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Lettere da Berna. Il colosso venuto dal mare

In questi giorni la Galleria Borghese mette in dialogo, come si usa dire oggi, i capolavori del Rinascimento e del Seicento – Raffaello, Caravaggio, Bernini – con una selezione di opere di Damien Hirst.
L’occasione è troppo ghiotta per me per non coglierla al volo e riandare con la memoria alla presentazione di Treasures From The Wreck Of The Unbielievable che Hirst fece a margine – margine, come vedremo, è una parola invero assai stretta – della Biennale di Venezia del 2017.
Ma andiamo per ordine. Premetto che nel testo che segue dirò cose forse ovvie insieme ad altre non avallate o condivise dalla critica artistica, e metterò nella testa di Hirst pensieri non necessariamente suoi, che da narratore presterò allo Hirst-personaggio, desumendoli dalla cosa più importante, se non l’unica, per un artista: le sue opere.
Hirst, per i pochi che ancora facessero finta di ignorarlo, è colui che divenne famoso in tutto il mondo con The Physical Impossibility Of Death in the Mind Of Someone Living (“L’impossibilità materiale della morte nella mente di chi sia ancora vivo”), uno squalo tigre pescato al largo delle coste dell’Australia nel 1991, imbalsamato e conservato in un’enorme teca di formaldeide. L’opera, commissionata da Charles Saatchi per cinquantamila dollari, venne venduta nel 2005 dal gallerista newyorchese Larry Gagosian per dodici milioni di dollari, in quel momento la cifra più alta mai raggiunta da un artista vivente.
Hirst è ancora colui che rafforzò la propria fama incastonando una serie di diamanti del valore di quattordici milioni di sterline sulla superficie del cranio di un uomo morto all’inizio del XIX secolo, realizzando un’opera (For The Love Of God) del valore di cinquanta milioni di sterline (nuovo record per un artista ancora in vita: verrebbe da commentare: “L’impossibilità materiale di concepire la somma di cinquanta milioni di sterline per un artista vivente”).
Ne nacque – lo ricorderete tutti – un feroce dibattito su che cosa fosse l’arte, su dove andasse l’arte, su che cosa fosse destinata a diventare l’arte. È il dibattito più vieto, ripetuto e forse inutile dall’invenzione della fotografia nel 1837 con Nièpce e Daguerre in poi, da quando insomma abbiamo capito che saper riprodurre la realtà non sarebbe mai più stato il discrimine tra l’essere o non essere un artista. Naturalmente L’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica di Walter Benjamin resta l’espressione più riuscita di questa riflessione. Ma è anche vero che le vette di animosità raggiunte dalla diatriba attorno alle opere di Hirst non avevano mai avuto precedenti.

Hirst divenne il prototipo del distruttore dell’arte, il mercante nel tempio, il profanatore delle divinità. Per i non addetti ai lavori – ma attenzione, tra questi vi erano anche raffinatissimi intellettuali, filosofi, scrittori, musicisti, cineasti – la misura era da considerarsi colma. Il vecchio grido di battaglia degli avversari dell’arte contemporanea – “lo saprei fare anch’io”, a volte elevato all’ennesima potenza come “lo saprebbe fare anche mio figlio”, dando per scontato che il figlio fosse un infante – venne riesumato con convinzione. Bella forza farsi pagare milioni di sterline per un teschio, sono i diamanti a dargli quel valore! È forse arte prendere le carcasse di uno squalo o di una mucca e infilarle in una teca di formaldeide? Ma chi crede di prendere in giro, costui?
La ricerca di un apparente assurdo e la commistione sempre più inestricabile tra arte, happening e mercato fu raggiuta nel 2008, quando, dichiaratamente a mo’ di denuncia della crisi dei mercati mondiali seguita alla bancarotta della Lehmann Brothers, Hirst decise di vendere all’asta tutte le sue opere, o almeno tutte quelle che restavano nelle sue mani o che era riuscito a recuperare. Una sorta di svendita per liquidazione che faceva presagire il ritiro prematuro di un artista giovane (nato come me nel 1965) e che fu organizzata da Sotheby’s senza passare per le gallerie che avevano l’esclusiva della rappresentanza di Hirst, a cominciare da Gagosian.
Beautiful Inside My Head Forever fu il titolo dell’asta, che raccolse la nuova cifra record di centoundici milioni di sterline.
La denuncia delle regole del mercato – paradossale da parte di chi più ogni altro ne aveva beneficiato – e il gusto di riuscire a violarle non impedirono però che le quotazioni delle opere di Hirst crollassero negli anni successivi e che questo, insieme alla rottura con il suo gallerista storico, accentuasse l’impressione di una fragorosa uscita di scena dell’artista.

