In primo piano · La scoperta

Bragaglia e l’opera tragico-farsesca di Valle-Inclán

È risaputo che Anton Giulio Bragaglia fece del Teatro degli Indipendenti un’incubatrice di autori nuovi e di esperimenti d’avanguardia mettendo in scena, negli anni in cui lo diresse (1923-1936), il meglio della drammaturgia nazionale e internazionale contemporanea.

Riguardo agli autori stranieri, li «pescava principalmente nelle avanguardie europee» (M. Verdone – F. Pagnotta – M. Bidetti, La casa d’arte Bragaglia 1918-1930, Roma, Bulzoni Editore, 1992, p. 49) per cui non sorprende che Le corna di Don Friolera di Ramón María del Valle-Inclán figurasse, almeno come progetto, fra gli spettacoli “straordinari” della stagione -1928-1929 (A. C. Alberti – S. Bevere – P. Di Giulio, Il teatro sperimentale degli indipendenti (1923-1936), Roma, Bulzoni, 1984, p. 394.  Secondo altre fonti, era in programma per la stagione 1929/30. Cfr. M. Verdone – F. Pagnotta – M. Bidetti, op. cit., p. 47).

In quegli anni l’iniziativa non giunse a concretizzarsi. Bragaglia portò al debutto la pièce nel 1934, al teatro Valle di Roma, supportato nella traduzione del copione da don Ramón, che all’epoca era direttore dell’Accademia di Belle Arti di Spagna al Gianicolo. La ripropose una seconda volta a Napoli, nell’agosto del 1951, presso il Teatro alla Floridiana (per la vicenda degli allestimenti italiani, cfr. D. Gambini – S. Domínguez Carreiro, La première de Le corna di Don Friolera en Roma (1934): nuevos documentos, in Anales de la literatura española contemporánea (Annals Of Contemporary Spanish Literature), Temple University (Philadelphia) e Universidade de Santiago de Compostela, vol. 39, 3, 2014, p. 669-703).

Ragionevolmente, la scelta di Bragaglia di rappresentare quest’opera fu dettata dal fatto che incarnava pienamente lo spirito dell’esperpento, un’originale creazione valleinclaniana di carattere grottesco che lo scrittore definì come il risultato del processo di osservazione della realtà mediante uno specchio concavo. La critica lo avrebbe in seguito considerato il principale contributo spagnolo all’espressionismo letterario europeo. Impasto di promiscuità culturale e derisorio casticismo, sintesi caricaturale di forme ricercate ed espressioni colloquiali, di miseria e pseudo grandezza, di tragedia e farsa, l’esperpento era, secondo Valle-Inclán, l’unica modalità estetica capace di esprimere il sentimento tragico della vita spagnola del suo tempo, sprofondata nella bassezza, nella corruzione e nel vizio (critiche tipiche della Generazione del ’98, alla quale, secondo certa critica, lo scrittore appartiene). Con l’espressionismo quest’arte condivide sia la visione fortemente critica della società, sia l’apparato performativo, investito di effetti di straniamento che “disautomatizzano” la percezione della realtà da parte del lettore/spettatore, esprimendo tensioni, stati d’animo e sentimenti attraverso la violenza del colore, la sintesi della forma, l’incisività del segno. Rispondono al proposito di degradazione e distorsione della realtà – per sottolineare l’alterazione e il caos che vive la Spagna contemporanea – i processi di reificazione, oggettualizzazione e animalizzazione cui sono sottoposti i personaggi così come la riduzione a sagome d’ombra o marionette, che enfatizza la disumanizzazione calcando sul vacuo o sulla snodatura e la gestualità meccanico-geometrica della figura.

Sensibile al rinnovamento del linguaggio scenico «che raccoglie il teatro espressionista tra il 1910 e il 1924, con tutte le suggestioni che gli vengono dalla pittura e dal cinema» (R. del Valle-Inclán, Il defunto va di gala. Esperpento, a cura di Paola Ambrosi, Pisa, ETS, 1999, p. 19), Valle-Inclán aprirà nuovi orizzonti alla drammaturgia spagnola assumendo dalla settima arte, come elementi fondamentali, la discriminante luce-ombra, l’inquadratura del primo piano (esagerando la tendenza dell’occhio a frammentare ed estraniare), il rapido cambiamento di scena. In questa tragica creazione intinta di un umorismo tortuoso che non va mai scompagnato dalla pietà, vi è tutta la volontà dell’autore di sottrarsi provocatoriamente al dominio del realismo e del falso simbolismo caratterizzanti la scena nazionale del momento.

