In primo piano · La scoperta

Un Montale ritrovato tra le carte di Max Reinhardt

L’immagine di copertina è di Enrico Pulsoni

31 maggio 1933, ore 21. Nel Giardino di Boboli a Firenze va in scena, per la regia di Max Reinhardt e sulle musiche di Mendelssohn, il Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare, uno dei due spettacoli all’aperto in cui culmina la prima edizione del Maggio Musicale Fiorentino (il 2 giugno è la volta della Santa Uliva di anonimo del XVI secolo, per la regia di Jacques Copeau, nel chiostro del Brunelleschi in Santa Croce). La traduzione del Sogno è di Paola Ojetti, figlia dell’influentissimo Ugo, vero e proprio arbitro della vita culturale fiorentina e figura di spicco nell’organizzazione del Maggio. Il libretto di scena, prezioso documento della serata assieme alle pochissime foto e ai figurini per i costumi (disegnati da Titina Rota), reca sul frontespizio: Sogno di una notte d’estate. Commedia di Guglielmo Shakespeare, riduzione teatrale di Max Reinhardt, traduzione italiana di Paola Ojetti, Firenze, Tipografia Enrico Ariani, 1933.

La versione, in verità, non è tutta di Paola, che si occupa sì del grosso del testo – portato a tre dai cinque atti originari e tradotto in prosa – ma lascia la resa delle parti ‘cantate’ a Eugenio Montale, secondo un accordo, condiviso col segretario del Maggio Guido Gatti, che non trova tuttavia espressione nel libretto, dove il nome di Montale non compare. È Silvio d’Amico, vicinissimo agli Ojetti e coinvolto nelle attività del Maggio, a risarcire il traduttore di una onorevolissima menzione: «La parola del poeta», scrive nella sua recensione, «è stata volta in svelta prosa italiana da Paola Ojetti, col concorso del Pastonchi e del Montale per le brevi oasi di versi obbligati». «Del Pastonchi e del Montale»: ecco che inaspettatamente i traduttori delle parti in versi diventano due. Francesco Pastonchi ed Eugenio Montale, il vecchio e il giovane, il poeta âgé – amico e coetaneo di Ojetti, additato dai cronisti fra gli spettatori illustri accanto a Pirandello, Respighi, Toscanini – e il poeta della generazione nuova, punto di riferimento già definito della poesia e della critica e da qualche anno solerte guida del Gabinetto Vieusseux in una Firenze dalle molte identità. Eppure la coppia di traduttori – se di coppia davvero si tratta – rimarrà fantasma: scarsi e fiochi i riconoscimenti nel corso degli anni, tanto da essere sfuggiti persino ai curatori dell’Opera in versi, l’edizione critica di Gianfranco Contini e Rosanna Bettarini che fu approntata col contributo, sia pure distaccato e talvolta distratto, dello stesso Montale.

Di certo la storia editoriale del testo non ha aiutato. Intanto, di quale testo parliamo? E quale fu il reale contributo di Pastonchi? Nel Quaderno di traduzioni, edito per la prima volta nel 1948, Montale include sei brani dal Sogno shakespeariano, che intitola Frammenti di una riduzione del Midsummer-Night’s Dream. Corrispondono ad altrettante sequenze tradotte nel ’33 (su un totale di ventitre, per circa 260 versi complessivi), ma le accompagna una dichiarazione alquanto sfocata: «I brani del Midsummer sono del ’33; alcuni di essi dovevano adattarsi a musiche preesistenti, e qui sarebbe inutile attendersi una fedeltà letterale al testo». C’è l’anno, il 1933; ci sono le «musiche preesistenti»; c’è persino, nel titolo, il riferimento a una «riduzione»; ma manca l’occasione, il primo Maggio Musicale: memorabile proprio per la versione reinhardtiana del Sogno. Il lettore del ’48 poteva sciogliere forse il rebus. Ma con gli anni la chiave era destinata a perdersi. Né avrebbe aiutato la seconda edizione del Quaderno, del 1975, in cui la nota che abbiamo letto viene rimossa in favore di un’avvertenza ancora più generica.

