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La scienza medica e il parto in Céline e Zweig

 

La medicina, dopo tutto, non ha che una piccola scintilla possibile
(Céline)

Io non sono solo un medico
Non ero che un medico
(Zweig)

Dopo Carlo Levi e Axel Munthe, intellettuali corretti dalla scienza, la follia in Cechov e nella narrativa italiana recente, il medico di campagna in Bulgakov e Kafka, giungiamo a un’altra coppia di autori di testi a sfondo medico. Siamo stavolta davanti a scritti coevi ma molto diversi: Semmelweis (1924) di Louis Ferdinand Céline, uno dei più grandi scrittori francesi, è la sua tesi in Medicina e non un testo narrativo, privo di quell’ingrediente, la finzione, che contraddistingue invece il racconto Amok (1922) del sublime narratore austriaco Stefan Zweig. È il tema della gravidanza, con le sue implicazioni mediche a legare queste rispettive cento pagine di due grandi intellettuali europei del Novecento.

Semmelweis, 1924

Louis Ferdinand Auguste Destouches, nato nel 1894, ha 30 anni quando si laurea in Medicina. Fino ad allora è la guerra a segnare la sua esistenza. L’identità di medico succede a quella di combattente, militare, e al grave incidente che lo rende invalido al 70%. Precedentemente era stato apprendista gioielliere e nel 1916 si era recato come agente commerciale nella colonia tedesca del Camerun. Si ammala di paludismo, dal 1919 studia Medicina tra Rennes e Parigi. Dopo la laurea, nel 1924, con la Società delle Nazioni va negli Stati Uniti e in Africa. Dal 1927 esercita la professione di medico a Clichy. Dopo due piccole opere, una biografica di guerra (Carnet du Cuirassier Destouches, redatto nel 1913, pubblicato dopo Cassepipe nell’edizione Gallimard nel 1970) e la prima novella (Des vagues, redatta nel 1917, pubblicata nel quarto volume dei Cahiers Céline con Gallimard nel 1977), la tesi, La Vie et l’Œuvre de Philippe Ignace Semmelweis, Rennes, Simon, 1924, è la terza pubblicazione di Céline. I romanzi più celebri, Voyage au bout de la nuit, Paris, éditions Denoël & Steele, 1932 e Mort à crédit, Paris, Denoël & Steele, 1936, arrivano molto dopo.

Sin dalla prefazione si manifesta il tono accorato, enfatico e apologetico dell’autore: «Il mondo si appoggia sull’ubriachezza generosa della salute, una delle forze magnifiche della giovinezza, che comprende anche l’ingratitudine e l’insolenza». Lo scritto inizia con una sorta di introduzione storica. Nulla di più lontano da una dissertazione a carattere scientifico, quale la tesi in Medicina che è. Possiamo affermare che il Semmelweis di Céline è una biografia, la biografia di un medico, nella sua prima versione La vita e le opere di Filippo Ignazio Semmelweis del 1924 e nella successiva, appena rimaneggiata, Semmelweis, del 1936.

Come se fosse un’opera narrativa – anche se si tratta di 1) una tesi in medicina 2) una biografia – possiamo indentificare alcuni temi che l’autore ci propone. Per l’infanzia il tema è la strada, «uno dei luoghi più meditativi della nostra epoca, è il nostro santuario moderno», che si contrappone alla scuola. Quarto di otto figli: «A tutti e ovunque (Philippe) sembrava felice; tranne a scuola. Non amava la scuola e a causa di questa avversione faceva disperare il padre. Philippe amava la strada. I bambini ancor più di noi hanno una vita superficiale e una vita profonda (…) è il lavorio immenso della vita interiore». Semmelweis, possiamo dedurre, non vive secondo le regole, gli schemi, il sistema, le istituzioni, ad essi si opporrà, entrandovi in collisione: «Il caso è la strada. La strada diversa e molteplice di verità all’infinito, più semplice dei libri».

La giovinezza è ‘ambientata’ a Vienna. Finiti i primi studi il 4 novembre 1837 Philippe Semmelweis lascia Budapest per Vienna ma un incidente lungo la strada allunga il viaggio e lo affatica. La prima impressione di Vienna per questo motivo è negativa e, come in un imprinting, rimarrà tale, non gli piacerà mai. A Vienna studia prima Diritto e poi Medicina «Il diritto non lo trattenne a lungo». Un giorno segue un corso all’ospedale e poi un’autopsia. Possiamo supporre, dice Céline, l’entusiasmo di Semmelweis per la medicina, ma in effetti sappiamo solo che lasciò Giurisprudenza prima di laurearsi. Céline sottolinea il genio e la separatezza di Semmelweis, la sua necessaria esclusione dalla collettività: «Amava la vita più della ragione e in un modo che gli altri uomini non potevano capire».

La tesi di Céline si appoggia su una documentazione che è fatta di carteggi e altro materiale biografico. È una biografia narrativa, che sembra romanzata (con il procedimento uguale e contrario a un romanzo verosimile). I dettagli, come il ritardo del viaggio d’iniziazione verso Vienna, consentono al «narratore» riflessioni. Abbiamo a che fare con un autore (non ancora) medico (e non ancora) scrittore e con un personaggio che passa da Legge a Medicina. L’elemento comune tra autore e personaggio, tra Céline e Semmelweis, teniamolo presente, è la scienza medica: «Quanto alla Medicina, nell’Universo non è che un sentimento, un rimpianto, una pietà che agisce più delle altre, d’altronde quasi senza forza all’epoca in cui Semmelweis vi si apprestava». Cioè a quel tempo la scienza era ancora molto debole nella lotta contro il nemico atavico di tutti i medici: la morte.

Il protagonista ha due deuteragonisti che sono i suoi maestri: 1) Skoda, grande medico e celebre, da cui il nostro, affascinato, impara tutto; 2) Rokitanski, meno noto, ma maestro di metodo scientifico, primo a occupare la cattedra di anatomopatologia a Vienna.

L’atteggiamento di Semmelweis, a detta del suo illustre biografo, era brutale nei confronti della verità: «Non ci sono piccole risorse per il genio, ce ne sono o di possibili o di impossibili».