L’interesse di Bragaglia per Los cuernos de Don Friolera è noto alla critica. Come informazione nuova, va segnalata l’esistenza di una lettera appartenente alla corrispondenza che i due artisti si scambiarono nel 1927 da cui si evince che lo scrittore aveva ben chiara la predilezione del regista per la drammaturgia d’innovazione. Infatti, nello scritto, gli annuncia l’invio di Los cuernos de Don Friolera assieme ad altri testi: il fatto significativo è che seleziona come titoli da sottoporre alla sua attenzione solamente esperpentos o drammi riconducibili alla nuova estetica, pur essendo all’epoca già ampia e notevole l’opera teatrale che aveva prodotto.

La missiva fa parte del materiale dell’Archivio Anton Giulio Bragaglia, depositato di recente dagli Eredi presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma (Fondi storici – Livello unità archivistica Numero definitivo 20 Data 02 gennaio 1927 – 31 dicembre 1927 Consistenza docc.: 181, cc.: 211. Riporta il n° 135).

La grafia di chi scrive corrisponde a quella della moglie dell’autore, Josefina Blanco Tejerina, che firma a nome del coniuge. Riproduco la carta autografa, di cui propongo la trascrizione e di seguito la traduzione in italiano:

 

Madrid – 5 – XII – 927. Bragaglia. Roma. // Muy Señor mío, En respuesta a su atenta carta fecha 8 del pasado mes debo manifestarle que por este mismo correo le remito un ejemplar de “Los cuernos de Don Friolera”, otro de “Luces de Bohemia” otro de “Tablado de Marionetas” y otro de Retablo de la Avaricia, la Lujuria, y la Muerte. Todos ellos son obras de Teatro. En cuanto a la autorización para representar “Los Cuernos de Don Friolera” tendré un placer en darsela tan pronto me signifique usted las condiciones consiguientes para ello. Reciba usted el testimonio de mi mas distinguida consideración. De Ud aff. mo Valle-Inclán

[Madrid – 5 – XII – 927 Bragaglia. Roma. // Gentilissimo Signore, in risposta alla sua cortese lettera dell’8 del mese scorso, le faccio presente che con questa stessa lettera le invio una copia di “Los cuernos de don Friolera”, un’altra di “Luces de Bohemia”, un’altra di “Tablado de Marionetas” e un’altra di Retablo de la Avaricia, la Lujuria, y la Muerte. Sono tutte opere teatrali. Per quanto riguarda l’autorizzazione a rappresentare “Los Cuernos de Don Friolera”, sarò lieto di concedergliela non appena mi comunicherà le relative condizioni. La prego di accettare i sensi della mia più alta considerazione. Suo aff.mo Valle-Inclán]

All’interesse di Bragaglia per Valle-Inclán nel 1927, si aggiungerà un sentimento di timoroso riguardo quando gli farà visita a Madrid (A. Gago Rodó ricostruisce il contesto culturale in cui si svolse la conferenza tenuta da Bragaglia nella capitale spagnola il 13 gennaio del 1930 in Díez-Canedo y la condición del texto teatral: ante Bragaglia y Valle Inclán, in “Cauce”, 22-23, 2000, pp. 103-121); in seguito di entusiasmo per la totale sintonia drammaturgica allorché, a Roma, lavorerà con lui all’allestimento di Le corna di Don Friolera

 

 

(Disegni per la scenografia di Le corna di Don Friolera del 1934, ora nel deposito Fondi storici della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma – Archivio Bragaglia, in Busta FI 19).

e ancora di apprezzamento critico per l’intera sua produzione. Questi aspetti traspaiono dal programma di sala che Bragaglia redige per la messinscena del 1951. Pubblico il programma, per gentile concessione della Fondazione Teatro di San Carlo/Memus, Museo e Archivio Storico  (Napoli), facendolo seguire dalla traduzione in spagnolo