Una questione privata

Anzitutto è da chiedersi perché, nel raccogliere i Frammenti, Montale abbia deciso di tacerne l’occasione. Sicuramente il tono della Nota al Quaderno del ’48 è, nel complesso, elusivo: conta l’oggi, sembra di leggere fra le righe, conta che queste versioni poetiche – «briciole», detto con evidente (e falsa) diminutio – siano raccolte in volume per disegnare un cammino, una traccia che resiste: frammenti dopo il grande naufragio, shored against my ruins avrebbe detto Eliot, quell’Eliot che, con Guillen, è evocato nella stessa nota come il più antico autore di confronto, con versioni che risalgono al 1928-29 (sono gli anni in cui la seconda edizione degli Ossi, 1928, acquista la sua curvatura più eliotiana, con le nuove poesie aggiunte e fra esse Arsenio, che viene tradotta da Praz per il «Criterion» di Eliot). Di fatto, il Quaderno di traduzioni è per Montale il primo libro di poesie del dopoguerra, anche se altri grandi pezzi, La primavera hitleriana e Voce giunta con le folaghe, avevano visto la luce immediatamente dopo il conflitto, magari accompagnate proprio dal controcanto della traduzione (la seconda compare su «L’immagine» nel ’47 assieme alla versione di tre sonnets shakespeariani). Sono liriche in cui i fili della poesia storica, civile, filosofica e autobiografica si stringono in un nodo inscindibile, ed è significativo che accanto ad esse la voce del poeta si faccia sentire anche per interposta persona, in una personale antologia di interlocutori poetici che è anche una piccola, preziosa antologia della cultura europea d’età moderna. Dentro un orizzonte storico che comprende il sentimento di un nuovo inizio e insieme la denuncia, ora aperta, degli «alalà di scherani» che avevano funestato gli anni del Ventennio, possiamo ipotizzare che, quanto ai Frammenti del Midsummer, nel ’48 fosse ancora troppo fresco il ricordo dei grandi eventi allestiti o incentivati dal regime, di cui il Maggio, pur nella raffinata interpretazione fiorentina, era stato ad ogni modo espressione. Non è forse lo stesso Montale, del resto, a ricordare gli «spettacoli di massa», le «rappresentazioni all’aperto nel giardino di Boboli» che tanto amava Dominico Braga, protagonista di una prosa del ’46, folletto «in maglia gialla» tra i folletti «evocati dal regista Max Reinhardt»? L’uso di un’espressione come «spettacoli di massa», nel ’46 e da parte di Montale, in un quadro d’ambiente che è anche una sottile diagnosi socio-culturale della Firenze d’anteguerra, non può essere anodino.

C’è però qualcos’altro. Se si punta la lente sull’occasione minuta, sul lavoro affidato al poeta per il Maggio fiorentino, il retroscena di quella versione si rivela tutt’altro che edificante. Le lettere a Solmi, leggibili da poco nel carteggio pubblicato da Francesca D’Alessandro, parlano chiaro: «Vivo – scrive Montale il 4 marzo 1933 – piuttosto tribolatamente e lo stipendio è diventato un mito. Inoltre ho perso ben due mesi per aiutare la figlia di Ojetti in una lunga (e gratuita!) traduzione per il Maggio Musicale». Il 12 ottobre, passato il Maggio: «come sai io non sono più amato dagli Ojetti». Fino alla lettera del 13 dicembre, la più importante: «Con Ojetti personalmente sono in rapporti buoni – ma ho detto e scritto cose poco parlamentari a sua figlia che dopo avermi fatto lavorare due mesi a prepararle i versi per il Sogno di Shakespeare non mi ha fatto nemmeno invitare allo spettacolo e ha fatto poi ritoccare il mio lavoro da… Pastonchi. Ma Ojetti ha voluto ignorare la nostra brouille; tanto meglio!». Unico riconoscimento era stato quello di d’Amico, cui si possono aggiungere le sibilline parole di un altro critico di vaglia, Andrea Della Corte, evidentemente anche lui ben addentro nei fatti del Maggio: «Ai frammenti versificati ha contribuito un buon artefice di poesia». Dopo, sarà solo qualche cenno, e in anni tardi. Una ‘confessione’ della stessa Ojetti del ’63 (Confessioni di professioniste “arrivate”: Un lavoro difficile, tradurre; sulla «Stampa» del 18 maggio): «Furono mesi terribili, in cui più della gioia dell’incarico ricevuto, della promessa che le canzoni le avrebbe tradotte Eugenio Montale e della vicinanza sempre vigile e affettuosa di mio padre ero sopraffatta dalla mole di Shakespeare: ero un pulcino al quale si chiedeva di scalare il Monte Bianco» (è curioso leggere una dichiarazione del genere, candida e senza grinze, da parte di chi, a due anni dall’uscita del Quaderno, aveva pubblicato una versione integrale del Sogno ricavata da quella del ’33, ricordando sì la rappresentazione del Maggio, «eccezionale sotto ogni punto di vista», ma non la collaborazione di Montale; e traducendo ex novo, poiché non più fruibili, proprio le sequenze in versi che erano entrate nel Quaderno). Infine, lo stesso Montale in un’intervista del ’76: «Ho fatto la parte verseggiata soltanto di qualche cosa del Sogno di una notte d’estate, che è stato presentato al Giardino Boboli di Firenze molti anni fa. Ma la traduttrice è Paola Ojetti. Io non figuro nemmeno». Parole che seguono di poco la seconda edizione del Quaderno, dalla quale nel frattempo la nota del ’48 era scomparsa.