Fin da allora emerge una spiccata fragilità emotiva del protagonista collegata anche agli studi: già dopo pochi mesi a Vienna Semmelweis è esaurito, va verso il burn out e Skoda gli ordina un lungo riposo. Si tratta di stress psicologico, soffre di manie di persecuzione. Nel 1839 va a Budapest, dove apre la nuova scuola di Medicina, vi si iscrive ma poi già nel 1841 torna a Vienna. Quello che fanno in facoltà gli sembra teorico e inutile. Ha una crisi di vocazione (ricordiamo Balzac e la distinzione tra la missione del medico e la missione del curato) e fa lunghe passeggiate ai giardini botanici. Il frutto sudato di questi tempi difficili è una stringatissima tesi (12 pagine) in latino sui rimedi naturali: La vie des Plantes, con cui nel 1844 si laurea.

Torniamo ai maestri deuteragonisti. Skoda non solo era un bravo clinico ma la finezza intuitiva e la sagacità di cui fece prova nei suoi lavori scientifici gli servirono grandemente anche nella condotta della sua brillante carriera. Skoda aveva capito il genio di Semmelweis. Sapeva che gli allievi troppo brillanti sono di regola i più terribili distruttori dei maestri. Lo apprezzava, ma usò alcune regole di prudenza: «Possiamo amare il calore del fuoco, ma nessuno ci si vuole bruciare. Semmelweis era il fuoco». Morale della favola: a un concorso per assistente vince un altro allievo. Rokitansky, d’altra parte, con i suoi lavori sull’infezione e la chirurgia, avvia Semmelweis verso il suo cammino: «Bisogna in effetti ricordarsi che prima di Pasteur più di 9 operazioni su 10, in media, finivano con la morte o l’infezione, che non era che una morte lenta e ben più crudele». Dopo due anni nel reparto di Chirurgia, in cui i decessi si succedono, Semmelweis si domanda perché non ne cerchino le cause. Nel 1846 è proclamato Dottore in Chirurgia, poi Dottore in Ostetricia. Ma in Chirurgia non ci sono posti vacanti, Semmelweis ha bisogno di uno stipendio, il padre si è ammalato.

Veniamo dunque agli antagonisti, da rintracciare anch’essi tra i superiori per rango e per età: il primo è Klin, che chiede un assistente in ginecologia e ostetricia. Semmelweis non ha i diplomi necessari, ma li prende in pochi mesi e ne diventa l’assistente. Ecco le parole di Céline: «Intellettualmente, questo Klin era un pover’uomo, pieno di sufficienza e un mediocre (…) Non sorprenderà nessuno che sia divenuto feroce fin dalle prime rivelazioni della genialità del suo assistente». Se, come abbiamo visto, il maestro Skoda, riconosciuto il genio dell’allievo, aveva preso precauzioni per non bruciarsi con il suo fuoco (non scegliendolo come assistente), Klin, inizialmente ignaro, resosi conto delle capacità del suo assistente, non gli lasciò scampo.

La mancanza di intelligenza è motivo lampante, per Céline, dell’ostracismo nei confronti di chi ne possiede. I mediocri andarono tutti contro il genio di Semmelweis. Céline cerca di motivare, e lo fa in modo incontestabile, l’accanimento con cui Semmelweis e la sua scoperta furono combattuti. La veemenza e la capacità oratoria persuasiva ricordano molto l’argomentazione (in uno scritto di finzione però) del medico scrittore Cechov, che pubblica nel 1893 (a metà strada tra la vita di Semmelweis e quella di Céline) il Reparto n.6, in cui uno psichiatra illuminato finisce i suoi giorni come paziente nel proprio reparto.

Nell’ospedale vi erano «due padiglioni identici e contigui ma…» uno era diretto da Klin, l’altro da Bartch e le ammissioni al reparto di maternità si alternano secondo l’orario di ammissione: Bartch chiude alle 16:00, Klin apre alle 16:00. Le partorienti preferiscono restare fuori piuttosto che essere ricoverate nel pomeriggio perché nel reparto di Klin vanno incontro alla morte. Siamo qui ora nel vivo del racconto; è finita la premessa, tutto quello che era preparatorio al racconto. Questi due padiglioni identici nel mezzo dei giardini dell’ospedale di Vienna ricordano moltissimo i due pollai della novella di Italo Svevo La madre, pubblicata appena due anni dopo Semmelweis, per la specularità degli spazi e il destino diverso a seconda di quello a cui fatalmente si è assegnati. Che Svevo avesse letto la tesi di Céline? Ecco l’incipit della novella dello scrittore triestino, che ruota attorno al tema della maternità: «In una valle chiusa da colline boschive, sorridente nei colori della primavera, s’ergevano una accanto all’altra due grandi case disadorne, pietra e calce. Parevano fatte dalla stessa mano, e anche i giardini chiusi da siepi, posti dinanzi a ciascuna di esse, erano della stessa dimensione e forma. Chi vi abitava non aveva però lo stesso destino» (Italo Svevo, La madre, 1926).

Una lugubre fatalità circonda Semmelweis – Céline rintraccia tutti i segni possibili per accrescere il pathos del suo racconto e farci credere, come sembra fare lui, nella predestinazione – non lo colpisce ma ne soffre: la morte dei genitori e le febbri letali delle partorienti fatalmente in crescita. La febbre puerperale è indicata come una delle catastrofi cosmiche e inevitabili. Céline fa sempre un collegamento tra la biografia del personaggio e la grande storia, più alcuni elementi degli eventi medici. Nella sua narrazione tutto è collegato, non come causa e effetto ma come un’insieme di concause, parti di un tutto di cui evidenzia i collegamenti. Anche in questo è simile a Cechov, a cui lo accomuna una visione fatalistica.

Il biografo riporta gli atteggiamenti nei confronti della febbre puerperale: l’opinione pubblica voleva che la morte fosse il tributo dovuto e proprio della classe popolare, senza indagarne la motivazione; e ricorda due casi storici: 1) nel 1774 Luigi XIV a Parigi aveva convocato una commissione per l’«epidemia puerperale». In quell’occasione si incolpò il latte delle nutrici, che furono tutte allontanate e chiusi i reparti. 2) Nel 1846 a Vienna (tempo e luogo della vicenda narrata) per l’escalation di decessi fu convocata una Commissione d’impero d’urgenza.

Semmelweis sente di avere una missione (la missione del medico di Balzac sopraricordata ha qui una sfumatura diversa da quella religiosa). Cerca informazioni nei rapporti delle commissioni. Procede per eliminazioni successive di «errori e menzogne che ricoprivano la verità, le une dopo le altre, buttandole via, come foglie morte che soffocano il fiore che cerca» (lo stile da scrittore qui come altrove ‘buca la pagina’ della tesi di medicina).