Le corna di Don Friolera

[El “Teatro Sperimentale degli Indipendenti” (1922-1936) entre centenares de obras audazmente innovadoras de todos los países, dio a conocer en 1934 también este trabajo, que es uno de los productos más personales de Don Ramón del Valle-Inclán, autor romántico, simbolista y picaresco de la España moderna. Se trata, por tanto, de una novedad absoluta. Había conocido a Don Ramón en su casa, en Madrid. Envuelto en una holgada bata que lo hacía parecer corpulento aunque era esbelto y enjuto, resultaba caricaturesco a causa de su larga barba de sátiro que, con gesto mecánico, acariciaba protectoramente su única mano. De esta guisa, sin un brazo, Don Ramón recordaba a Cervantes. Cuando iba por la calle llevaba una larga capa, es decir, un ferreruelo que lo hacía asemejarse a un “genial espantapájaros”, como alguien lo llamó. He aquí un personaje del puro siglo XVII, cultivador de antiguas actitudes: «el amor, el orgullo y la cólera, pasiones nobles y sagradas que animaban a los antiguos dioses». Así se expresa el Don Juan, o Casanova, creado por él, llamado Marqués de Bradomín. Mi cabeza estaba llena de sus gestas violentas y sus juicios sarcásticos, de su personalidad original, independiente y agresiva. Enseguida mostró una curiosidad insolente hacia mí, pues me presentaban como un revolucionario del teatro. Un soberbio personaje como él podía complacerse con mi jactancia o, por el contrario, sentirse casi agraviado y predispuesto en mi contra. Los ojos de Don Ramón relampagueaban con sarcasmo a cada ocurrencia: su risa era una risotada contenida. Todavía se le recuerda como la lengua viperina más aguda y punzante de España: sin rodeos, ni miedo ni reparos. Pero tras hablar un poco, lo sentí ya más cercano. Le caía bien. Volví a encontrar a Valle-Inclán en Roma, cuando era presidente [sic!] de la Academia Española en el Gianicolo. Parecía aplacado: le habían otorgado el merecido reconocimiento. Trabajamos juntos en su despacho, allá, en el Gianicolo, para la puesta en escena de Don Friolera. Él se mostró muy afable, condescendiente, accesible: tenía tanta imaginación que podía entenderlo todo. Y comprendía las oportunidades que el teatro brindaba, confiando en quien, siendo del gremio, participaba en su mismo juego. Fue en 1934 cuando me regaló Los cuernos de don Friolera para que yo lo representase. Toda realización escénica es, por su misma naturaleza, y sin quererlo, una transformación de la obra escrita. Don Ramón era un hombre de mente abierta y, cuando vino al Teatro Valle para el estreno italiano, se quedó contento. La variación había conservado el espíritu originario pues no había surgido de la voluntad sino de la Ocasión, la diosa que, según los griegos, protege el teatro cuando la Necesidad apremia. Para Vittorini, el poeta galaico (1870-1935) es «el escritor más interesante (más rico en reacciones) que España haya dado entre finales del siglo pasado y principios de este». Casella lo define: «cincelador finísimo de períodos armoniosos» que «conoce la lentitud pausada de la sensualidad ensoñadora y las suaves caricias de la expresión voluptuosa y musical». Boselli escribe de él: «figura interesante y originalísima, digna de aguafuertes y de pinceles», «poeta immaginifico, visionario y místico, scapigliato e idealista, tildado por algunos como el D’Annunzio gallego por haber nacido en Galicia, región lírica y soñadora». M. Fernández Almagro en una revista española escribe que él debía mucho a Italia, sobre todo al Renacimiento. El crítico español demuestra la efectiva ascendencia dannunziana de la obra literaria de Valle-Inclán. Se parece a D’Annunzio en la preciosidad de las palabras, la rareza de las imágenes y el esmero estilístico; pero si la forma es dannunziana, la sustancia es picaresca. Yo encuentro mucho parentesco entre Valle-Inclán y el anónimo autor del Lazarillo de Tormes. Determinadas escenas del Buscón de Quevedo, ciertos personajes de la Celestina por mí representada, son antecedentes de tantas figuras de Don Ramón. Su producción se puede dividir en dos grandes grupos: la parte donde se reconocen diversas influencias, sobre todo de D’Annunzio, y aquella otra en que se manifiesta la libertad del poeta, su personalidad netamente castiza. Es esta la que nos interesa. Bellísimas son sus didascalias. Pero en ellas la fuerza armoniosa y refinada no se convierte en huero preciosismo decadente, sino que se adecua al sentimiento y a la sensualidad de la materia, por encima de la afectación literaria, y pone el virtuosismo retórico al servicio de la emoción. Sus personajes, trazados con pinceladas audaces y refinadas a la vez, son vigorosos, como si fueran tallados en materiales toscos. Su técnica impresionista en Divinas palabras al igual que en ciertos cuadros de Don Friolera y de Luces de Bohemia le confiere un pálpito de potencia incisiva y vibrante. Y en el momento en que estas expresiones suyas cobran