conversando con...

Federica Lombardi intervista Susanna Rafart

Entrevista en català

Al final el que compta és la meravella d’existir
(Susanna Rafart)

Susanna Rafart nasce a Ripoll (Girona) nel 1962. Laureata in Filologia Spagnola (1985) e in Filologia Catalana (1992) presso l’Università Autonoma di Barcellona, è poeta, narratrice e critica letteraria, nonché docente di lingua e letteratura catalana nelle scuole superiori. Dal 2004 appartiene al gruppo degli «Imparables», poeti accomunati dall’esigenza di rifiutare il postmoderno e di fare una letteratura di idee guardando principalmente all’Europa, senza però rinnegare quelli che per loro sono i grandi modelli del panorama catalano. Oltre alle opere di narrativa, di traduzione e di saggistica letteraria, ha pubblicato ben quindici raccolte di poesia, molte delle quali sono state insignite di importanti riconoscimenti, tra cui il prestigioso premio Carles Riba (2001). All’interno della sua opera poetica spiccano per notorietà Pou de glaç (2002), Retrat en blanc (2004), Baies (2005), La llum constant (2013), En el teu nom (2015).

Il suo ultimo volume di poesie, D’una sola branca, si è aggiudicato il premio Miquel de Palol de poesia nel mese di giugno 2021, appena una settimana dopo il rilascio di questa intervista.

La sua, prof.ssa Rafart, è una bibliografia molto eterogenea: si è occupata di letteratura infantile, di critica e saggistica letteraria, di narrativa, di diaristica e anche di traduzione. Tuttavia è indubbiamente la scrittura in versi a occupare uno spazio più ampio all’interno della sua produzione. A che cosa è dovuta questa predilezione per la poesia rispetto agli altri generi?

La poesia è l’asse centrale attorno cui tutte le mie altre proposte letterarie assumono un senso. Va detto, quindi, che anche i testi di diaristica o i racconti che scrivo non devono ritenersi esclusi dalla mia poetica, poiché spiegano o estendono certi aspetti volutamente impliciti negli spazi lirici. Per citare un esempio, il volume Gaspara i jo. Sobre l’amor non è solo una ricostruzione biografica della figura di Gaspara Stampa ma è, più di tutto, il riflesso fedele di una donna-autrice del XX secolo: a partire dalla traduzione in catalano e dalla spiegazione di ciascuna poesia si esamina la storia e il valore di una singolare voce poetica.

Mai ho considerato di coltivare altro genere che non fosse la poesia nel suo senso più ampio: dal poema in prosa e dalla prosa poetica al distico elegiaco, al sonetto o al verso libero. La poesia amplia la vita.

Spesso succede che si cominci a scrivere poesie perché ci si innamora della poesia di qualcun altro. È stato così anche per lei e per i suoi esordi?

Al tempo della mia formazione, influenzata dalla biblioteca di famiglia, ho letto molto di Pablo Neruda e Joan de la Creu, e solo successivamente di Joan Salvat Papasseit o Salvador Espriu. A questi si sono aggiunti i grandi classici, come Virgilio o Catullo. Ogni scoperta letteraria è un nuovo accesso alla conoscenza del mondo, e il cammino è infinito. Una delle rivelazioni per me più impressionanti l’ho scorta leggendo i versi di Omero, ed è l’espressione «Aurora dalle dita di rosa» (in greco antico: ῥοδοδάκτυλος Ἠώς).

Che cosa ricerca nelle poesie che legge? E cosa si aspetta di trasmettere attraverso le sue poesie?

Mi suggestiona molto la possibilità di condensare il tempo all’interno di una poesia. Come in Antonio Machado o Eugenio Montale, pochi limoni possono contenere l’essenza stessa della vita. Per me, la poesia è capace di protezione verso tutti gli elementi primigeni della specie umana. Spesso nella natura ho colto la potenza creativa più alta, e già al tempo della mia infanzia mi attraevano i suoi processi e i suoi enigmi. Attraverso la mia poesia spero di trasmettere la forza e la fragilità di tutto ciò che ci circonda.

Mi parli della sua esperienza con gli Imparables. Quando si è inserita? C’è stato un cambiamento o anche solo un arricchimento nel suo modo di fare poesia?