Poi qualcosa ha cominciato a riemergere. Una lettera di Guido Gatti soprattutto, in cui il segretario generale del Maggio ringrazia Montale per il lavoro svolto (l’ha pubblicata Moreno Bucci, curatore degli archivi del Maggio, nel 1979). Scrive Gatti il 27 febbraio 1933: «La Signorina Ojetti mi dice che Lei ha terminato il Suo lavoro per il “Sogno” di Shakespeare e io mi affretto a ringraziarLa sentitamente per la Sua preziosa collaborazione che ci è stata di grande giovamento». Se consideriamo che nelle lettere a Solmi Montale parla di una fatica durata «due mesi», dobbiamo dedurne che l’incarico gli fosse affidato tra la fine del ’32 e i primi del ’33. Resta da quantificare – ed è l’aspetto più interessante – l’entità degli interventi di Pastonchi, corollario non minimo di una vertenza che aveva toccato i capi non solo del lavoro non retribuito e dell’autorialità misconosciuta (ed erosa dall’intervento di terzi), ma anche del mancato invito allo spettacolo. Ora, una copia del libretto di scena donata da Montale a Mario Praz («to M.P. / the bad poet / EM / 1933») aiuta, almeno in parte, a dirimere la questione. Vediamo meglio.

Postille e versi ritrovati

Il libretto di scena è il testo su cui Montale opera la scelta dei frammenti da inserire nel Quaderno (ho potuto mostrarlo in un lavoro recente, cui rimando per l’edizione critica di quei pezzi e per la ristampa delle altre sequenze in versi del ’33: si veda più giù la Nota bibliografica). La copia Praz conserva però alcune postille che offrono la possibilità di risalire addirittura, almeno per i passi annotati, alla versione originale di Montale. L’esemplare è stato reso noto da Vincenzo Crescente in un contributo del 2009, e Franco Contorbia, in un saggio uscito da poco, lo ha preso nuovamente in considerazione trascrivendo le postille: brevi ma significative annotazioni in margine a quattro segmenti in versi (non ripresi nel Quaderno). Due di esse chiamano in causa proprio Pastonchi.

Entra qui in campo però un altro testimone, di cui mi ero già servito per l’edizione dei Frammenti: il Regiebuch di Reinhardt, il ‘libro di regia’ utilizzato per il Maggio, ora conservato presso la Binghamton University dello Stato di New York. Si tratta di un grosso dattiloscritto rilegato, contenente il testo italiano del Sogno e le note autografe di Reinhardt, meticolosamente distribuite in più colori attorno al testo: reticolo di istruzioni che pianifica musiche ed effetti di luce, entrate e uscite, tono e stile della recitazione. È noto che per le abitudini di Reinhardt i libri di regia hanno valore di partiture pressoché obbligate, e restano documenti preziosi e in alcuni casi unici dello spettacolo. Ma il valore di questo esemplare è ancora maggiore, almeno per gli studi montaliani: conserva una forma testuale della traduzione sicuramente anteriore al libretto, e anteriore anche – ne abbiamo la certezza ora – agli interventi di Francesco Pastonchi. Due delle postille di Montale, si diceva, fanno riferimento a lui: su due sequenze metriche, accanto ai quattro versi finali, Montale tira una lineetta e scrive: «Pastonchi». (In un altro punto sembra volersi giustificare: «per musica / colle tronche / obbligate», scritto di fianco a una quartina obiettivamente kitsch: «ripetiamo il ritornel, / è ogni nota un’armonia; / il tripudio s’alzi al ciel, / benedetto l’amor sia», con un’eco non troppo riscattata della Canzona di Bacco; la quarta postilla è un «abbattono» accanto a «le mura battono / delle prigioni»).