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E veniamo allora, con queste premesse, a Treasures From The Wreck Of The Unbielievable (“Tesori dal naufragio dell’Incredibile”), la grande rentrée di Hirst alla Biennale di Venezia del 2017, che è anche poi la base della mostra adesso proposta alla Galleria Borghese.
L’evento veneziano è stato a mio avviso uno dei punti più alti, se non il più alto, della relativamente breve storia dell’arte del Ventunesimo secolo. Sotto tutti gli aspetti, che cercherò qui di enumerare.
La storia è ormai nota. Hirst inventa il naufragio di una nave, appunto la Unbelievable o Incredibile, armata da Cif Amotan II, un liberto di Antiochia divenuto scandalosamente ricco tra il primo e il secondo secolo d.C. dopo essere stato affrancato, tanto da poter raccogliere nel corso degli anni una enorme collezione di opere d’arte, reperti archeologici, curiosità naturalistiche di inestimabile valore. La nave, che trasportava l’intera collezione, sarebbe naufragata al largo delle coste di Zanzibar, nell’Africa orientale, e sarebbe rimasta nelle profondità oceaniche fino al 2008 (guarda caso, l’anno della bancarotta della Lehmann Brothers e dell’asta da Sotheby), quando si sarebbe svolta una gigantesca operazione di recupero sottomarino, cui avrebbe fatto seguito una minuziosa, complessa e sofisticata opera di pulitura e restauro dei pezzi.
Entrando nell’edificio di Punta della Dogana, che insieme a palazzo Grassi ospitava una mostra distribuita su oltre cinquemila metri quadrati (avete letto bene: 5000 m2), si veniva accolti da grandi schermi che rimandavano immagini troppo realistiche per essere un falso, con sommozzatori e palombari in azione nell’oscurità pelagica dell’Oceano Indiano. Tavole e didascalie informavano inoltre i visitatori dei dettagli del ritrovamento e della sua importanza storica, artistica e archeologica, nonché degli aspetti tecnici legati al complesso intervento. Ma è quello che c’era dopo che mi preme raccontare. Sono entrato nella prima sala, o – se la memoria non mi inganna – la prima serie di sale, che si aprivano su un grande spazio a due piani che permetteva, al momento di iniziare la visita, di cogliere uno sguardo d’insieme sugli ambienti. Non credevo ai miei occhi. Davanti a me si snodava il più incredibile dei musei. Sculture gigantesche, gruppi bronzei o marmorei, sfilate di teche contenti decine di migliaia di reperti, armi, monili, statuette votive, lucerne, medaglie, monete.
Stavo per dire: tutto credibile. Dovrei correggermi: tutto reale, tutto vero. Se non avessi saputo chi è Damien Hirst, infatti, che cosa avrei dovuto pensare dinanzi a un gruppo scultoreo di sei metri per cinque raffigurante la dea Kali con le spade sguainate che fronteggia una gigantesca idra, il tutto ricoperto ancora in gran parte di coralli, conchiglie, esoscheletri di balani, tracce di alghe? O a una sfinge di pietra lunga quasi due metri, maestosamente adagiata nella posizione che ricordiamo tutti dalle raffigurazioni di Giza, ma – questa – con il volto intatto, di severa e pura bellezza? Ammirando un orso eretto alto più di sette metri, cavalcato sulle spalle da un guerriero, anch’essi ricoperti dalle stesse concrezioni marine? Perdendomi ad ammirare una per una le monete d’oro, d’argento, di bronzo, le fibbie, gli orecchini, i gladi e i pugnali dal manico corroso dopo due millenni di smarrimento sotto migliaia di metri cubici di acqua salata?

Quello che Hirst aveva calcolato e che doveva essere – ed era – una componente essenziale della sua messinscena era la sensazione che io, come credo la maggior parte dei visitatori, avrei avuto quando avessi scoperto, a furia di ammirare la panoplia di oggetti e reperti, che in mezzo a daghe, sciabole e spadoni sarebbe spuntato fuori un robottino dei Transformer, o che tra i ritratti di divinità e imperatori romani sarebbe apparsa una statuetta di Mickey Mouse o una di Pippo, e che anzi alla fine ci avrebbe attesi il collezionista (lo stesso Hirst) con un suo amico (ancora Topolino), prendendosi per mano e salutandoci, in un bronzo alto quasi due metri e come sempre ricoperto di alghe e coralli.

