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Lettere da Berna. Kara Walker, o della diversità

Nella Rogers, protagonista del romanzo The Other Black Girl di Zakiya Dalila Harris, per due anni unica dipendente afroamericana in un’importante agenzia letteraria, scopre che Richard Wagner (sic), il potente titolare dell’agenzia, ha deciso di assumere finalmente un’altra ragazza nera, come recita appunto il titolo del romanzo. Parlandone con una collega bianca, Nella dice tra l’altro:

Forse Richard ha deciso di affrontare  la mancanza di diversità in questo posto? Voglio dire, sarebbe almeno già qualcosa. Ricordi com’è stato difficile qui anche soltanto smuovere le persone a parlare della diversità?

Da molti anni leggo e seguo con attenzione tutto ciò che si scrive sul tema dell’identità, e non smette di sorprendermi come quest’ultimo sia trattato, spesso con risultati meravigliosi dal punto di vista narrativo, soprattutto dalle donne, e più esattamente da giovani donne afrodiscendenti o di origine africana (fa eccezione una figura maschile peraltro maiuscola, lo scrittore newyorchese Colson Whitehead).
È come se l’inquietudine legata all’identità culturale e alla ricerca o alla ricostruzione delle proprie origini si fosse innestata indissolubilmente sull’altra identità, quella di genere, e poi quest’ultima su quella generazionale: a riprova di un fatto per me fortunatamente inevitabile e cioè che l’identità in termini assoluti non esiste. Può esistere invece una somma, un continuo rimescolarsi e sovrapporsi, un vortice liquido di identità reali o percepite.
Luigi Cavalli-Sforza e altri grandi genetisti hanno dimostrato in modo definitivo, già nella seconda metà del secolo scorso, l’inesistenza delle razze, apportando anche una base scientifica, se pure ve ne fosse ancora bisogno, al rifiuto di ogni residua ideologia razzista. Più del 99% del nostro codice genetico è identico, e quell’1% scarso che ci distingue viene da fattori indipendenti dal colore della pelle, dalla provenienza geografica e da tutti gli altri stereotipi sui quali per secoli si sono fondate le più odiose teorie discriminatorie. Insomma, io, nato a Fondi, nei pressi del confine tra il Lazio e la Campania, ho le stesse possibilità che quell’1% mi avvicini a un ruandese o a una lappone che a un gaetano o una formiana. Non ci sono differenze, siamo davvero tutti uguali, oppure siamo tutti diversi, ma allora si tratta di otto miliardi di diversità, quanti sono gli individui oggi viventi nel pianeta, e non invece diversità parziali agglomerate in gruppi o sezioni di umanità.
È qui tuttavia che si inseriscono le scrittrici afrodiscendenti o africane: quelle ormai affermate da tempo, come le magnifiche Zadie Smith e Chimamanda Ngozi Adichie, e la folta pattuglia più giovane: Yaa Gyasi, Raven Leilani, Candice Carty-Williams, Imbolo Mbue e appunto Zakiya Dalila Harris. Si insinuano nella breccia tuttora aperta tra una teoria giusta, che dovrebbe tendere verso l’uguaglianza e dunque la cancellazione delle differenze, e l’essere consapevoli che il mondo in cui si vive, si scrive, si lavora e si ama quelle differenze ancora le impone e le sanziona. È comprensibile allora la tentazione di cavalcarle, rovesciando i valori, trasformando le presunte debolezze in punti di forza.
Ecco che in Nella, nel romanzo di Harris, si fa strada la preoccupazione di essersi troppo cullata nel miraggio dell’integrazione, di aver accettato supinamente un’uguaglianza che suona troppo ad omologazione, e di non aver invece lottato abbastanza per distanziarsi:

Si sentiva riportata indietro ai giorni del liceo, quando i ragazzi neri la vedevano tenersi per mano con il suo fidanzato bianco nei corridoi della scuola o pranzare in un caffè insieme ai suoi amici bianchi, e borbottavano tra loro, neanche con troppa discrezione, eccola lì, l’Oreo. Non era mica colpa sua se i corsi avanzati che frequentava straripavano di studenti bianchi e asiatici – che erano tutto il suo mondo – e perciò si limitava a far finta di non aver sentito. Far finta di non tormentarsi ogni giorno di non essere “abbastanza nera”.