Questo «Pastonchi» segnato di fianco a otto versi (quattro più quattro) sui circa 260 delle sequenze metriche del Sogno non deve indurci a pensare che gli interventi del poeta si riducano ai soli indicati sul libretto. Proprio il Regiebuch – a sua volta da trattare con le molle: è pur sempre una trascrizione anonima compiuta a fini pratici – conserva delle varianti che non trovano riscontro nelle postille montaliane, e che suggeriscono la massima cautela nel considerare il problema dell’autorialità su un testo così compromesso nella genesi e nell’approdo ai testimoni noti. D’altra parte si dà anche almeno un caso in cui il Regiebuch pare banalizzare una forma lessicale intensiva, attestata viceversa dal libretto, ma non accolta dal Quaderno del ’48 (si tratta del verbo «sforza», ridotto a «forza» nel Quaderno: «Fior scarlatto, ferito / dall’arco di Cupido, / forza la sua pupilla!»; forse per dissimilazione rispetto alla traduzione della Figlia che piange di Eliot, stampata qualche pagina dopo e anch’essa risalente al ’33: «Ella si volse, e col tempo d’autunno / sforzò per molti giorni la mia mente»). Cosa ne concludiamo? Questo: che se l’attribuzione a Montale della traduzione delle parti verseggiate è ormai certa per il testo nel suo complesso, è prudente sospendere il giudizio nel dettaglio, o per lo meno riguardo a quei dettagli che non trovano riscontro in posizioni autoriali certe assunte da Montale, nelle postille o nella versione del Quaderno. Detto più semplicemente, e relativamente al libretto donato a Praz: è verosimile che Montale si limiti ad additare soltanto i punti in cui l’intervento di Pastonchi era stato più cospicuo, quelli in cui la modifica aveva comportato la sostituzione in blocco della versione primitiva. Ora, è proprio su questa sostituzione che giunge in soccorso il Regiebuch, restituendoci il testo nella sua forma originaria.

Parla Puck: due sequenze tradotte da Montale

Avverto il lettore che non si troverà di fronte al miglior Montale – ma a un Montale, per così dire, gustoso, e sicuramente impegnato nella resa quanto più fedele, e intrigante a un tempo, di pezzi niente affatto facili.

Entrambi i brani vedono protagonista Puck. Nel primo – atto secondo, scena prima – il folletto cerca di porre rimedio al malaccorto incantamento degli amanti che ha provocato tanto scompiglio fra le coppie. Lisandro giace addormentato:

Sul terreno
dormi appieno:
i tuoi occhi
fa ch’io tocchi,
dolce amante, col mio farmaco.

(Unge gli occhi di Lisandro col succo d’amore).

E più tardi
negli sguardi
dell’amante
tante e tante
gioie al sorger troverai.
E il Proverbio che va di bocca in bocca
e dà ad ognuno quello che gli tocca,
voi vedrete, al risveglio, che non falla.
La sposa avrà il suo sposo,
l’uomo avrà la cavalla
e se Dio vuole tutto andrà pel meglio.

Così nel Regiebuch. Sul libretto cambiano gli ultimi quattro versi, con una ripercussione anche sui due precedenti:

[…]

E il proverbio che va di bocca in bocca
e dà ad ognuno quello che gli tocca.
Questo che Puck ha detto
certo non farà calo:
ogni vite ha il suo palo,
e tutto porterà foglia e fioretto.

Per meglio saggiare l’entità del cambiamento si può recuperare il testo inglese:

[…]

And the country proverb known,
That every man should take his own,
In your waking shall be shown.
Jack shall have Jill;
Nought shall go ill;
The man shall have his mare again, and all shall be well.