La scoperta di Semmelweis ha l’andamento di un procedimento deduttivo:

  1. «Si muore più da Klin che da Bartch». Questa è la prima incontestabile constatazione. Poi Semmelweis osserva che da Bartch sono le ostetriche a visitare, da Klin gli studenti. Ma i detrattori sostengono che sia la brutalità degli studenti a provocare un’infiammazione fatale. Semmelweis fa spostare gli studenti da un reparto all’altro e la morte segue gli studenti, da Bartch le statistiche diventano angoscianti. Come misura di sicurezza vengono mandati via gli studenti stranieri. (Come non pensare alla nostra recente esperienza di Pandemia?)

2 «Si muore più da Klin con gli studenti che da Bartch con le ostetriche». Questa è la seconda constatazione. Klin non parla più al suo allievo, sostiene che la causa delle morti siano i locali vecchi, poi si dice che è la povertà che rende le partorienti depresse e perciò deboli. Ma Semmelweis si accorge anche che chi partorisce in strada e poi va in reparto non è infettato. Si ricorda inoltre delle sezioni sui cadaveri e dei tagli che risultano letali per gli studenti di anatomia. Inizia perciò a collegare il reparto di anatomia a quello di maternità; si rende conto che il collegamento è costituito proprio dagli studenti, che fanno le dissezioni dei cadaveri ad anatomia e poi visitano le partorienti in ginecologia.

3 «Sono le particelle dei cadaveri depositate sulle mani degli studenti che infettano le partorienti». Semmelweis ordina agli studenti il lavaggio della mani. Ordina la stessa procedura a Klin che si rifiuta e lo fa espellere. Il tono del narratore è apocalittico: la febbre trionfa a Vienna, a Parigi, a Berlino, a Torino.

Inizia la (prima parte della) lotta tra male e bene, tra antagonisti e deuteragonisti: Semmelweis è espulso a Budapest da Klin, mentre a Vienna Skoda si attiva per richiamarlo e lo fa attraverso la Corte: «non è vero che non si cospira con successo che per chi non è presente?». Perciò viene mandato a fare un viaggio, la meta prescelta è Venezia, dove il nostro si inebria di bellezza, le gondole sono troppo lente, e lui impara a vogare. L’argomentazione retorica di Céline risulta anche molto persuasiva. Come nel Reparto n. 6 di Cechov, le istituzioni prescrivono un viaggio-terapia e, come vedremo, i due personaggi medici avranno lo stesso infausto destino. Il narratore ci conduce brevemente in un altro luogo geografico con tutto l’entusiasmo del personaggio medico protagonista, eroe e vittima insieme. Personaggio altro da sé e in terza persona, in un tempo storico precedente, per cui parteggia e di cui vuole assolutamente persuadere il lettore, (che Céline abbia in mente come lettori la sola commissione della seduta di laurea è veramente difficile da credere). Il viaggio a Venezia, nella migliore tradizione del grand tour, costituisce una vera e propria pausa narrativa. E la pausa narrativa (come una finestra per Hamon) prepara anche il lettore alla svolta narrativa. La bellezza penetrante di Venezia sembra quasi prepararlo alla notizia che riceve al rientro: Kolletcha, il professore di anatomia, è deceduto in seguito a una ferita che si era provocato durante una dissezione di un cadavere. Tutto è chiaro, il decorso, i dettagli della malattia sono esattamente gli stessi di quelli delle partorienti.

Quali erano le motivazioni e l’attitudine del medico austroungarico? Céline, che chiaramente si ispira a quello che per lui è un modello, proponendolo ai suoi esaminatori e a noi lettori, sostiene che Semmelweis non fosse ambizioso, che non aveva quell’ossessione per la verità pura che anima i ricercatori scientifici. Aveva invece «un’ardente pietà per la sofferenza fisica e morale dei suoi malati». Céline riflette: l’egoismo (che chiaramente non apparteneva al suo ‘eroe’) è tra «i più grandi ostacoli al genio della maggior parte dei medici di talento» e mette in guardia nei confronti dell’approssimazione, «la forma piacevole della sconfitta, consolazione tentatrice»; infine asserisce che «il rigore del metodo non basta», che «il metodo sperimentale non è che una tecnica, infinitamente preziosa ma deprimente», che «l’ordinaria lucidità non basta, al ricercatore serve una potenza più ardente, una lucidità penetrante, sentimentale come quella della gelosia». (Su questo atteggiamento, la sete di conoscenza come una passione sentimentale con il grano della gelosia, torneremo in seguito con Zweig). In altre parole, la filantropia, l’empatia, sono le caratteristiche che secondo Céline costituiscono il valore aggiunto al rigore scientifico. Se nel caso di Carlo Levi ed Axel Munthe si trattava di intellettuali corretti dalla scienza, qui è uno scienziato ad essere corretto dall’indole intellettuale. Insomma è la complementarità che rafforza, che aggiunge quel plusvalore al medico illuminato di umanità.

È un linguaggio narrativo, non possiamo negare che si tratti di letteratura, la contaminazione è fortissima e l’autore ne è almeno in parte consapevole, parlando ad esempio di «Peripezie di questa tragica e meravigliosa avventura». Ma torniamo al medico ungherese, a una lettera appassionata per un amico in cui evidenzia, anche lui, come i tutti i personaggi-medici frutto della penna di medici-scrittori, quanto la lotta con la morte sia motivo centrale della propria professione che fa tutt’uno con un’enorme sofferenza esistenziale (i medici non sono indifferenti alla sorte dei loro pazienti): «Mio caro Markusovsky, mio buon amico, mio dolce sostegno, devo confessarvi che la mia vita fu infernale, che sempre il pensiero della morte dei miei malati mi è stata insopportabile, soprattutto quando si infila tra le due grandi gioie dell’esistenza, quella di essere giovane e quella di dare la vita».

Torniamo alla scoperta, con il ritmo e la suspence con cui Céline ce la propone. 1) Semmelweis: «Sono le dita degli studenti, contaminate nel corso di recenti dissezioni, che portano le particelle cadaveriche letali negli organi genitali delle donne incinte e soprattutto al livello del collo dell’utero». 2) Céline: «Queste minuscole particelle di cadavere, di cui credeva che da sole bastassero a provocare l’infezione puerperale mortale, erano imponderabili, l’istologia non sapeva ancora colorarle con distinzione perché fossero visibili al microscopio. Non erano rilevabili che attraverso l’odore». La prima citazione è dagli appunti di Semmelweis stesso che dichiara così la propria scoperta, la seconda è per mano di Céline che spiega i dettagli di qualcosa che per noi oggi è dato per assodato ma che non era ancora conosciuto a quell’epoca. Fondamentale distinguere le conoscenze acquisite da quelle rivoluzionarie. Céline argomenta molto bene e dà il senso di questo gap. La soluzione consiste nell’eliminare l’odore dalle mani. L’unica traccia tangibile delle particelle era sotto forma di odore, perciò bisogna lavare, disinfettare fino ad eliminare dalle mani ogni traccia di odore.