Curioso come nella penultima generazione, quella delle ormai famosissime Smith e Ngozi Adichie, il tema dell’identità fosse affrontato con maggior problematicità e rimanesse irrisolto, ovvero stemperato in un contesto di melting pot inevitabile e in fondo benvenuto. Gli ultimi due romanzi di Zadie Smith, NW e Swing Time, si concentrano sul tema dei rapporti di classe in alcuni quartieri di Londra e mettono in scena personaggi prevalentemente di provenienza culturale e geografica mista. Americanah, il più celebre libro di Chimamanda Ngozi Adichie, narra di un’insolita migrazione bidirezionale – dalla Nigeria agli Stati Uniti e viceversa – di una giovane intellettuale nata a Lagos, ed è una sorta di versione afroamericana e del ventunesimo secolo del Tonio Kröger di Thomas Mann: “Io sto tra due mondi e in nessuno di essi sono di casa”.
Più netto invece il senso di appartenenza nelle scrittrici più giovani. Del resto, quanto accaduto negli ultimi anni non può che aver spinto gli intellettuali, soprattutto afroamericani, in questa direzione: si pensi agli atti di violenza compiuti dalle forze di polizia, come nel caso di George Floyd, e al conseguente fenomeno planetario del Black Lives Matter.
Il tutto è reso ancora più complesso dalla questione femminile, che segue in qualche modo un destino simile: la sottolineatura delle differenze in termini di rivendicazione di azioni positive è il risultato del parziale fallimento della lotta che per gran parte del Novecento abbiamo condotto per raggiungere l’uguaglianza e la parità. Tralascio qui, per la delicatezza e complessità del tema e per l’impossibilità di affrontarlo come merita in queste poche righe, l’ulteriore fattore di complessità legato all’universo LGBTQ+: mi limito qui a osservare come talora le rivendicazioni dell’una e dell’altra categoria, tutte in sé giuste, non solo si sovrappongano, ma finiscano per scontrarsi tra loro (difendere i valori delle culture di origine, rifiutando l’omologazione occidentale, o combatterli quando essi rischiano di ripresentare antiche consuetudini patriarcali od omofobiche? Rispettare le differenze biologiche tra i generi o perseguire un ideale di non appartenenza a un sistema binario maschile/femminile, anche a costo di invadere lo spazio prima riservato a uno dei due?). J. K. Rowling, la scrittrice più ricca e famosa al mondo, creatrice di Harry Potter, è finita mesi fa al centro di una bufera per aver affermato, da una prospettiva dichiaratamente femminista, che la difesa dei diritti dei transessuali non deve indurre a negare che il sesso biologico sia un fatto reale e non sostituibile da una dichiarazione di appartenenza.
Consiglio di leggere almeno i libri di Jeanette Winterson, e in particolare Frankissstein, un romanzo allo stesso tempo colto, stravagante e delicato, costruito su due livelli cronologici, il XIX secolo, con la storia di Mary Shelley, del marito Percy Bysshe Shelley, di Lord Byron e della scrittura di Frankenstein, e un futuro prossimo, con i temi della transessualità e del transumanesimo, ovvero dell’ingegneria genetica portata al limite del mostruoso.

