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Un secolo dopo l’Impolitico di Thomas Mann: il manifesto antiglobalista di Alexander Dugin

 1. Nel lontano, ma non poi così lontano, 1918, Thomas Mann dava alle stampe quel libro straordinario che sono le Considerazioni di un impolitico. Libro datato, farcito di digressioni su episodi lontani, eppure attualissimo nella lucida impostazione del tema di fondo: la Grande Guerra vista dalla Germania conservatrice come scontro di civiltà, e più esattamente come scontro frontale tra la Kultur (tradizionale, gerarchica, legata ai valori nazionali) e una Zivilisation incarnata in primo luogo dalla Francia illuminista, ma anche dall’Italia massonico-risorgimentale, dal Regno Unito e, sullo sfondo, dall’America emergente. Il Zivilisationsliterat, figura-simbolo, per Mann, del fronte occidentalista o atlantista, è quello che oggi chiameremmo l’«intellettuale liberal», pronto a sposare – nel giornalismo, nell’accademia, nelle professioni, ovunque – gli ideali progressisti di un Occidente atlantico avviato già allora alla conquista del mondo: non solo di territori coloniali, ma dei «cuori e delle menti».
A distanza di un secolo, Alexander Dugin riprende e radicalizza la prospettiva manniana dello scontro di civiltà, dove il fronte della Kultur, il fronte anti-liberale, non è la Germania guglielmina ma una vasta, alla fine planetaria, coalizione di «civiltà» refrattarie all’egemonia occidentale: una coalizione virtuale (ma ci sono segnali poderosi di una trama politica in via di rafforzamento: i Brics), e di cui Dugin, filosofo russo e apertamente slavofilo, vede nella Russia odierna il baluardo (di qui l’attribuzione alla Russia di un ruolo «katechontico» cioè frenante, come un argine al vortice moderno) e in se stesso il teorico, l’ideologo.

Tentare una valutazione del pensiero di Dugin dal recentissimo manifesto Contro il Grande Reset. Manifesto del Grande Risveglio (Aga Edizioni 2022) sarebbe riduttivo: Dugin ha scritto molto, e in termini molto più «filosofici», più tecnici, di quanto non appaia in queste pagine, che sono però un manifesto a pieno titolo, una chiamata alle armi, dove ai «proletari di tutto il mondo unitevi» subentra un «popoli di tutto il mondo unitevi», e il fantasma che si aggira è quello di una presa di coscienza «populista» nel senso che Dugin ritiene positivo del termine. La presa di coscienza collettiva del fatto che l’alta finanza e l’alta tecnologia (Big Finance e Big Tech) a guida essenzialmente americana mirano – ecco il Grande Reset – a rilanciare a marce forzate il progetto-globalizzazione: volto a esportare ovunque il modello e i «valori» occidentali, sopprimendo le identità locali – tradizioni, culture – nello spazio uniforme di un pianeta colonizzato dalle nuove tecnologie. E non solo le identità locali, perché la fase ultima, accelerata, del processo di globalizzazione mira al superamento della stessa identità umana intesa come natura umana, a favore di una post-umanità artificiale, ibrida, ottenuta modificando il genoma umano e accoppiandolo ai dispositivi nanotecnologici: col risultato di un uomo-cyborg, di fatto appendice dell’Intelligenza Artificiale.
Nell’individuare il bersaglio, il nemico geopolitico, Dugin non ha rivali: la pars destruens del suo discorso è implacabile e coerente. Tra l’altro, un motivo di indubbio fascino è la genealogia del globalismo liberal, rintracciata nel nominalismo medievale e nella sua lunga eredità: una cultura moderna orientata a isolare l’individuo dai suoi legami collettivi, anzi alla distruzione delle identità collettive (le appartenenze religiose e nazionali, le tradizioni comunitarie in senso lato). La libertà esaltata dal liberalismo, e immortalata nel celebre colosso newyorkese, è la libertà dell’individuo isolato, atomizzato, faber fortunae suae, e perciò strappato da quei contesti di senso che fondano – attraverso complesse articolazioni simboliche – le civiltà tradizionali. È su questo terreno dell’individuo atomizzato che matura il moderno capitalismo, affiancato da una tecnologia che, secondo l’intuizione heideggeriana, cresce inarrestabile come volontà di potenza (sempre più potente) dell’individuo sull’ente, sulla natura ridotta a puro ente.
Il delinearsi di una opposizione interna alla marcia del capitalismo globalista – una opposizione che ha fermato, per quattro anni, il progetto liberal, con l’«incidente di percorso» della presidenza Trump – segnala tuttavia un potenziale di resistenza che il manifesto duginiano chiama all’appello, con la formula un po’ enfatica del Grande Risveglio. All’internazionale delle élite globaliste si contrappone l’internazionale dei popoli e delle tradizioni. C’è infatti, in Dugin, un encomiabile primato della geografia. La ripartizione del pianeta in aree geografiche e geopolitiche, aree di civiltà e zone di influenza, è lo «zoccolo duro» che si oppone alla «pialla» della globalizzazione occidentale. Primato encomiabile, che fornisce un solido fondamento teorico alla rivolta delle masse minacciate dal diluvio global.  Quale peso assegnare alle diverse componenti delle civiltà «in rivolta»? a quella religiosa, a quella politica? il manifesto oscilla tra il primato delle culture politiche (al plurale) e il primato delle tradizioni spirituali e religiose. Quello che è indubbio è però l’intento di convocarle su un piano di parità assiologica, evitando il rischio di un sincretismo che assumerebbe fatalmente, sul piano delle tradizioni, una fisionomia «newageana».