Accelerazione finale: grazie all’intercessione di Skoda, Semmelweis viene ammesso nel reparto di Bartch. Appena entrato in servizio chiede che gli studenti, normalmente presenti da Klin, passino da Bartch al posto delle ostetriche. In quel mese la mortalità sale da Bartch al 27% (+18%). L’evidenza è lì. Semmelweis stabilisce che ogni studente che abbia fatto una dissezione il giorno stesso o precedente a ogni manovra ginecologica debba lavarsi le mani con una soluzione disinfettante. Il mese seguente la mortalità scende al 12%.

Corollario: un’ulteriore prova gli arriva da un caso che segue. Dopo aver visitato una donna malata di cancro uterino, visita cinque partorienti che successivamente muoiono, «Le mani, attraverso il loro semplice contatto, possono infettare». La mortalità nei mesi seguenti alla pratica della disinfezione si abbassa alle cifre dei tempi attuali, dice Céline, lo 0,23%. Non sono solo le particelle cadaveriche a infettare, ma tutte le particelle «malate» o «infettate». (Siamo nel 1848 o nel 2020?)

Epilogo: Céline inizia quest’ultima parte del suo lavoro con un interrogativo retorico dal sapore amaro: «Non sarebbe logico che da quel momento ci si fosse sbarazzati della febbre puerperale?». Tutto quello che leggiamo da questo punto in poi è un monito per l’oggi. Inoltre, quanto segue nella narrazione fa pensare al clima fascista, alle delazioni che iniziavano a caratterizzare l’epoca dello scrittore. Ostetricia e chirurgia rifiutarono con uno slancio quasi unanime, con odio, l’immenso progresso che gli era stato offerto. All’ospedale di Vienna la scoperta di Semmelweis non ebbe la fortuna che si potrebbe supporre. Al contrario, Klin raccolse avversari di Semmelweis, solo 5 medici di Vienna lo appoggiarono. Anche nel resto d’Europa, ad Amsterdam, Berlino, Edimburgo nessuno gli dà ascolto. Perfino a una Conferenza a Londra, alla Società Medica nessuno dà credito ai risultati di Semmelweis. E a Praga dicono che non hanno affatto rilevato gli stessi risultati. Gli adepti di Klin insinuano (con successo) che le statistiche di Semmelweis sono false e menzognere.

Eccoci davanti a una seconda parte della lotta tra detrattori e sostenitori. Semmelweis è ricoperto di ingiurie. Regnano – dice il narratore con tono perentorio – cecità, menzogna, idiozia e cattiveria. Skoda comunica all’Accademia delle Scienze una nota su risultati favorevoli alle teorie di Semmelweis. Alla Società medica di Vienna, Hebra chiede una Commissione per esaminare i risultati di Semmelweis. Ma il Ministro impedisce alla Commissione di riunirsi e ordina a Semmelweis di lasciare Vienna. Lo stato interviene, questo ci ricorda il racconto di Cechov.

  1. Cacciato da Vienna, Semmelweis si ritrova a Budapest in pieno fermento rivoluzionario e vi partecipa con gioia. Vienna inizialmente non può che accordare i diritti agli ungheresi. Semmelweis in anonimato è apprezzato per la sua originalità, ha appena 30 anni (come Céline quando scrive), va a cavallo e nuota, si diverte in quel clima di festa. Torna giovane e spensierato, come a Venezia.

1848-1865 (morte) Grande storia e storia di Semmelweis. Ancora una serie di eventi si succedono, il ritmo incalzante della narrazione rivela il talento di Céline. Semmelweis sbaglia la diagnosi su una nobildonna, e anche se poi si corregge, questo errore nell’alta società (che ricorda per contrasto il successo di Axel Munthe nell’alta borghesia parigina e nella nobiltà svedese) gli costa la reputazione a Budapest. Intanto la rivoluzione è finita «Per gli individui è miseria, per lo spirito cade la notte tra il 1848 e il 1867… Una notte quasi assoluta perché la maggior parte degli intellettuali è espulsa, soprattutto i medici» (da notare, nuovamente, che i medici sono inclusi, senza necessità per Céline di argomentare, nell’ampia categoria degli intellettuali). Il rettore dell’Università di Budapest viene incarcerato, quasi tutti i professori esiliati, le pubblicazioni scientifiche sono vietate; il direttore della gazzetta medica deve fuggire in Svizzera, una sola società medica resta attiva una volta al mese sotto sorveglianza di un commissario di Polizia. Céline più che mai instaura un collegamento tra grande storia e storia di Semmelweis, la storia della nazione diventa buia, come quella del medico. Le misure repressive dello stato asburgico fanno venire in mente, come già accennato, quelle fasciste di cui Céline stava per essere testimone. «La gioia ungherese era stata di breve durata come la dissipazione di Semmelweis, la felicità che provava a vivere una vita attiva… ». Il nostro si frattura una gamba e un braccio, presagio? Patisce la miseria «come tanti altri intellettuali» E a Vienna si preoccupano per lui. Di nuovo Céline include Semmelweis tra gli intellettuali. (Anche Cechov utilizza questo termine, però in modo contrastivo rispetto al medico, il suo è un testo di finzione, il suo personaggio medico voleva essere un intellettuale).