voz escénica, se dilatan y se van encendiendo como bengalas. Mi montaje de Don Friolera fue una revelación incluso para él. Se ve por el número de los personajes y de las escenas, que el autor ha creado sin tener por objeto la representación teatral. Los cuadros son literarios, ignoran la dimensión escénica. Sin embargo, son vívidos: he ahí por qué nos pertenecen. La obra literaria más célebre de nuestro escritor se compone de cuatro relatos titulados Sonatas. Conozco muchos de sus pequeños dramas para marionetas: Figaro, La rosa de papel, La cabeza del Bautista; Sacrilegio; un Tablado de marionetas para educación de príncipes: la Farsa italiana de la enamorada del Rey; la Farsa y licencia de la Reina Castiza, la Farsa infantil de la cabeza del dragón, piezas, todas, de argumento jocoso y fabulesco, que el autor eleva a una sutil aura, centelleante de maravilloso y de fantástico. Aventuras de infantes y de reinas en castillos encantados, con muertos resucitados, entre cortes de opereta, todo acentuado por una fantasía sensual y colorista, también aquí con intenciones satíricas. Es un gustoso teatro de marionetas, presidido por el Rey Micomicón, dirigido a espectadores adultos. Cuento de abril: escenas rimadas en una manera extravagante es una serie de cuadritos de amor en rima, de corte preciosista. A una traducción de la misma le sería imposible conservar la frescura de los versos, la precisión tonal de algunas imágenes, y la repetición jocosa de ciertas rimas, todas ellas cualidades que confieren vivacidad a este poemita, cercano a una Isaotta Guttadauro, para quien sepa entender el brío de este género. El Embrujado es, también este, un drama eficaz, pero de gusto dannunziano totalmente superado. Los puntos más notables son aquellos en que la historia, bastante cruda en sí, cobra el tono legendario de ciertas cantilenas del “ciego de Gondar”. Rosa Galans (la Galana) es un personaje bien logrado, incluso literariamente, pero aplastante es el parangón con Mila di Codro, a la cual se parece mucho. El tercer cuadro (la locura de la madre pecadora que busca por todas partes al hijo muerto) es el que presenta mayor sustancia dramática. Luces de Bohemia es un esperpento, curiosa palabra que puede significar grotesco o monstruoso, como decir, obra fuera de las leyes comunes. Este trabajo es una comedia episódica, fragmentaria al máximo, casi desprovista de un núcleo dramático determinado y preciso. Sin tener una línea argumental única, es el drama de un ciego (Max Estrella), desarrollado en una brillante pintura de costumbres; es una alegre sátira de carácter político-literario. En ella comparecen, entre otros, Rubén Darío y el Marqués de Bradomín, personaje de su creación. Interesantes resultan ciertas escenas de ultratumba. Entre sus obras más recientes se encuentran Los cuernos de don Friolera y Divinas palabras. Esta última es un grandioso cuadro grotesco romántico, naturalista y simbolista a la vez. Lo demoníaco de Ghelderode halla aquí su antecesor. El gusto por lo repulsivo, por los misterios humanos y las deformaciones repugnantes recuerda a Goya. Los cuernos de Don Friolera es un esperpento decididamente tragicómico, un esperpento a modo de gran farsa, elegante y extravagante. Contiene lances dramáticos serios, momentos de reflexión de envenenada amargura, desviaciones de la farsa que dejarían en suspenso y confuso al espectador si no llegase la caricatura para ahuyentar rápidamente su pensativo desconcierto, como si fuera una debilidad. Este es el carácter propio y original de Don Ramón. Siendo tan personal, la literatura no consigue perjudicarlo. «Los cipreses se reflejan en el misterio de los pequeños lagos con aquella tristeza antigua de los jardines propicia a los amores». Hoy estos cipreses, que evocan las villas romanas de sus primeros amores dannunzianos, se alzan sobre la tumba de Don Ramón, en Galicia, como para cuidarla, mientras sus pícaras palabras castizas resuenan entre los pinos de la Floridiana. Anton Giulio Bragaglia]

Ripromettendomi di tornare in sede scientifica sulla scoperta, sono lieta d’aver condiviso con i lettori questo ritrovamento.

dianella.gambini@unistrapg.it

 

 

L'autore

Dianella Gambini
Dianella Gambini è docente ordinario di Lingua Spagnola e Traduzione all’Università per Stranieri di Perugia, di cui è stata Vicerettore. Ha insegnato all’Università degli Studi di Perugia e presso le università di Santiago de Compostela e Complutense di Madrid. I suoi interessi di ricerca vertono eminentemente sulla traduttologia e la letteratura del Romanticismo, del Modernismo e del Siglo de Oro. Dagli inizi della carriera accademica si occupa della realtà culturale galega, in particolare della letteratura odeporica di tematica jacopea e dell’opera di Valle-Inclán, che ha tradotto in italiano (Femeninas, Epitalamio) e a cui ha dedicato studi di critica ed ermeneutica letteraria, oltre che di ricezione critica in Italia.