Pur considerato che la versione nasce programmaticamente libera, non c’è dubbio che la traduzione di Montale sia più fedele. Anzi, siamo quasi certi che Pastonchi sia intervenuto senza guardare all’originale. Il suo finale appare più castigato (il doppio senso resta, ma è obliquo); e più euritmico. Ma di contro a questa euritmia del chiudere è lecito chiedersi: siamo sicuri che l’ultimo endecasillabo di Montale, col suo traballante passo giambico, non offra la resa migliore per l’effetto di ‘tirato via’ dell’ultima lunga battuta di Puck? E si noterà un’altra cosa. Si vede bene che nella versione del libretto la frase «E il proverbio ecc.», terminando col punto dopo «tocca», appare monca e debole di senso. Paola Ojetti, nel rielaborare ulteriormente questo passo per l’edizione del 1950, farà la cosa più semplice: sostituirà l’«e» congiunzione col verbo essere:

[…]

È il proverbio che va di bocca in bocca
e dà ad ognuno quello che gli tocca.
Questo Puck l’ha detto,
e certo non fa calo.
Ogni vite ha il suo palo,
e tutto è perfetto,
se porta foglia e fioretto.

Ma non si può dire che la traduttrice si sia data pena di risalire al testo originale.

Il secondo segmento è l’Epilogo detto da Puck, brano di chiusura dell’opera:

Se le nostre parvenze offesi v’hanno,
immaginate, e poco sarà il danno,
che quanto vi comparve qui davanti
fu inganno e che sognaste tutti quanti.
E il pigro e ingenuo spunto
che in sogno abbiamo assunto
perdonateci, e noi sapremo fare
del nostro meglio poi per riparare.
E parola di Puck, di uomo onesto,
se a noi felici càpiti anche questo,
di sfuggire alla lingua del serpente,
rimedieremo, dico, immantinente,
o bugiardo da tutti io sia creduto.
E ora, a voi signori, il mio saluto,
la buona notte a tutti Robin dà
e v’assicura che riparerà.

Bella è la scelta della rima inaspettata e ribattuta al quarto verso, «fu inganno»; efficace la posposizione di questa e delle altre conclusioni verbali («immaginate», «perdonateci», «rimedieremo») a inizio di verso dopo enjambement (quanto fiato deve misurare il buon Puck per scandire queste gravi e lunghe frasi). E deliziosa è la goffaggine di un bisticcio come «quanto […] tutti quanti», del frasario letterario-burocratico in «rimedieremo, dico, immantinente», della rima tronca nei due versi finali. La ripetizione del verbo riparare («riparare», «riparerà») è scelta guardando all’originale, all’insistenza sulla stessa cellula lessicale (mended, mend, amends):

If we shadows have offended,
Think but this, and all is mended,
That you have but slumb’red here
While these visions did appear.
And this weak and idle theme,
No more yielding but a dream,
Gentles, do not reprehend.
If you pardon, we will mend.
And, as I am an honest Puck,
If we have unearnéd luck
Now to ’scape the serpent’s tongue,
We will make amends ere long:
Else the Puck a liar call.
So, good night unto you all.
Give me your hands, if we be friends:
And Robin shall restore amends.

Anche qui Pastonchi interviene sul finale, e tiene certamente conto del fatto che il pezzo è destinato a chiudere l’intero spettacolo: il ‘qui finisce’ deve risultare chiaro, ben sillabato:

[…]

rimedieremo, dico, immantinente.
Finito è lo spettacolo e l’incanto.
Ora, o Signori, addio; ma siate umani:
salutate col batter delle mani
questa nostra fatica e il dio del canto.

Puck è sempre Puck (ma non Robin, per non generare confusione). E, arguto e naïf, modesto e ammiccante (ma di nuovo, più euritmico e classicheggiante che nella versione montaliana), chiede agli spettatori l’ultimo applauso. È questa, assai probabilmente, la conclusione affidata alla giovane e promettente Eva Magni nei panni di Puck quella notte del 31 maggio 1933.

Qualche conclusione

Al di là delle questioni attributive e della storia editoriale delle sequenze del Sogno, resta una convinzione: ciò che di quel testo veramente conta è proprio il lavoro che Montale ha recuperato, con deciso gesto d’autore, nel suo Quaderno di traduzioni. Una scelta che si concentra su valori espressivi e tematici, un’opzione di gusto e di poetica che ora può essere seguita nei suoi passaggi più minuti attraverso il testo critico. Ma non solo. La selezione applicata al vecchio testo del ’33 trova posto in quella sorta di ricostruzione di carriera che Montale compila sui moduli del Quaderno del ’48 (e che aggiornerà nel ’75): carriera di poeta-traduttore, i cui dati di servizio sono diligentemente raccolti in una galleria di incontri per i quali è sempre possibile trovare, più o meno esposta, una rifrazione nell’opera del poeta in proprio, che sia recupero o anticipo, dagli Ossi alla Bufera e oltre (e ottimi lettori, da Alessandro Parronchi a Enrico Testa, ne hanno seguito le linee).

