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L’inesprimibile e la luce della poesia

L’altrove è connaturato alla poesia, essendo essenza del reale, verità e assoluto cui tende il poeta. Lo è in particolare nella poesia di José Tolentino Mendonça Estranei alla terra (Traduzione di Teresa Bartolomei, Crocetti Editore, Milano, 2023), che si indirizza verso l’alterità e il sacro, ma anche verso la vastità che tutto abbraccia. Lo afferma nella Prefazione, citando la largeness di alcuni versi di Walt Whitman («Song I am large, I contain multitudes») Alessandro Zaccuri, che riconosce al poeta il diritto di essere «apostata, guerrigliero o addirittura “fuorilegge”», nel divenire un «altro», invisibile dal punto di vista biografico, ma unicamente visibile nell’«assolutezza memorabile e, per molti aspetti, immutabile» del testo. Ma è lo stesso Tolentino Mendonça nella prosa O poema (Cos’è una poesia) a chiedere: “Quale verità esiste nel mondo se non quella che non appartiene a questo mondo?”, aggiungendo perentoriamente: “Una poesia restituisce l’inesprimibile. Una poesia non conquista la purezza che affascina il mondo. Una poesia abbraccia precisamente l’impurezza che il mondo ripudia”.

Purezza e impurezza appartengono alla terra cui il poeta si dice “estraneo” (“lascia che l’amore ti renda / uno straniero nel mondo”, Compassione), ma non inconsapevole né distante. Conosce l’ombra e la luce, l’affanno di molti e la gioia di chi spera e pensa che “soltanto la bellezza può scendere a salvarci” (La spazzatura del mondo); può avvertire Il passo dell’angelo in versi che dipingono un tempo di rinnovamento e di pace:

Lungo le scarpate, nei sentieri di erba e sabbia
in boschi ombrosi in cui i faggi si rinnovano
gli animali non stanno più sul chi vive
non c’è più nessuno a dare loro la caccia

la pioggia disegna circoli perfetti
nei pozzi dei contadini
come negli stagni

il fruscio d’argento del fogliame
anticipa il passo dell’angelo, nel buio

Si noti lo stacco di “nel buio”, non connotato in senso drammatico, ma risolto dalla condizione  naturale e umana del momento perfetto.  Il poeta porta il suo sguardo, che disvela il valore degli esseri tutti, su natura e uomini, sentendo il passare del tempo, in un continuo alternarsi di ombra e di luce ( “smarcarsi / dall’ombra e dalla luce”, La distruzione di Cartagine); lungo un cammino, La strada bianca, che, nell’attraversare la vita, percorre una via che solo il cuore sa affrontare, purché riceva un aiuto che lo sostenga e lo guidi:

Ho attraversato con te la sera minuziosa
mi hai dato la mano, la vita sembrava
difficile da stabilire
sopra il muro alto

le foglie tremavano
sotto l’invisibile peso più forte

Potrei morire per una sola di queste cose
che portiamo con noi senza saperle dire:
astri che si incrociano a una velocità paurosa
ghiacciai inamovibili che finalmente si spostano
e, unica forma che ha di accompagnarti,
il mio cuore che batte.

Altra è la via che inaspettatamente dall’aeroporto di Fiumicino conduce al luogo che conserva memoria della tragedia di Pasolini e che trova in Ostia, accanto a un tessuto descrittivo realista di vita popolare, riconoscimento e pietà. Con lo scrittore friulano altri entrano nella poesia di Tolentino Mendonça: Giovanni della Croce, la cui ricchezza intima votata al rito (“corone, / aureole, casule / veli di seta, reliquiari d’oro / diamanti”) contrasta con la fredda esibizione della moda (Il silenzio); Flannery O’Connor, compagna nel segno della preghiera degli umili (La spazzatura del mondo); Santa Teresa, che sapeva capire e confortare il dramma delle prostitute (Santa Teresa e le prostitute); Carlo Michelstaedter, commemorato nel ricordo della sua giovane morte, unica apertura alla verità estrema (Introduzione all’opera filosofica di Carlo Michelstaedter); Tonino Guerra, amico tra semplicità di provincia e nobile leggerezza (Nostalgia di Tonino Guerra);  Adélia Prado, poetessa brasiliana la cui preghiera abbraccia tutte la creature (Preghiera del mattino di Adélia Prado).