Un medico si suicida per aver constatato la febbre puerperale. La notizia sveglia Semmelweis dal torpore. Birley gli offre un posto di due mesi, in estate, nel reparto di maternità. Semmelweis accetta e si mette a scrivere il suo trattato, stavolta non sarà, come la tesi, uno scritto di 12 pagine, e impiegherà quattro anni a redigerlo. Nel 1856 Birley muore e Semmelweis gli succede ma… scrive subito una lettera aperta ai colleghi medici, Céline puntualizza, inaspettatamente per noi lettori che lo abbiamo visto fin qui ‘simpatizzare’ (eufemismo) con il suo protagonista, «con tono aggressivo», e aggiunge chiamando assassini coloro che non lo avevano ascoltato. Céline a questo punto ammette la deriva fuori di senno di Semmelweis, quasi giustificando le reazione dei colleghi e concedendo ai detrattori una piccola faglia nel comportamento del suo ‘eroe’; infatti la rabbia «puerile» gli rivolta contro l’odio da parte di tutta la comunità medica. Ma la reazione della comunità medico scientifica è estrema e continua nell’errore, tutti vanno contro le sue misure d’igiene pur di contraddirlo. L’ordine di cento paia di lenzuola per partorire viene rifiutato perché, dicono, più partorienti possono usare le stesse lenzuola (!). Gli resta un solo amico, Arneth, che nel 1858 porta a Parigi il suo manoscritto intitolato Etiologie, ma l’Accademia non dà alla scoperta nessun peso, anzi Dubois la confuta con storie inventate – dicendo che hanno dovuto metter in quarantena i medici che praticavano il protocollo imposto da Semmelweis – e sminuendone biecamente la portata: il protocollo aveva sì qualche buon principio, ma aveva provocato polemiche in Austria e oltre, ed era ormai superato (!).

Il verdetto di Duboi fa terra bruciata attorno a Semmelweis che perde definitivamente lucidità e senno. Il suo volto si trasfigura, ci dice Céline con una scrittura vivida, viene posseduto dall’uno o dall’altro sentimento, ha delle allucinazioni, non ha più nessuna certezza, il mondo inanimato degli oggetti si anima. Nel 1865 ha un momento di lucidità, le allucinazioni si fermano, ma la Facoltà lo sostituisce, dandogli il titolo di Professore «a disposizione» (proprio come i fascisti). Ne consegue, a detta di Céline, una violenta crisi di nervi. (Il finale è molto simile a quello di Cechov: il medico illuminato, per il quale il narratore ha parteggiato, perde la ragione).

Crisi finale: «L’uomo finisce dove il folle comincia». La follia, a detta di Céline, è la peggior deriva dell’essere umano. Semmelweis si reca presso l’anfiteatro di Anatomia della Facoltà, nessuno osa fermarlo, incide un cadavere e poi si incide a sua volta. L’infezione e la follia lo conducono alla morte in una lenta agonia in cui tutte le tappe ripercorrono quelle delle febbri puerperali. Gli ultimi giorni, assistito da Skoda, che è giunto al suo capezzale da Vienna, li passa nel reparto psichiatrico dell’ospedale di Budapest, dove muore in seguito a infezione all’età di 47 anni. Céline sentenzia: Pasteur 50 anni dopo spazzerà ogni dubbio sulla scoperta di Semmelweis, «Quanto a Semmelweis, sembra che la sua scoperta andò oltre le forze del suo genio. Questa forse fu la causa profonda dei suoi malesseri».

Amok, 1922

L’austriaco Stefan Zweig studiò Lettere e Filosofia e, come emerge dal Mondo di ieri, fu amico dei più grandi spiriti della sua epoca, uno fra tutti Sigmund Freud, di cui ammirò il genio incompreso dai contemporanei. L’amara consapevolezza di quanto lo circondava lo portò, già in esilio, al gesto estremo. Anche se poco conosciuta oggi in Italia, Amok, fu una delle opere con cui l’autore si fece notare dal pubblico.

La novella fu pubblicata su una rivista viennese nel 1922. Conta meno di 100 pagine, con capitoli separati da spazi bianchi e asterischi, senza numerazione o titoli. Nell’incipit le coordinate spazio-temporali sono subito chiarite con un’anticipazione del finale: nel mese di marzo del 1912 nel porto di Napoli avvenne un incidente a cui i giornali diedero molto risalto, ma la cui dinamica non fu affatto chiara. La voce narrante parla in prima persona «non mi fu più possibile che agli altri di essere testimone di questo evento singolare».

Dopo circa cinque pagine di descrizioni della nave, dell’atmosfera che regna a bordo, delle impressioni del narratore, questi si imbatte in un personaggio che attraverso l’escamotage della confessione diventa il protagonista del racconto nel racconto. La cornice è tipica (ma possiamo anche dire topica, nel senso di topos, cioè ricorrente): un vecchio vuole confidare a un giovane il proprio segreto e alla fine del racconto il vecchio è disperso in mare. Questo procedimento ricorda molto il racconto di Tomasi di Lampedusa La Sirena, in cui un vecchio, prima di partire per un viaggio in nave, racconta al giovane narratore un segreto (racconto di un incontro amoroso ambientato in un luogo diverso e mitologico) per poi nel finale precipitare dalla nave.

Se il teatro d’azione della cornice è la nave Oceania, che conduce i due passeggeri-narratori da Calcutta in Europa, il racconto nel racconto, il segreto che il vecchio medico confessa a un altro passeggero, il nostro primo narratore, si svolge in Indonesia. Panismo, silenzio, mistero, notte, esotismo, «Ai tropici notte e giorno si assomigliano come gemelli», tutti ingredienti che preparano l’atmosfera. Il passeggero vuole confidarsi e si scusa di continuo ma impiega alcuni giorni per riuscire ad aprirsi e alcuni altri per poi raccontare tutto. Il racconto-confessione avviene di notte, cadenzato dal battito dell’orologio. La vicenda raccontata ha tempi leggermente più lunghi, alcuni giorni. Tra cornice e racconto esotico passa un tempo indeterminato. La voce del passeggero è incerta e balbuziente, dice di non volersi far vedere, di voler mantenere nascosta la propria identità. Il (primo) narratore accetta di buon grado la proposta di ascoltare la confessione, si ritira in cabina, ha un sonno pesante, agitato e pieno di visioni confuse. Poi invece è preso da una curiosità che lo tormenta, un’impaziente nervosismo: «Gli enigmi psicologici hanno su di me una sorta di potere inquietante: brucio in tutto il mio essere per scoprire il rapporto tra le cose, e alcuni individui possono provocare in me una sete di conoscenza che non è meno viva del desiderio appassionato di possedere una donna». Il narratore insiste perché il passeggero misterioso non se ne vada, capisce che vuole parlare: «Qualcosa mi attirava e disturbava». E sa che deve tacere per aiutarlo, finché finalmente dopo lunga esitazione il secondo narratore prende la parola: «Vorrei domandarle qualcosa, cioè vorrei raccontare qualcosa» poi dice di rendersi conto dell’assurdità di rivolgersi alla prima persona che incontra, ma di «essere in uno stato psichico terribile», che il silenzio lo rende malato, e che «un malato è sempre ridicolo per gli altri». Il primo narratore si domanda se l’altro sia folle o ubriaco. Il passaggio da un narratore all’altro è difficile, è fatto con lentezza per conquistarsi la fiducia del suo ascoltatore e di noi lettori.

