conversando con... · In primo piano

Michele Bordoni intervista Tommaso Meozzi

Il tuo libro si apre con questi versi: “vieni da me / voce non umana che sospira”. Lo stesso tema è, poco più avanti, ripresentato in questi termini: “chiedo solo alla voce / di tornare alla sua origine” e ancora “oh dio, se ci fosse davvero / una voce, che parla con me / mentre piango / dalla mia meschina croce”. Il richiamo alla voce mi pare centrale e nel titolo del tuo libro Di fuoco e fiato sembra che la polarità del fiato sia occupata da questa voce, da questo richiamo al contempo sacro e terreno, lirico e realistico, umano e non umano. Potresti dire cos’è – se poi è possibile darne una definizione – questa voce?

La “voce” è un elemento che attraversa sia la condizione più materiale, biologica dell’essere umano, che i suoi desideri più astratti di trascendenza: l’uomo disorientato che parla da solo in metropolitana, il prete che si rivolge a Dio. E non li attraversa come due poli di un’opposizione, ma come manifestazioni di uno stesso desiderio di dialogo. Nei versi che aprono la raccolta, il poeta si rivolge alla visione dell’infinita relazione tra le cose. Nella seconda poesia che citi, un padre si rivolge alla figlia appena nata, chiedendo per lei che impari non a difendersi, ma prima di tutto ad ascoltare, anche quando la notte sembra più fonda – “finché anche la notte significhi”. Nella terza, un uomo dalla fede incerta si rivolge a un dio che possa comprendere i dolori accumulati quotidianamente – dolori meschini, in fondo –, ma non aspetta una risposta che lo liberi dalla quotidianità. Vorrebbe essere capito nei propri dolori per imparare ad amarsi, e imparare ad amarsi per poter meglio amare gli altri, entrare in contatto con loro, smettere di essere un “turista dell’umano”.

Il tuo libro, anche se scritto in italiano, non è stato scritto in Italia, almeno a quanto pare dai paesaggi, dalla toponomastica (il Reno, il tedesco lingua seconda). Una delle prime poesie parla dell’Europa e della tua condizione di “emigrato di lusso”; i toni non sono di elogio (“non ho votato per l’Europa quella volta, / il seggio era troppo lontano”), anzi, sembra essere fortissimo un certo disagio verso una situazione in cui a mancare è la Heimat. Direi di più, la Heimatlosigkeit sembra essere la condizione “standard” degli europei: “avrei voluto scrivere un elogio dell’Europa, / del mio viaggio per mettere una croce // e invece la sentivo nelle ossa / tra promesse di carriera e trolley mangiati / dai chilometri / tra inchini sbagliati / e assenza di radici”. Quanto questo fattore influisce, secondo te, a livello poetico-linguistico?

Ho scritto questo libro mentre abitavo in Germania, e il mio primo contratto era finito, e pendolavo dove avevo trovato lavoro, in un’altra città della Germania, in un’altra università. Ho lasciato l’Italia per mettere in dialogo ed ampliare il mio patrimonio linguistico-culturale. L’Europa mi ha aiutato a realizzare questo progetto. Il desiderio di creare ponti si è però scontrato con contratti di lavoro precari, l’ansia di dipendere dal giudizio degli altri e di non poter progettare il proprio futuro. Quella volta si doveva votare per l’Europa – non ricordo precisamente di cosa si trattasse –, e io volevo andare, ma ero oberato di lavoro e non me la sentivo di affrontare un viaggio e tornare in Italia – tra tutti gli impegni e il pendolarismo non avevo fatto in tempo a richiedere il voto per posta. E mi sentivo diviso. Io credo nell’Europa, mi ha fatto uscire dalla mia zona di comfort che era anche una prigione di modelli univoci. È però difficile mantenere la propria integrità morale e forza creativa quando sai che il lavoro finisce, sia che tu lo faccia bene, sia che tu lo faccia male. La poesia per me è stata questo: nella precarietà sociale, non perdere la mia voce. E la mia voce dialoga con una precarietà esistenziale in cui tutti siamo immersi. Se incontri una persona è un evento irripetibile, non è mai strumento ma occasione di crescita.