Si possono così attestare con certezza al 1933 occorrenze di parole e stilemi destinati a fare storia nella poesia montaliana: la certezza, ed è questo il dato nuovo che conferma tante intuizioni di altri, viene dal fatto che ora sappiamo, per aver ricostruito l’iter variantistico, che si tratta di parole e stilemi per lo più già presenti nel libretto o nel Regiebuch. Solo alcuni esempi (rimando al saggio già citato per una campionatura più vasta). Il nesso «borro»-«spini» del frammento intitolato Fata («Tra boschi e tra spini, / […] / sul colle e sul borro»), ricomparirà in Il tuo volo di Finisterre, nel «borro ch’entra sotto / la volta degli spini». Altra parola particolarmente indiziata, che s’incontra in un brano non entrato nel Quaderno, è «reatino» (nel Regiebuch; «reattino» nel libretto): siamo in larghissimo anticipo – ha notato Contorbia – sui «reatini» di Al mare (o quasi) del Quaderno di quattro anni (1976), «i deliziosi figli della ruggine / gli scriccioli o reatini come spesso / li citano i poeti». Il pensiero corre naturalmente a Pascoli, che sullo scricciolo o reatino (o sgricciolo, o recacchino, o redimacchia) ha imbastito poesie intere; ma ancor più viene in mente Pascoli se si legge l’allegro frammento del Sogno, il canto di Bottom trasformato in asino («con voce nasale e con qualche raglio», dice la didascalia):

Il merlo ch’è tinto di nero
e ha il becco giallino,
il tordo che canta sincero,
e, scarso di piume, il reatino.

C’è tanto Pascoli in questa quartina, che è comprensibile come le sia stato negato l’accesso al Quaderno (assieme, ovviamente, ad altre ragioni: in primo luogo la preferenza generale per i pezzi più lirici e sognanti: il Quaderno distilla dalla commedia, non senza qualche paradosso, un serissimo melodramma).

È notevole, infine, il fenomeno prospettico inverso, di un rinfrescarsi della memoria stilistica a contatto con i frammenti che ribrillano nella scelta del ’48: il «gioco / bizzarro della sorte» di Oberon e Puck ricompare in accezione più dolorosa nel «crudo / gioco della mia sorte» di Hai dato il mio nome a un albero?, una delle poesie per la Volpe nei Madrigali privati della Bufera. I Madrigali sono composti quasi tutti nel 1949: un anno dopo la stampa del Quaderno. Hai dato il mio nome…, in particolare, è della primavera, e una sua prima versione dattiloscritta, datata 29 maggio, conserva una variante che è ancora più vicina, per sintassi e giacitura metrica, allo shakespeariano «gioco / bizzarro della sorte»: «gioco / crudele della sorte» (con «gioco», come nel frammento, in rima con «poco»).

Tali esempi bastano a dimostrare come il recupero dei brani del Midsummer per il Quaderno di traduzioni rappresenti ben più che il risarcimento di un’antica ingiustizia. È un atto autoriale forte, la restituzione di un tassello fondamentale alla storia della propria poesia. Qui più che mai il Quaderno di traduzioni appare un’opera-cerniera, un libro attraverso il quale Montale riprende e ricapitola, affidandoli ai poeti tradotti, modi e temi che lo identificano. Tale è la fisionomia del libro già nel 1948. Tale sarà, a maggior ragione, nel 1975, quando, accresciuto delle traduzioni più recenti, il Quaderno potrà presentarsi, ha scritto Enrico Testa, quasi come un Giano bifronte: un libro che, nella sua costituzione composita e stratificata, «guarda sia al passato che al poco futuro che resta e così dà segno del primo come del secondo Montale».

etatasciore@gmail.com

 