Quando ho vinto il Premi Carles Riba, considerato uno dei più prestigiosi per la poesia catalana, io e un gruppo di poeti, noti all’editore che aveva appena pubblicato la mia raccolta, abbiamo cominciato a ritrovarci per discutere sull’aridità del momento letterario che stavamo vivendo. Abbiamo contribuito tutti insieme a un omaggio a Joan Vinyoli e, da allora, defendiamo la bellezza e il cosmopolitismo in parti uguali, anche con una certa irriverenza che ha provocato, nel tempo, alcuni dissidi. Ma i percorsi alle nostre spalle erano tutti diversi e la nostra estetica, dunque, molto eclettica. Tre dei poeti fondatori, Manuel Forcano, Sebastià Alzamora e Hèctor Bofill hanno guidato il movimento e il resto di noi ha costituito parte della proposta, ciascuno intervenendo con le proprie personalissime poetiche. Eravamo un gruppo di poeti provenienti da tutto il territorio catalano, e ne hanno preso parte i più rinomati del periodo: Maria Josep Escrivà, Isidre Martínez Marzo, Lluís Calvo, Txema Martínez Inglés e Joan Elies Adell. Ci siamo trasformati in un focolaio di creatività, e il tributo ai poeti di generazioni pregresse ha reso celebre la fondazione del gruppo. Ci è capitato di ricevere molte critiche, e questo ha fortunosamente permesso di piazzare gli esponenti più giovani. Nel complesso, tutti abbiamo sempre continuato a scrivere a partire dai principi sopracitati e credo che il nostro operato stia contribuendo a definire un momento molto delicato della cultura catalana.

Prima ha citato l’infanzia, ed è una dimensione che ho ritrovato spesso nelle sue interviste e in certi suoi scritti. Anche dai suoi versi traspare come un senso di devozione verso il passato, e sembra che sia proprio la delicatissima e silenziosa contemplazione di questo tempo a soccorrere la creazione poetica. È così?

L’infanzia è una tappa pieno di mistero e ispirazione per me, forse perché la mia esperienza per prima è legata alla natura in tutte le sue manifestazioni: la vita e la morte, la rinascita delle cose e un’esistenza spesa in questo tipo di ambiente. Certamente, ricordo molti istanti di contemplazione a osservare le scene che mi circondavano: il fruscìo dei rami, la nascita delle salamandre oppure lo sguardo di una volpe in piena notte illuminata dai fari dell’auto. E ancora, la vita tra sorelle e cugini, i racconti di zii e nonni, e il fascino che avevano per me quelle loro storie. In qualche modo l’infanzia che non lasciamo morire dentro di noi preserva tutto questo, ed è da questa dimensione interiore che nascono le poesie.

Un’ultima curiosità su questo aspetto. Alcune delle sue prime pubblicazioni sono state destinate proprio ai bambini e si capisce che lei abbia una considerazione di quell’età molto più profonda della norma: non è solo un periodo fiabesco e felice, ma un momento della vita importantissimo per la formazione della sensibilità individuale. Oltre al bellissimo racconto sul saüc, c’è qualche altro ricordo della sua infanzia che ritiene particolarmente prezioso?

Beh, i libri per bambini sono stati pubblicati prima dei libri di poesia solo per una casualità editoriale. Al tempo scrivevo quelle storie per i miei figli e per me ogni fase vissuta è stata molto intensa: è per questa ragione che ebbero per primi maggiore visibilità rispetto ad altri testi. Ma nella pratica è il verso che mi ha sempre accompagnato. Ho in mente una prima immagine di me, bambina, in un casale d’estate, e certi opuscoli tutti striati che servivano per impratichirmi con la calligrafia. Dopo, i libri di testo e le loro illustrazioni. E solo più tardi i primi libri di poesie.

Più che una domanda, questa sarà una mia verifica, e riguarda un punto cruciale per la mia ricerca: l’elemento della llum. Sono rimasta molto affascinata dalle numerose occorrenze di questa parola all’interno della sua produzione. In sintesi, se ho ben inteso, la sua poesia altro non è che la possibilità di vedere chiaramente nell’oscurità, caricando la realtà circostante di nuovi significati. Così è la luce, che in una condizione di buio ci rivela le cose per quello che sono, molto diverse da ciò che i nostri occhi hanno creduto di vedere. Si può, allora, associare questa luce rivelatrice alla poesia stessa?

Sì, sono andata alla ricerca della luce per donare una nuova esistenza alle cose. Uno dei miei primi libri si intitola proprio Reflexió de la llum (Riflessione della luce). A partire da lì, si è sviluppato un cammino di ricerca che attraversa tutta la mia poesia, fino alle più recenti uscite.

Ed esiste una correlazione tra questa llum e la dimensione del record, visto che entrambe collaborano alla nascita della poesia?

Il ricordo è luce, perché con ricordo non s’intende solo una reale figurazione del passato, reso attraverso le immagini sconnesse di ciò che siamo stati. La poesia ha la sua ragion d’essere nei pozzi della memoria, in fondo ai quali estraiamo un magma basaltico luminoso che si trasferisce nei versi e plasma il senso di ciò che intendiamo dire.