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Ecco allora perché ho capito che quella di Hirst era una sfida titanica al mondo, era il modo per dichiarare che tutto quanto avevano pensato di lui fosse sbagliato. Era il rientro in grande stile, con tanto di fanfare, di un Edmond Dantès nel pieno della sua gloria e del suo potere riconquistato.
Prima di tutto: era stato accusato di eccesso di concettualismo. Ebbene, qui il concettuale c’era di nuovo, imperante, portato al suo massimo grado: a volte fin troppo evidente, come quando la nave affondata veniva chiamata The Unbelievable, The Incredibile; altre volte meno immediato, ad esempio nel gioco legato al nome del liberto, Cif Amotan II, anagramma di I am fiction, “Io sono finzione”, o nell’immaginare le operazioni di recupero avviate nel 2008, l’Anno Zero della rifondazione dell’universo hisrtiano; in altri casi, invece, molto più sottile: c’era Kate Moss dietro la severa bellezza della sfinge, c’era il teschio di Alien, c’erano nascosti tra le pieghe delle opere i cantanti Pharrell Williams e Yolandi Visser e altre icone pop.
Ancora più sofisticato il richiamo al monumento funebre a Ilaria del Carretto di Jacopo della Quercia, che nella Punta della Dogana si sdoppiava in due marmi, uno bianco e uno scuro. Finzione sottilissima era presentare grandiosi reperti naturalistici, come una conchiglia di due metri di ampiezza del genere Tridacna, i bivalvi più grandi al mondo, ma realizzarla in marmo di Carrara dipinto.

A mio avviso la vetta più raffinata del concettuale si raggiungeva quando nella collezione di Cif Amotan II venivano esposti alcuni teschi dei ciclopi. Si trattava di repliche perfette ancora una volta in marmo di Carrara e a grandezza naturale di crani di elefante inseriti in un finto naufragio e presentati appunto come teste di ciclopi, a richiamo della vera leggenda di questi ultimi, che come forse molti ricorderanno nacque, prima ancora che nei cicli epici greci, nella cultura popolare siciliana. Nelle grotte dell’isola erano stati infatti ritrovati già in antichità scheletri di pachidermi, attribuiti allora a un’estinta razza di umanoidi giganteschi, e l’unica enorme cavità in posizione frontale fu interpretata quale orbita di un occhio, mentre oggi sappiamo essere naturalmente il condotto di passaggio della proboscide. Il tutto era impacchettato da Hirst nel contesto di una spedizione inesistente: finzione di una finzione di una leggenda basata su reperti autentici qui falsificati. Citazione di citazioni all’ennesima potenza. E per falsificare – o meglio, per costruire la finzione – ci si affidava a prezioso marmo di Carrara, quasi volontariamente sprecato, perché l’effetto era talmente realistico da far pensare a una più banale materia ossea (neanche all’avorio, mancando le zanne, che avrebbero cancellato tutto il racconto dei ciclopi).
In secondo luogo: le dimensioni. Hirst getta un guanto di sfida esagerato. Mi considerate poco più di un guitto, uno che non si può prendere sul serio? Bene, dopo avervi dimostrato che posso vendere dei pezzi a dodici e a cinquanta milioni di sterline e che possono far crollare le mie quotazioni da un giorno all’altro, adesso vi presento cinquemila metri quadrati di mostra, occupo l’intera Punta dello Stendardo e l’intero Palazzo Grassi, vi propino centottantanove opere che però contengono in realtà migliaia di singoli pezzi, e il tutto non in un momento qualsiasi dell’anno ma durante la più antica e prestigiosa biennale del mondo.

Vi monto al centro del cortile di Palazzo Grassi una scultura, Demon With Bow, alta diciotto metri. Era la preparazione in vetroresina di un’identica copia tutta in bronzo, realizzata con tre fusioni e del valore iniziale di quattordici milioni di dollari, che quest’anno lo stesso Hirst espone nel Palms Casino Resort di Las Vegas. Ma vi assicuro che già lo spettacolo del prototipo di Venezia, che io arrivai a vedere proprio al termine del faticoso ma esaltante periplo dei due edifici, fu vertiginoso. La scultura svettava nel cortile fino ai ballatoi del terzo piano, un piede era più alto di me, un alluce aveva le dimensioni di un cane di grossa taglia. Alzando lo sguardo al cielo, dalla base del colosso, si aveva l’impressione di essere un piccolo Jack in procinto di arrampicarsi sulla pianta dei fagioli magici.
La stessa produzione delle riprese subacquee era tutta all’insegna dell’eccesso, degna di un kolossal hollywoodiano, ancora una volta con la chiara intenzione di colpire al fegato gli scettici, metterli al tappeto senza alcuna possibilità di riprendersi.
E ancora, la soverchiante ricchezza dei materiali, dal marmo di Carrara all’oro, dalle giade ai lapislazzuli, spesso talmente mimetizzati da risultare uno spreco conclamato.