Nota bibliografica

Per il testo dei Frammenti e delle sequenze del Sogno nell’edizione del 1933 faccio riferimento a E. Tatasciore, Per il “Quaderno di traduzioni” di Montale. La prima stampa dei “Frammenti di una riduzione del Midsummer-Night’s Dream” di Shakespeare, «Prassi Ecdotiche della Modernità Letteraria»,  8 (2023), online dal 4 settembre 2023:

https://riviste.unimi.it/index.php/PEML/article/view/20928/18668

Poco dopo (novembre 2023) è uscito il saggio di F. Contorbia, Montale e il “Midsummer Night’s Dream” al primo Maggio Musicale Fiorentino (1933), «Quaderni montaliani», 3, 2023, pp. 17-42: traggo di qui le postille alla copia del libretto donata da Montale a Mario Praz e custodita nella biblioteca dello studioso, ora proprietà dalla Fondazione Primoli. Una prima descrizione del pezzo si trovava in V. Crescente, Giulia, Eusebio e il “Sogno d’una notte d’estate”. Memorie e cronache letterarie fiorentine del 1933, «La casa dei doganieri», II, 2009, 2-3, pp. 233-46 (poi in Id., «Non potendo vivere di sol’aria». Franchi, Montale, Saba e altre pagine di letteratura italiana, Firenze, Biblioteca della Luna Crescente, 2012, pp. 15-31). Questo saggio mi era sfuggito, e il presente articolo pone rimedio alla mancanza, in vista di un’edizione complessiva delle varianti attestate dal Regiebuch (nel mio saggio mi limitavo alla sola storia variantistica dei futuri Frammenti, stampando in appendice gli altri brani del Sogno nella sola lezione del libretto).

Rispetto alle fonti da me utilizzate (Regiebuch, libretto, cronache, lettere, edizioni di Shakespeare annotate dalla Ojetti, il racconto Dominico del ’46), il saggio di Contorbia, che si segnala anche per la precisione bibliografica e le convincenti diramazioni verso poesie e prose montaliane, arricchisce il quadro di quel primo Maggio con nuovi documenti: alcuni stralci inediti di lettere di Montale a Lucia Rodocanachi (il poeta si lamenta dell’«affaire dei biglietti», del mancato invito al Sogno e del conseguente guastarsi dei rapporti con gli Ojetti, senza far cenno però alla questione Pastonchi); l’articolo di A. Della Corte, Mendelssohn e il “Sogno”, «La Nazione», 30 maggio 1933; e l’intervista del 6 maggio 1976 rilasciata a Nicholas Patruno per «Gradiva», I, 1978, 4, ora in Interviste a Eugenio Montale (1931-1981), a cura di F. Castellano, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2019. Anche Contorbia stampa in appendice i brani del libretto, registrando le annotazioni di Montale alla copia Praz e le varianti introdotte dal Quaderno. Alcuni refusi tuttavia rendono il testo disomogeneo rispetto alla lezione del testimone; a meno che del libretto non esistano due stampe: nel testo di Contorbia, ad esempio, si legge «mostrami una fessura da cui possa / lo sguardo insinuar», mentre sulla copia in mio possesso leggo «tra cui possa»; i versi «Odoroso profumo, i fiori spandono» e «vi condurrò d’attorno, / tra paludi» contengono virgole che, sempre nella mia copia, non riscontro; il passo «Fior scarlatto, ferito / dall’arco di Cupido / sforza la sua pupilla!» non presenta virgola dopo «Cupido», mentre ha virgola nella mia copia (virgola che rimane nel Quaderno); ecc.

Il racconto Dominico esce, col titolo Date una bussola a Dominico Braga (occhiello: Non riesce più ad orientarsi) sul «Nuovo Corriere della Sera» del 24 maggio 1946. Assai opportunamente Contorbia parla di una «tenace memoria» del Maggio del ’33 conservata in questa prosa, nel «cortocircuito che Montale stabilisce tra Dominico e la messa in scena del Sogno a Boboli». Andrà anche ricordato come le edizioni del Maggio, divenute annuali dal ’37, si fossero giocoforza diradate durante la guerra: dopo l’ottava nel ’42, la nona ebbe luogo nel ’44 (a inizio aprile, pochi mesi prima della liberazione della città) e per la decima si sarebbe dovuto attendere il ’47.