Tema di questo scritto è il dovere che viene abilmente anticipato con una prolessi che prepara il racconto nel racconto:

  1. «Il dovere… di mostrare qualche buona volontà… il dovere di provare… Lei pensa dunque, lei anche, che abbiamo qualche dovere… che abbiamo il dovere di offrire la nostra buona volontà»
  2. «Vede, io sono un medico. E, per un medico, ci sono spesso di questi casi talmente terribili!… Sì, diciamo dei casi estremi, dove non si sa se abbiamo il dovere… In effetti, non esiste qua un dovere unico, quello che abbiamo verso gli altri e anche un dovere verso se stessi, un dovere verso lo Stato e un altro verso la scienza»
  3. «Se io vi domandassi di afferrarmi e gettarmi dal ponte… Qui di certo si blocca la compiacenza, l’obbligo (..) Il dovere è, a colpo sicuro, limitato…O forse il dovere questo dovere per un medico non si fermerebbe davanti a niente? (…) Sì, il dovere, il dovere si ferma da qualche parte… là dove non si ha più il potere di compierlo, precisamente là… ». «Vorrei chiederle, vorrei esporle un caso nel quale si tratta di sapere se abbiamo il dovere di rendere servizio»

Questa insistenza sul dovere del medico non può che rimandarci alla novella e dramma di Pirandello, Il dovere del medico (1911), in cui il protagonista medico è chiamato a salvare un uomo coinvolto in un adulterio ma che non vuole essere salvato. Come vedremo, anche qui il medico è posto davanti a una scelta difficile che consiste nell’assecondare la volontà del paziente a discapito della sua salute e quindi andando contro il dovere (morale) di ogni medico di salvare i propri pazienti: «Dunque vorrei raccontarle un caso. Supponiamo un medico in una… piccola cittadina… o piuttosto in campagna… un medico che… un medico che…».

Risulta molto efficace questo escamotage di procrastinare l’inizio del racconto, possiamo immaginare l’autore Zweig, chino sulla pagina, che non trova il giusto incipit alla sua storia e questa indecisione la trasferisce al personaggio protagonista del racconto nel racconto che diventa a questo punto voce narrante (con un procedimento analogo a quello di Tomasi di Lampedusa per Lighea).

«No, non è questo. Bisogna che le racconti tutto direttamente, dall’inizio; altrimenti non comprenderà… una cosa simile, non può essere presentata come un esempio, come una teoria (…) Davanti a me la gente si mette e nudo, mi mostra le proprie urine e escrementi… Quando si chiede assistenza, non bisogna tergiversare, bisogna dire tutto… Non è il caso di un medico immaginario che le sto per raccontare. Io mi metto (a) nudo, e dico: Io…»

Il medico dopo una lunga esitazione, vari tentativi di inizio del racconto, sempre rivolgendosi al suo ascoltatore prescelto, aumenta l’effetto di realtà dicendo di adottare nel confessarsi (e nello scrivere) la modalità che caratterizza il rapporto medico paziente (il presupposto simmetrico ma capovolto della medicina narrativa): mettersi a nudo come fanno i pazienti con lui nel momento in cui chiedono assistenza, cosa che, inoltre, come vedremo, rimprovererà tra sé e sé alla sua paziente.

Una volta iniziato il racconto nel racconto si parte con un antefatto. Il vecchio passeggero racconta di aver studiato Medicina in Germania, essere diventato dottore, un buon medico, con un posto nella clinica di Lipsia e con il primato di aver fatto per primo una certa iniezione. Ma una storia di donne lo aveva condotto fuori strada: dopo aver rubato dalle casse dell’ospedale fu scoperto, costretto a fuggire per lo scandalo e dare «le spalle all’Europa». La condotta del medico, soggetto e preda di passioni, lo rende vulnerabile, anche questa è una prolessi, o se vogliamo una premonizione e una spiegazione, o attenuante a quanto accadrà in seguito.

L’Europa, dopo quello del dovere, è il secondo tema di questo racconto. Col senno di poi, noi lettori di oggi sappiamo quanto a Zweig stesse a cuore il destino dell’Europa. Ai suoi tempi fu senz’altro un antesignano, non si riconosceva in una patria-nazione, ma, quasi profetico, in un’Europa unita ante-litteram (pensiamo agli Appelli agli Europei e in particolare al discorso preparato per l’Accademia d’Italia e mai pronunciato: La disintossicazione morale dell’Europa, 1932 e all’altro discorso mai tenuto a Parigi, scritto intorno al 1934 e intitolato L’unificazione dell’Europa). Il medico arrivato in India prova nostalgia per l’Europa, per gli Europei. I pochi Europei che vedeva lo infastidivano, si mise a bere e ad aspettare di poter tornare in Europa, sarebbe stato libero di tornare e cominciare una nuova vita, «non faceva che attendere, e starebbe ancora ad attendere se lei…». Nessuno andava a fargli visita, nessun Europeo, era completamente malato d’Europa, leggeva un romanzo sull’Europa, «strade chiare e donne bianche, preso da una nostalgia febbrile, furiosa e debilitante… finché non bussano alla porta. Una signora è lì, una donna bianca, una lady (siamo in una colonia), che gli si rivolge con: «Buongiorno Dottore!».

Le riflessioni che accompagnano la confessione del narratore medico condiscono il dialogo in discorso diretto succinto. Interrogativi che si ripetono e avvicinano il lettore al racconto nel racconto. La signora dice che è «il solo al bisturi di cui fidarsi», ma non svela subito il motivo della visita. Il medico risponde che sarebbe per lui un onore essere al suo servizio, ora o quando le potrebbe far piacere. La signora allude al proprio stato: debolezza, vertigini, nausea. Il secondo narratore (ci) confessa che gli piaceva lasciarla nell’attesa, chiede notizia di altri sintomi e poi, al presente, con effetto, mi si conceda ‘iperrealista’: «Esito un istante. Da un po’ sento sorgere in me un sospetto, sento che questa donna vuole chiedermi qualcosa. Non si viene in un deserto per parlare di Flaubert… ». Poi le dice: «Posso farle liberamente qualche domanda?». La donna, calandosi nei panni della paziente, risponde in modo molto eloquente: «Certo dottore, lei è il medico». Il racconto nel racconto è prevalentemente un dialogo. Il medico le chiede se abbia avuto figli e se abbia avvertito la stessa sintomatologia. La signora cambia tono di voce, non più nervosa. Lui chiede di visitarla e lei risponde che non ce n’è nessun bisogno perché è sicura del proprio stato. Il pathos e la tensione crescono. Segue la descrizione della reazione emotiva, dello stato d’animo del medico, che confessa di avere sempre avuto un debole per l’orgogliosa freddezza femminile.

