulla in confronto a quel mondo «immaginato» che rappresenta la nostra verità, sia pur essa una pura illusione nell’eterno fluire del tempo.

 

[La traduzione condotta sull’originale tedesco dei passi tratti dall’epistolario (Eine Begegnung), opera ancora inedita in italiano, è stata realizzata dal traduttore Francesco Testa].

Riferimenti bibliografici:

Alfred Kubin, L’altra parte, trad. di L. Secci, Adelphi, Milano 1965.

Alfred Kubin, Lettere a un’amica, trad. di F. De Gironcoli,  edito da Helma de Gironcoli, con 28 disegni dell’artista,  All’insegna del pesce d’oro, Milano 1959.

Alfred Kubin, Demoni e visioni notturne, trad. di M. Attardo Magrini, Abscondita, Milano 2004.

Alfred Kubin, Disegnatore di sogni, trad. di M. Ulbar, Castelvecchi, Roma 2014.

Alfred Kubin, Il sogno è un mago potente. Scritti sull’arte, trad. di M. Ulbar, Castelvecchi, Roma 2020.

Paul Raabe, Alfred Kubin: Leben, Werk, Wirkung, Rowohlt, Hamburg 1957.

Alessandro Nigro, Alfred Kubin. Il profeta del tramonto, con un saggio di M. Cacciari, Officina Edizioni, Roma 1983.

Ernst Jünger, Alfred Kubin, Eine Begegnung, Propyläen, Frankfurt 1975.

Ernst Jünger, Il contemplatore solitario, a cura di H. Plard, trad. e postfazione di Q. Principe, Guanda, Parma 1995.

Heimo Schwik, Ernst Jünger. Una vita lunga un secolo, trad. di D. Carosso, Effatà Editrice, Torino 2013.

Antonio Gnoli-Franco Volpi, I prossimi titani. Conversazioni con Ernst Jünger, Adelphi, Milano 1997.

Franz Kafka, Diari (1910-1923), 2 voll., trad. di E. Pocar, Mondadori, Milano 1959.

Furio Jesi, Germania segreta: Miti nella cultura tedesca del ʻ900, Silva, Milano 1967.

Ladislao Mittner, Storia della letteratura tedesca, 3voll., Einaudi, Torino 1971.

Angelo Maria Ripellino, Praga magica, Einaudi, Torino 1973.

Claudio Magris, Il mito asburgico nella letteratura austriaca moderna, Einaudi, Torino 1988.

Massimo Cacciari, Dallo Steinhof. Prospettive viennesi del primo Novecento, Adelphi, Milano 1980.

Roberto Calasso, Bobi, Adelphi, Milano 2021.

I disegni di Kafka, a cura di A. Kilcher, trad. di A. Vegliani, con una nota di R. Calasso, Adelphi, Milano 2022.

L'autore

Fabio Tiddia
Fabio Tiddia  (1979) si è laureato in filosofia all’università di Cagliari con una tesi sull’orientalista e filosofo francese Henry Corbin. Ha continuato gli studi e le ricerche a Teheran, pubblicando vari articoli sulle correnti del pensiero islamico e sulla letteratura persiana in riviste iraniane e italiane, in particolare su “Rivista di Studi Indo-Mediterranei” (RSIM) e “Quaderni di Meykhane”, presso cui è anche membro del comitato scientifico. Ha collaborato per alcune voci con la Enciclopedia Treccani e attualmente vive a Teheran dove svolge le sue ricerche e partecipa a seminari e convegni prevalentemente dedicati agli studi storico-religiosi di area iranica. In particolare ha condotto ricerche sul filosofo ismailita Nāser-e Khosrow e sul mistico Ansāri di Herat, e più recentemente sul movimento dei qalandar, a proposito del quale sta preparando un’antologia di testi in traduzione. Attualmente lavora a ricostruire gli incontri che ebbero luogo tra il filosofo Seyyed Allāmeh Tabātabā’i e l’orientalista francese Henry Corbin. È corrispondente dall’Iran e consulente scientifico per il Progetto Internazionale IDA (Immagini e Deformazioni dell’Altro).