Terzo aspetto, a mio avviso quello decisivo: gli avevamo detto che era solo un concettuale e un provocatore, che la sua non era arte, che anche un bambino, se avesse avuto i mezzi giusti, avrebbe potuto imitarlo. Ebbene, questa volta oltre a tutto il resto, oltre al gigantismo e agli eccessi, Hirst ci aveva sciorinato davanti agli occhi degli oggetti, delle cose, delle manifatture. Non erano, o non erano soltanto, dei ready-made, come le carcasse degli animali, i teschi umani o i diamanti. Erano sculture, in bronzo, in vetroresina, in pietra, in marmo, in oro, in giada e altre pietre preziose, progettate da lui.
Erano disegni, ed era questo lo scrigno più pregiato nascosto dei Tesori dal naufragio dell’Incredibile. Un intero piano di Palazzo Grassi era infatti occupato da una mostra molto classica di disegni preparatori delle installazioni, realizzati dallo stesso Hirst. Non esagero se vi dico che vi era in quei fogli e cartoni, in quelle matite, gessetti e chine, una mano degna dei maestri rinascimentali.
Dunque, Damien Hirst non era solo uno straordinario progettatore, un genio della comunicazione, un maestro della provocazione, sapeva anche fare, a cominciare dalla base del fare di ogni opera d’arte, il disegno. Dunque non avremmo più potuto liquidarlo con quella frase, “Questo lo saprei fare anch’io / lo saprebbe fare anche un bambino”.

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Pensate a tutto questo, quando visiterete le sale della Galleria Borghese e cercherete la reazione giusta all’invasione dei reperti fasulli e magnifici di Hirst, districandovi tra indignazione e divertimento, rabbia e ammirazione.
Non chiedetevi ancora se questa sia arte, se Damien Hirst sia il più grande artista vivente, o se la palma spetti ad altri, a Matthew Barney, a Jeff Koons o agli ultimi magnifici pittori come Hockney e Baselitz.
Pensate a quanto grande possa essere l’intelligenza degli umani, che imiti nel marmo le morbidezze del cuscino su cui adagia le belle membra una finta Venere che è in realtà la sorella di un imperatore che aveva iniziato la propria carriera difendendo una repubblica, o che finga di raccontarci la storia di giganti immaginari ricostruendo con lo stesso marno della dea le ossa di un animale estinto.

silvitomignano@yahoo.com

L'autore

Silvio Mignano
Silvio Mignano
Silvio Mignano è nato a Fondi il 23 ottobre 1965. È scrittore e diplomatico di carriera: ambasciatore d’Italia in Bolivia, dal 2007 al 2010, in Venezuela dal 2015 al 2019, e attualmente in Svizzera.

Ha pubblicato i romanzi Una lezione sull’amore (Fazi, 1999), Le porte dell’inferno (Fazi, 2001), Pilar degli invisibili, La favola del mercante Docibile e della principessa siriana (Robin-Biblioteca del Vascello, 2015), Il Danzatore inetto (DeriveApprodi 2018), il libro di favole Il regalo del rinoceronte (Manni, 2004, con illustrazioni dell’autore), le raccolte di poesie Taccuino nero per il viaggio (Caramanica, 2003), Non abbiamo uno sceneggiatore di scorta (Gente Comun, La Paz, 2009), La nostra ribelle buona educazione (Manni, 2011, con prefazione di Enrico Testa, Premio Sertoli Salis 2012 per il miglior libro italiano di poesia del biennio) e I Venerdì Santi (Passigli, 2017), e il libro di racconti El Bolígrafo Boliviano (Robin-Biblioteca del Vascello, 2015).

I suoi libri sono stati tradotti in spagnolo.

Ha tradotto tra l’altro l’antologia di poesie cubane L’isola che canta (Feltrinelli, 1998, a cura di Danilo Manera), Río Quibú di Ronaldo Menéndez (Fazi, 2009), I miei fratelli Fidel e Raúl, di Juanita Castro (Fazi, 2010, con lo pseudonimo di T. Ferreri) e l’antologia di poeti venezuelani Mezzogiorno in Venezuela (Robin-Biblioteca del Vascello, 2017).
Con lo pseudonimo di Mario Cabrera Lima ha scritto la sceneggiatura del film Haiti Chèrie di Claudio Del Punta, premio Giuria Giovane al Festival di Locarno nel 2007 e premio proprio per la sceneggiatura al Festival di Mons (Belgio) del 2007.

È stato anche presidente del comitato organizzatore della Biennale dell’Arte contemporanea de La Paz nel 2009, quando il Presidente della Giuria era Achille Bonito Oliva.

A Basilea ha curato con Germano Celant nel 2006 Avenue Rotella, l’ultima mostra di Mimmo Rotella ancora vivente, tenutasi presso il Museo Tinguely. Collabora con il mensile italiano L’Indice dei Libri, con L’immaginazione (Manni editore), con Margini, la rivista dell’Istituto di Italianistica dell’Università di Basilea, diretta da Maria Antonietta Terzoli, con Insula Europea, rivista on line diretta da Carlo Pulsoni, e con l’Enciclopedia Treccani.