Da una situazione di poliglottismo o di anglismo “mercantile-comunicativo” si passa, nel tuo testo, a una situazione di infanzia, nel senso etimologico del termine, una situazione di non-parola. Sono le poesie dedicate a una piccola bambina, Sofia: “sei proprio un bebè, / ti ho detto dopo tre settimane di vita / per riappacificarmi con la cacca e i pianti”. Questi testi sembrano scavalcare l’impasse linguistico, l’imbarazzo della mancanza della patria, in qualche modo sembrano riappacificare i rapporti fra gli uomini, tornare alla “creatura” che è in loro tramite il riconoscimento dei tratti somatici di tua figlia negli altri. È una mia impressione o è un’interpretazione plausibile?

Avere vicino un essere umano che chiede di essere amato – con tenerezza, senza poterlo pretendere –, relativizza tutto. C’è sempre un gesto importante da fare, anche quando manca l’orientamento. Una scelta tra il bene e il male, tra la voglia di arrendersi e il desiderio di andare avanti insieme, con generosità, al di là di un calcolo puramente economico. Sofia cerca nuove parole per comunicare con noi, con la sua famiglia bilingue. La sua impressionante, variopinta, un po’ scoordinata voglia di vivere aiuta a riconoscere quella stessa voglia di vivere anche negli altri. Sofia vuol dire accompagnare ancora una parola, con generosità.

L’ultimo testo del volume sembra quasi richiamare i versi che lo hanno aperto, una sorta di composizione circolare: “In fondo è ciò che ho sempre voluto / accordare il liuto della voce / al vento, e a ciò che porta”. Si riconosce la permeabilità della voce verso l’altro (o l’Altro in generale), la capacità di armonizzarsi alle mutazioni della sorte…ma il fuoco di cui si accenna nel titolo? Cosa rappresenta? È questa istanza di metamorfosi?

Ascoltare l’altro ci rende liberi. È una condizione paradossale, perché c’è in noi una tendenza alla pigrizia, al narcisismo, che ci porta a pensare che l’altro dovrebbe parlare la nostra lingua – ah, che bello capirsi subito, con uno schiocco di dita!
Però se ci pensiamo, l’altro, chiunque sia, ha una storia diversa dalla nostra e per questo ha il suo linguaggio, il suo modo di sentire. Pretendere che parli la nostra stessa lingua vuol dire bruciare a vuoto. Se invece accetto ciò che mi si presenta, ho la possibilità di vivere a fondo una nuova parte di me. La fiamma della vita si libera allora in luce, verso un cielo che non ha ridicoli coperchi artificiali. Posso investire l’altro di desiderio, sono libero di cercare nuovi accordi. All’inizio può essere doloroso, significa bruciare di rabbia, gettare nuovo materiale nel rogo interiore e imparare di nuovo a respirare nei pressi della fiamma. Il fuoco è il desiderio di autodeterminazione che, paradossalmente, può svilupparsi solo in relazione con l’altro.
In un’epoca in cui il senso di precarietà rischia di far chiudere l’individuo nell’egoismo e in piccole guerre meschine, è importante non dimenticarsi di questo, per non gettare via la possibilità di esistere qui e ora. Vivere tanti “qui e ora” intensamente permette di trovare una direzione, almeno interiore.

L'autore

Michele Bordoni
Michele Bordoni, nato nelle Marche nel 1993, laureato all'Università di Padova con una tesi sull'opera di Mario Luzi, è dottorando in Letteratura italiana presso l’Università di Cagliari, dove studia il rapporto fra immagini e parole tra Rinascimento e Barocco, con un focus sul pensiero di Giambattista Vico e sull’emblematica rinascimentale. Come poeta ha pubblicato, per i tipi di italic, Gymnopedie (2018), vincitrice del Premio Opera Prima al concorso Guido Gozzano del 2019, secondo posto al premio Solstizio nello stesso anno. Alcuni suoi testi sono inclusi nell’antologia Abitare la parola (Ladolfi, 2019) e nella rivista internazionale Gradiva. Collabora come redattore per alcune riviste online, quali "Nuova ciminiera" e "Atelier".