Medico e paziente, fiducia e franchezza. La paziente sostiene di avere un problema al cuore, di non essere in buona salute. Il personaggio medico dice di volersene occupare. Lei risponde: «Ho problemi al cuore, dottore, e la prego di credere a quello che le dico. Non vorrei perdere tempo in esami. Lei può, io credo, avere più fiducia in me. Da parte mia, almeno, ho testimoniato abbastanza la mia fiducia in lei». Il tema della fiducia, sempre cruciale nei rapporti tra personaggi medici e personaggi pazienti, come in Axel Munthe, che aveva indicato la fiducia come principale responsabile del proprio successo è qui affiancato a un’altra caratteristica essenziale della relazione medico-paziente: il narratore (ci) dice, «Ora era la lotta, una sfida dichiarata, l’accettai»; e il personaggio medico alla sua paziente: «La fiducia domanda franchezza, una franchezza senza riserve. Parli chiaramente, io sono medico». (L’identità di medico reclama la franchezza del paziente).

Paziente: «Dottore lei sa cosa mi aspetto da lei o non lo sa?»

Medico: «Credo di saperlo ma è meglio che non ci sia ambiguità. Lei vuole mettere fine al suo stato… Lei vuole che io la sbarazzi delle sue debolezze, delle nausee, sopprimendone la causa?»

Paziente: «Sì»

Medico: «Sa, questi tentativi sono pericolosi per entrambi le parti»

Paziente: «Sì»

Medico «E che la legge me lo impedisce?»

E così vanno avanti in un dialogo che sembra un duello. La paziente dichiara «Non voglio i suoi colleghi, è lei che sono venuta a trovare». Questa risposta, possiamo immaginarlo, a contribuisce al transfert emotivo di cui il medico sarà vittima: le chiede spiegazioni di questa scelta. Dopo avergliele date (consistono nella bravura, nella stima, nella fiducia e anche nel fatto che non si conoscono) la lady gli propone una somma di denaro in cambio della promessa di lasciare per sempre il paese subito dopo l’intervento (e con ciò implicitamente mantenere il segreto).

Ma il medico, che ha appena ricevuto l’offerta che più avrebbe potuto allettarlo, fare ritorno in Europa con una cifra da capogiro, non sente ragione, e noi lettori avvertiamo che è una questione passionale a fermarlo: «Per poter aiutare gli altri bisogna sentire che gli altri hanno bisogno di noi». Vuole essere supplicato (cosa c’è di più sensuale di essere supplicati?) dalla paziente che invece si mette ostinatamente a negoziare. Ecco che la tensione erotica emerge con tutta l’abilità narrativa di Zweig: «M’irritava, m’inquietava, m’incitava, con il suo orgoglio, a resistere, eccitava a tenerle testa». E le dice: «Io desidero innanzitutto che lei, che lei mi parli non come a un negoziante, ma come a un essere umano. Che se lei ha bisogno di assistenza, lei non proponga il suo denaro, ma che lei preghi l’essere umano che io sono di aiutarla, di aiutarla, lei anche è un essere umano. Io non sono solo un medico, io non ho solo «ore di visita», ci sono anche per me altre ore… Forse lei arriva in una di queste ore…». Il medico vuole uscire dal proprio ruolo, vuole essere trattato da uomo – Zweig mette in scena una situazione rovesciata, sappiamo quanto il transfert sia più frequente da parte dei pazienti nei confronti dei medici. La paziente, ostinata, risponde: «Dunque se io la pregassi lei lo farebbe?». Ma il medico non vuole fare un affare, non vuole fare promesse, vuole essere pregato. Siccome la paziente non cede: «Poiché lei non vuole pregarmi, sono io che l’esigerò. Credo che non ho bisogno di essere più preciso. Lei sa cosa desidero da lei. Poi… Poi la aiuterò» (sta alludendo, è chiaro, a uno scambio carnale). A quel punto, il lettore lo avverte, il dado è tratto: la paziente guarda il medico con disprezzo e gli ordina di non seguirla. Il medico, consapevole di non voler rinunciare a quella donna, (ci) confessa di essere pronto a tutto per lei, capisce anche con immediata disperazione che è una battaglia già persa, la signora è risoluta, non gli lascia nessuno spazio di trattazione. Seguono due pagine di riflessioni del medico. Subentrato lo stato di amok, il medico perde il controllo, preda della passione febbrile, non è più padrone di se stesso: «Come medico avevo sempre potuto fare una diagnosi del mio stato. Ma a partire da quel momento fui preso come dalla febbre… Oggi credo che avessi la febbre; in ogni caso mi trovavo in uno stato di sovraeccitazione confinante con la follia – ero un amok, come le dicevo».

Si informa su di lei, su cosa faccia lì, scopre che è la moglie di un commerciante partito da cinque mesi, che sta per tornare a prenderla, mentre lei è incinta di massimo tre mesi (dunque di un altro). Cerca di rivederla, poi va dal viceresidente (sic) a chiedergli di essere trasferito nella sua città, dove vive anche la donna: « Mi guardò… non posso dirle in che modo… all’incirca come un medico guarda un malato». Il collega fa una rapida diagnosi «è una depressione nervosa, caro dottore, fece quello, e io la capisco benissimo. Lei si è privato della vita sociale, e questo, alla lunga, degenera in malattia. Ci siamo tutti meravigliati che non sia mai venuto in città, che non abbia mai preso congedo. Lei ha bisogno di mondanità, di distrazioni. Venga dunque stasera c’è la reception dal governatore, ci troverà tutti i membri della colonia». (Come in Céline, il medico è esaurito, ha un problema di salute mentale).