L’articolo di P. Ojetti, Un lavoro difficile, tradurre (occhiello: Confessioni di professioniste “arrivate”), è ripreso qui per la prima volta. Comparve su «La Stampa», 18 maggio 1963, p. 7 (la pagina s’intitola Cronache per le donne). Si noterà che le reminiscenze del Maggio – della Ojetti, ma anche di Montale nell’intervista del ’76 – cadono in corrispondenza di altrettante stagioni: la ventiseiesima (1963) e la trentanovesima (1976). Anche Dominico, pubblicato il 24 maggio 1946, coincideva di fatto col mese della manifestazione, evocandola in absentia.

Il saggio di M. Bucci in cui è riportata la lettera di Gatti a Montale è Le prime stagioni del “Maggio Fiorentino” (1933-34). Appunti per una ricerca, in Visualità del “Maggio”. Bozzetti, figurini e spettacoli 1933-1979, a cura di R. Monti, Roma, De Luca, 1979, pp. 17-22; ma la trascrizione più accurata è quella di Contorbia, che è tornato sull’originale conservato presso l’Archivio del Maggio.

La recensione di S. d’Amico, più volte ristampata, è citata da Cronache del Teatro, a cura di E.F. Palmieri e S. d’Amico, Bari, Laterza, 1964, 2 voll., vol. II, pp. 239-46.

Le lettere a Solmi si leggono in E. Montale, S. Solmi, «Ciò che è nostro non ci sarà tolto mai». Carteggio 1918-1980, a cura di F. D’Alessandro, Macerata, Quodlibet, 2021.

I riferimenti a Parronchi e Testa si sciolgono con le seguenti voci: A. Parronchi, Traduzioni di poeti, «Il Mattino dell’Italia Centrale», 26 novembre 1948, poi in Id., Quaderno per Montale, Novara, Interlinea, 2003, pp. 9-10; E. Montale, Quaderno di traduzioni, a cura di E. Testa, Milano, Mondadori, 2021. Merita di essere menzionato anche il saggio di C. Caporicci, Montale e Shakespeare: fra traduzione e creazione poetica. I “Frammenti” tradotti da “A Midsummer Night’s Dream”. Con testi rari, «Strumenti critici», XXXII, 2, 2017, pp. 171-91. Per datazione e varianti di Hai dato il mio nome… si veda M.A. Grignani, Dislocazioni. Epifanie e metamorfosi in Montale, Lecce, Manni, 1998.

Infine, una nota testuale sui brani presentati per la prima volta nella versione del Regiebuch. In Sul terreno… ho lasciato, al v. 4, la forma imperativa «fa» senza apostrofo, presente anche nel libretto e legittimata da un uso frequente all’epoca. Nell’Epilogo detto da Puck (nel libretto: Epilogo, detto da Puck) ho ripristinato la misura endecasillabica del v. 8 basandomi sulla lezione del libretto, recuperando un «poi» evidentemente sfuggito alla battitura. Al v. 14 ho corretto «saluto, / La» del dattiloscritto con «saluto, / la». Ma è legittima anche l’altra opzione: «saluto. / La».

 

L'autore

Enrico Tatasciore
Enrico Tatasciore è nato il 30 marzo 1982 a Pescara. Vive e lavora a Modena, dove è docente di materie letterarie presso l'Istituto d'Arte "Adolfo Venturi". Ha studiato a Pisa, Bologna e Siena. Ha svolto attività di ricerca presso l'Università di Bologna, la Fondazione Giorgio Cini di Venezia, l'Università di Genova e la Freie Universität di Berlino. Ha scritto soprattutto su Montale (Di ombre e cose salde. Studio su Montale, Milano, Mimesis, 2015), Pascoli ("Epos" di Giovanni Pascoli. Un laboratorio del pensiero e della poesia, Bologna, Pàtron, 2017; Pascoli latino e novecentesco. "Pomponia Graecina" e "Thallusa" dai classici a Sbarbaro, Bologna, Pàtron, 2023), e sulla ricezione dei classici nella poesia del Novecento (Moderne parole antiche. Cardarelli, Ungaretti, Quasimodo, Saba e i classici, Milano, Prospero, 2020). Un ulteriore filone di ricerca è quello della fortuna di Pascoli in area tedesca, in particolare attraverso l'opera di Benno Geiger, poeta, traduttore e storico dell'arte (Dal "Pascoli tedesco" di Benno Geiger: i "Poemi conviviali", Rilune - Revue des littératures européennes, 17, 2023).