2. Il programma, qui solo enunciato, è quello di un «patto» tra le grandi tradizioni, contrapposte al delirio unipolare globalista. Non c’è, in Dugin, il rischio di un «esperantismo» multireligioso, che si muoverebbe – come l’infelice e grottesco Esperanto – proprio sulla scia dell’universalismo massonico anglosassone. Ed è bella l’immagine delle tradizioni paragonate ad altrettante «ali angeliche», che saranno anche le ali di un unico Simurgh, ma conservano, ciascuna, la propria inconfondibile identità.
Non si può negare tuttavia che sia proprio il ruolo delle «tradizioni» chiamate all’appello a suscitare qualche perplessità. Sono quei passi del «manifesto» (e delle Appendici che lo corredano) in cui il filosofo russo definisce il «grande risveglio» come un «processo di formazione, creazione e manifestazione» di una «nuova concezione spirituale della storia». Una concezione, beninteso, fondata su una critica radicale della modernità occidentale: ma in che senso – ci si domanda – sarebbe una «nuova concezione della storia»? E così, quando evoca l’avvento di «un’altra tradizione», non si affaccia qui l’utopia di una tradizione finale, vista come compendio delle tradizioni esistenti, e di cui la Quarta Teoria Politica (a cui Dugin ha dedicato un saggio importante nel 2009) tenta di fornire le coordinate generali? Il timbro profetico di queste pagine, e l’assenza di riferimenti concreti al simbolismo metafisico delle varie «vie» (cristianesimo e islam, buddismo e confucianesimo, induismo e culti sciamanici), può autorizzare il sospetto che le diverse tradizioni fungano qui più che altro da piattaforma-base, da riserva strategica in vista di una «neo-tradizione» di cui la Russia multietnica e multireligiosa potrebbe essere, non a caso, la matrice non solo «katechontica» ma anche appunto «profetica». L’immensa varietà delle forme politiche, culturali, giuridiche e religiose offerta dalle culture non-occidentali e non-moderne va assunta – scrive Dugin – come fonte ispiratrice al fine di creare qualcosa di nuovo, «come stella polare per la creazione della Quarta teoria politica».

Che le tradizioni (al plurale) «funzionino» così, come sorgente ispiratrice, risulta chiaro dalla disinvoltura con cui Dugin attinge, per esempio, e in altri scritti, al mondo classico (suggerendo la triade Apollo, Dioniso e Cibele come figure-guida di una nuova antropologia), al pensiero classico e poi cristiano medievale (dove Platone e Aristotele convivrebbero con Taulero e con Boehme), ma anche a un certo esoterismo cristiano-germanico (a cui allude il recente I Templari del Proletariato, dove la figura sacrale dei cavalieri del Graal si fonde con la sacralità impropria, tutta umana, della tradizione bolscevica). È questa ansia di novità (e di superamento) rispetto alle grandi tradizioni esistenti, a lasciare perplessi. Come se maturasse in Dugin l’idea post-gioachimita di una «quarta aetas» (la Quarta Teoria Politica, appunto), di un nuovo e definitivo «sigillo» delle profezie.
E si affaccia, a questo punto, una suggestione che richiederà verifiche più attente: che la reazione anti-occidentale e anti-moderna di Dugin ricordi non poco la reazione anti-illuministica e anti-moderna dei primi Romantici tedeschi, e quella utopia filosofico-letteraria che un celebre manifesto di quegli anni annunciava come una «nuova mitologia», nata a partire dal vasto repertorio delle mitologie e delle religioni esistenti. Non sarà che l’idea duginiana di un’«altra tradizione» filosofico-religiosa rilancia inconsapevolmente l’utopia neo-mitologica di Friedrich Schlegel, del giovane Schelling?  Ma l’idea di una mitologia «costruita», sia pure in aperto contrasto con l’ideologia dei Lumi, è pur sempre una proiezione verso un futuro, che diventa nei Romantici l’attesa di un «dio a venire» (su cui si veda l’ampia ricerca di Manfred Frank, Der kommende Gott [Il dio a venire], 1982/1994).  Se Adorno e Horkheimer parlavano di una «dialettica dell’Illuminismo» (ossia l’Illuminismo che genera il suo contrario), avremmo qui una dialettica del romanticismo, e nel caso di Dugin una dialettica dell’antiglobalismo: che rischia di generare, malgrado tutto, il suo contrario, nella forma di una «globalizzazione tradizionale» dal dubbio significato tradizionale.

flavio.cuniberto@tiscali.it

 

 

 

 

 

 

L'autore

Flavio Cuniberto
Flavio Piero Cuniberto insegna Estetica all’Università di Perugia. Ha studiato a Torino, a Monaco di Baviera e a Berlino. Il filo rosso della sua ricerca, dalle molte facce (la cultura tedesca tra l’età barocca e il ‘900, il platonismo classico e post-classico, la storia dell’arte occidentale come repertorio di stili e di temi simbolici, le ideologie politiche) è lo studio della modernità come civiltà «anomala», definita da un programmatico allontanamento dal mondo tradizionale. E quindi, rovesciando la prospettiva, lo studio delle «tracce», delle persistenze di un orizzonte tradizionale - dove non c’è esperienza profana che non rimandi a un archetipo sacro, metastorico – nella stessa modernità. Tra le sue pubblicazioni più recenti: La foresta incantata. Patologia della Germania moderna (Quodlibet 2010); Il Vortice Estetico. Elementi per un’estetica generale (Morlacchi 2015), I paesaggi del Regno (Neri Pozza 2017), Strategie imperiali. America, Germania, Europa (Quodlibet 2019),  Viaggio in Italia (Neri Pozza 2020), L’onda anomala. Cronaca filosofica della pandemia (Medusa 2021).