Il buio, la notte sono immagini costanti della meditazione poetica di Tolentino Mendonça e si uniscono, col  silenzio, alla solitudine, che tuttavia non impedisce di raggiungere l’“amore” (“L’aurora a cui tutti si rivolgono / conduce la mia barca a una porta socchiusa // l’amore è una notte a cui si arriva solo”, La notte apre i miei occhi) e che può essere rivelatrice: “la notte è una crepa da cui sgorga una strana luce viva”, Ritorno a Itaca. La solitudine, dice il poeta nella lirica In a Lonely Place, “è uno strumento per affrontare l’universo”, uno strumento di conoscenza, che non impedisce che tutto si dissolva nel vuoto: “ma se allunghiamo la punta delle dita / verso le figure / ci rendiamo conto che si dissolvono una dopo l’altra / sulla superficie / vuota un’altra volta”.

Forse solo la poesia può raggiungere certezza e autenticità, se è vero che “è in attesa di qualcosa di abbastanza luminoso / al di là dello scorrere stremato dei torrenti che verso l’alto elevi / la stagione impossibile / il momento in cui la lingua degli uomini / non può più mentire” (Stagione impossibile). Eppure la poesia dello scrittore portoghese non sfugge al pensiero che il tempo, motivo profondo della riflessione intellettuale, declinato attraverso  le ore e le stagioni rappresentate con viva sensibilità cromatica, condizioni il corso del vivere: “tempo vuoto che ci corrode” (Anti-Ercole),  “botola” in cui nulla è smarrito (Botola), corrente che ci tiene in sua balia (Gli occhi delle calendule), mentre “spazziamo il sentiero” dell’esistenza. Più volte ci colpisce  l’immagine di una vita che sfugge inconsistente, “impercettibile /come se non fosse mai stata nostra” (Tristezza). Eppure quanto calore, quanto sentimento di comprensione e d’affetto è nei versi che non dimenticano i sofferenti e i bisognosi d’accoglienza e d’amore come nelle liriche della sezione Sans-Papiers, dove emerge nell’incipit d’ogni poesia attenzione al corpo, che è realtà che cerca “nutrimento luminoso” nel mondo; “scatola nera mai rinvenuta”, ma della quale resta la “radiante potenza” dell’essere (Lampedusa); infine, con la metafora marina frequentemente usata, “scialuppa calata nella solitudine”, nel buio.

Con Zaccuri, che cita dall’Isola dei morti, nessuna morte può cancellare il senso e il valore di una vita. Il Segreto è avvistare da lontano la pianta del vivere, il suo fuoco, la sua rivelazione. Allora anche le sconfitte si faranno “tappeto che ti porta / fino al prato in cui fiorisce  / il giacinto azzurro” (Cicatrice).

gabriella.palli@tiscali.it

 

 

 

 

L'autore

Gabriella Palli Baroni
Gabriella Palli Baroni laureata in Lettere Classiche a Pavia, allieva di Lanfranco Caretti, perfezionata a Chicago e a San Diego sul pensiero scientifico rinascimentale e su Machiavelli, vive a Roma. Scrittrice e saggista, è studiosa di letteratura dell’800 e del 900 ed è critica di letteratura contemporanea. Collaboratrice di «Strumenti Critici», «L’Illuminista», «Il Ponte» e di altre riviste italiane e straniere, si è dedicata in particolare ad Attilio Bertolucci, del quale ha curato il Meridiano Mondadori Opere, le prose Ho rubato due versi a Baudelaire, gli scritti sul cinema e sull’arte, e a Vittorio Sereni, del quale ha curato i carteggi con Bertolucci (Una lunga amicizia. Lettere 1938-1983, Garzanti 1993) e con Ungaretti Un filo d’acqua per dissetarsi. Lettere 1949-1969, Archinto, 2013). Ha inoltre pubblicato l’antologia Dagli Scapigliati ai Crepuscolari (Istituto Poligrafico dello Stato 2000) e Tavolozza di Emilio Praga (Nuova SI, 2008). È autrice di saggi sulla poesia di Amelia Rosselli e ha collaborato al Meridiano L’opera poetica, uscito nel 2012 e al numero monografico XV, 2-2013 di «Moderna» (Serra, 2015). Nel 2020 ha pubblicato di Attilio e Ninetta Bertolucci, Il nostro desiderio di diventare rondini. Poesie e lettere (Garzanti).

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