Segue un ricevimento dove incontra la paziente, grande suspence, avverte la sua presenza, è preda di uno stato di eccitazione. Con il suo comportamento dimostra di conoscerla, mentre la signora dagli occhi grigio verdi fa di tutto per salvare le apparenze per tenere nascosto il segreto. Lo stato di amok lo porta a pensieri suicidi. Poi scrive una lettera di venti pagine in cui le dice di essere pronto a tutto per aiutarla, le chiede di accordargli fiducia. Consegna la lettera. Poi, come la prima volta era arrivata la lady, adesso un boy bussa alla sua porta: «come quickly!». (Ricordiamo anche le bussate notturne alla porta del medico dei Racconti di un giovane medico di Bulgakov).

Ecco come nella cornice il vecchio racconta al giovane: «Si era lasciata assassinare da una strega del diavolo piuttosto che affidarsi a me perché, insensato che fui… perché non avevo controllato il mio orgoglio, non l’avevo aiutata immediatamente, perché mi temeva più della morte». La trova in fin di vita inondata di sangue a causa di un aborto improvvisato ed è suo malgrado (come Il medico di campagna di Kafka e il medico di Morfina di Bulgakov) impotente: «non ero che un medico».

Il medico: «Dobbiamo andare immediatamente in ospedale».

La paziente: «No, no, piuttosto morire, che nessuno sappia, nessuno, a casa mia, a casa mia».

Lottava non per rimanere in vita ma per conservare il segreto, salvare l’onore. Il tema del dovere, della responsabilità nei confronti della vita umana e la contrapposizione con il senso etico di giustizia è uguale a quella presente nella novella di Pirandello sopramenzionata. In entrambi i casi i pazienti preferiscono la morte al disonore o alla sofferenza, in una situazione di tradimento commesso o subito. Cosa che provoca una crisi di coscienza e una messa in discussione del ruolo della funzione del medico. Il medico asseconda la volontà della paziente, l’onore a discapito della vita. Il suo dovere di medico è stato messo duramente alla prova. Una volta deciso di non portarla in ospedale, sa che non potrà salvarla.

La trasportarono a casa «e poi iniziò la lotta, la lunga lotta contro la morte» (come in Morfina di Bulgakov). «Ho visto spesso la morte in medicina, l’ho vissuta una volta sola» (allude alla passione amorosa che lo lega alla paziente e che gli fa vivere quest’esperienza in un modo molto più profondo. La differenza magistralmente è tutta nella contrapposizione tra il verbo vedere e il verbo vivere). L’impotenza del medico è reiterata, come una condanna: «Essere medico e non trovare niente, niente, niente» (sa che la lotta con la morte è impari, come in Kafka, il medico non può guarire la paziente e ne soffre, in questo caso con pene accresciute dalla violenta passione amorosa da cui è stato irrimediabilmente preso).

Il segreto pattuito sul letto di morte suggella la vicenda iniziata con una confessione.

Paziente: «Nessuno lo saprà? Nessuno?»

Medico: «Nessuno, dissi con la più grande convinzione, glielo prometto».

Paziente: «Me lo giuri».

Medico: «Alzai la mano come quando si presta giuramento. Mi considerò con uno sguardo indicibile, era tenero, caldo, riconoscente».

Se soddisfare la volontà della paziente consiste non nel salvarle la vita ma nel mantenere il segreto della gravidanza extraconiugale, la ricompensa per il medico sta nello sguardo riconoscente, seppur in fin di vita, della paziente. Dopo la morte: «Per lei era finita ma non per me. Ero solo con il cadavere. Inoltre solo in una casa straniera in una città che non aveva segreti, e io dovevo mantenere un segreto». Arriva il medico di stato civile (antagonista) persuade il medico a mantenere il segreto, anche se «non vuole mia che io copra un crimine? Per coprire il suo crimine, io dovrei… ». Il nostro medico lo supplica promettendogli di partire e se necessario di uccidersi. Anche il medico di stato civile acconsente alla deroga: «Sarà la prima volta della mia vita che firmerò un certificato falso». Entra infine in scena il giovane amante della donna, verso il quale il nostro non prova gelosia proprio perché è giovane, un adolescente, innamorato come lui, prova anzi un sentimento di fraternità e (con paternalismo e mettendosi in una posizione di superiorità) mantiene la promessa, non gli confessa il segreto della gravidanza e dell’aborto…

Finale-cornice: il primo narratore dice al secondo che andrà a fargli visita in cabina, ma il medico non vuole e dice «Ah… Il suo famoso dovere di aiutare». Segue la narrazione dell’incidente nel porto di Napoli mentre il nostro primo narratore è in città su via Roma: la bara di una olandese precipita in mare portando con sé i portantini e il marito che poi vengono recuperati. Il giorno dopo viene recuperato anche il cadavere di un altro uomo che però non viene messo in relazione (non ci è detto che si tratta del medico).

***

Per concludere riprendiamo la novella di Pirandello Il dovere del medico e affianchiamola a quella di Zweig: in Pirandello il medico si trova in una situazione moralmente difficile, svolgere il proprio dovere, cioè salvare il paziente, o assecondarne la volontà lasciandolo morire. Il tema del dovere, della responsabilità nei confronti della vita umana e la contrapposizione con la volontà dell’individuo, in un contesto passionale ed extraconiugale, è esattamente lo stesso che abbiamo visto in Zweig. In entrambe le novelle di un secolo fa i pazienti preferiscono la morte alle conseguenze legate a un tradimento. I personaggi medici devono assumere su di sé la responsabilità della scelta e lo fanno in modo opposto: il medico pirandelliano salva il proprio paziente, costringendolo a saldare il debito con la giustizia, mentre il medico di Zweig si attiene all’ultima volontà della propria paziente, sacrificandone la vita. Infine, come abbiamo visto, in testi che hanno origine, finalità e pubblico diversi, sia Céline che Zweig mettono in evidenza il tema della maternità e della fragilità femminile legata alla gravidanza, al parto e all’aborto; attraverso i personaggi medici di Semmelweis e Amok, a dispetto di convenzioni e istituzioni, i due autori se ne ergono a difensori.

 

L'autore

Ilaria de Seta
Ilaria de Seta
Ilaria de Seta si è formata all’Università di Napoli Federico II, ha perfezionato gli studi all’University College Cork e insegnato all’Université de Liège. Attualmente vive a Bruxelles, è Research Associate alla Katholieke Universteit Leuven e Freelance Editor presso la casa editrice Peter Lang. Ha dedicato numerosi studi alla rappresentazione dello spazio nella narrativa otto-novecenetesca e alla parabola intellettuale di Giuseppe Antonio Borgese. Ultimamente si sta concentrando sull'opera di Federigo Tozzi e sulla rappresentazione di medici e pazienti nella letteratura europea moderna e contemporanea.