La sua voce è stata definita da M. Ballester dolça i nostàlgica (per usare una sua citazione), una voce che non fa mai male. Anche io mi ritrovo con questa impressione. Ma la grazia che caratterizza i suoi versi pare che nasconda l’accesso a una tristezza più profonda. Le immagini dolorose e crude che costellano le sue raccolte hanno a che fare con la destrucció del món di cui ha parlato altrove? Che tipo di distruzione prevede? E come può la poesia-speranza salvarci da questa minaccia?

Sì, l’apparenza di una voce dolce e nostalgica non esclude il fatto di dover combattere la distruzione né impedisce di lasciarne scorgere l’entità. La mia idea è che il poeta abbia l’obbligo di essere un imboscato (si veda Jünger), nel senso che deve cercare una distanza temporale dai suoi contemporanei per capire veramente in che direzione stia andando il mondo. Dalla mitica figurazione del Paradiso non abbiamo fatto null’altro che andare verso la distruzione, e i molti modi cui abbiamo ricorso per creare artificialmente un buon posto per l’umanità ci hanno solamente illuso. Ma non possiamo permetterci troppo pessimismo, bisogna scovare questi luoghi di speranza, magari nel linguaggio, che ha in sé la possibilità di deformare questa inevitabile catastrofe.

Nella raccolta Jardins d’amor advers (ma non solo) sono palpabili i suoi debiti con la tradizione letteraria dei trovatori, e ritengo molto apprezzabile che la poesia contemporanea continui a richiamare quei temi e quelle voci, come se il filo non si fosse mai interrotto. Che valore ha, per lei, la letteratura romanza e – più in generale – la tradizione antica/medievale?

È stata una solida presenza. Il mondo antico ha consolidato la mia prima formazione umanistica e i trovatori rappresentano, per me, un linguaggio lirico, una koiné fondamentale che abbiamo la responsabilità di preservare. Perché? Perché è il primo linguaggio artistico autonomo della nostra tradizione e perché i temi dell’amore e della guerra sono chiaramente solo un pretesto per l’artificio letterario che sorge ogni volta, come una primavera immortale. La sestina, dal mio punto di vista, può essere intesa ancora oggi come il sodalizio tra la scienza e la poesia: irradia maestria, iconicità, perfezione.

Per me è soprendente studiare una voce contempornea nell’ambito della linguistica romanza, ma è ancora più emozionante che questa voce appartenga a una donna. Non è una situazione molto comune, la mia. Lei ha mai avuto una qualche difficoltà nel suo campo di lavoro per problematiche di genere? Nutre qualche speranza per le donne che “abitano” la letteratura, affinché possano essere studiate di più?

Ho sempre desiderato che la mia voce possedesse un’esistenza autonoma, alle volte fino ad estraniarsi dalla mia persona. Anche per questa ragione, mi è sempre piaciuto poco mostrarmi in pubblico. Perché continuiamo a leggere Catullo, Saffo, Montale o Dickinson? Perché le loro sono voci uniche, tali da non assomigliare a nessun’altra, pur essendo debitrici delle voci che le hanno precedute. È quello che cerco di spiegare nel mio libro Gaspara i jo. Come la quercia di Didone, come la Vergine di Monterchi di Piero della Francesca o come un sabato mattina, alla fine ciò che conta è la meraviglia di esistere. L’amore non corrisposto di Gaspara è solo la ruota che permette la costruzione di una voce e il suo confronto con le voci del presente. Nel volume esprimo anche questa difficoltà che appartiene a tutte le poetesse nel mondo. Tuttavia credo che questo possa cambiare per le nuove generazioni, tra le quali molte voci poetiche femminili sono riuscite ad affermarsi con una presenza schiacciante.

Grazie per aver soddisfatto queste curiosità personali. Sta lavorando a qualcosa in questo periodo?

Sto terminando uno scritto che è il rovesciamento di Beatriu o la frontera e che ha come titolo provvisorio Orfeu i les dones. Qui, a dominare è l’oscurità invece della luce, ed è un viaggio in cui le donne esigono la voce da Orfeo, una voce salvifica contro le attuali ingiustizie. Sto preparando, inoltre, un’antologia di questi ultimi anni che avrà per titolo quello di un libro ancora inedito, D’una sola branca. Credo tocchi molti dei temi che finora ho trattato.

 

L'autore

Federica Lombardi
Federica Lombardi si è laureata in Lettere Moderne presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II, presentando uno studio sulle dansas provenzali del XIII secolo. Ha poi conseguito, presso lo stesso ateneo, la laurea magistrale in Filologia Moderna, discutendo una tesi sperimentale sull’opera in versi di Susanna Rafart. Bibliofila e classicista, ama l’arte, la poesia, il vintage e i viaggi improvvisati.

One thought on “Federica Lombardi intervista Susanna Rafart

Comments are closed.