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Esaltata, enfatizzata, la diversità è al centro dell’opera di Kara Walker (Stockton, California, 1969), una delle più celebri artiste viventi e di certo la più importante tra le afroamericane. La più ampia retrospettiva di Walker mai realizzata è in corso nel Kunstmuseum di Basilea fino al 26 settembre. Sono seicentocinquanta pezzi, molti dei quali inediti perché letteralmente tirati fuori dagli archivi e magazzini personali, che ci consentono di apprezzare un’arte potente, esplicita, che provoca e obbliga lo spettatore a interrogarsi su questioni che probabilmente riteneva risolte, quantomeno nel proprio foro interiore.
Enormi pannelli ricoperti da disegni su carta, attorniati da centinaia di fogli e cartoncini più piccoli, affollano le sale della nuova ala del museo, dedicata all’arte contemporanea e felicemente innestata, blocco grezzo di pietra, sulla struttura classica e severa dell’originale Kunstmuseum. Carboncino, inchiostro, acquarello e matita tracciano scene grottesche e spesso caricaturali, al cui centro è il corpo. Simbologia del corpo dell’uomo e ancor più della donna nera, raffigurati con un’esattezza addirittura deformata, come se Walker volesse dirci: è così che ci avete visti per secoli, è così dunque che vogliamo che ci vediate; non pretendete che ci mimetizziamo, che ci fondiamo in voi, accettateci con le labbra tumide, con le orbite scavate al cui fondo brillano tizzoni degni di un racconto di Conrad.
Avvicinandosi alla serie di disegni e acquarelli, realizzati privilegiando la forza espressiva ma senza mai abbandonare il sapiente dominio della tecnica, si scorge il segno permanente della violenza, perlopiù subita. Nodi scorsoi svirgolati su tonalità purpuree o celesti ci assalgono con la loro pura bellezza, nemmeno si trattasse di segni calligrafici, senza tuttavia perdere per un momento l’atroce richiamo alla morte che risvegliano nella nostra memoria.

In altri casi il grottesco nasce dal découpage: un corpo nero, sì, ma di una modella slanciata e seminuda, accettata nella nostra società come un’eccezione piacevole, che però qui culmina nell’incastro di due stampe d’epoca che ne prolungano il busto trasformandolo in puparo bianco che solleva la marionetta di una Mammy del periodo della schiavitù, il classico fazzoletto annodato sul capo, un bambino al collo.
Corpi neri, dilavati dall’acquarello appena accennato, fuggono trattenuti da legacci, si accoppiano con disperazione, si contorcono tra i ceppi o sotto i colpi di armi da taglio o da fuoco, si confondono in metamorfosi che li rendono paesaggio, animale, elementi della natura.

Forse il pezzo più bello della mostra è Impostor Syndrome del 2020, un enorme disegno a carboncino (circa due metri per uno e ottanta) strutturato come una versione moderna del tondo che Andrea Mantegna realizzò per il soffitto della Camera degli sposi nel Palazzo Tè di Mantova. Credo che quasi tutti abbiamo presente l’immagine, presa dal basso, con una serie di volti idilliaci affacciati a un pozzo e ritagliati sullo sfondo di un cielo perfettamente azzurro, impreziosito da un pavone e da alcuni putti alati. Qui non c’è traccia di azzurro né di altri colori, se non tutte le possibili sfumature del nero, e tra i volti realistici ed espressivi, maschere drammatiche e nobili scolpite a colpi di chiaroscuro, spiccano alcune palesi caricature (donde, appunto, la sindrome dell’impostore): labbroni impossibili da cartoon degli anni Trenta o perfino retaggi del blackface, quel trucco teatrale attraverso il quale attori bianchi si fingevamo neri senza andar troppo per il sottile, oggi additato quale inaccettabile esempio di una parodia irrispettosa.

Il disegno si fa talmente essenziale, nella sua brutalità, da diventare scrittura: I am not my negro, urla Walker dalla parete, in un altro carboncino di più di due metri d’altezza. La scrittura è inevitabilmente introduzione al racconto, che si sviluppa in cartigli orizzontali, esposti in teche al centro di alcune sale, o in pannelli verticali. È come se stessimo leggendo paradossali fumetti di molti decenni fa, e comprendiamo perciò che le parole usate dall’artista non debbono per forza significare quello che apparirebbe dalla loro nuda decifrazione, così come, ancora una volta, le figure caricaturali debbono essere viste come un’antifrasi grafica. Si torna alle scrittrici che ho citato all’inizio, alla mitologia della liberazione nera trasfigurata e tradita, espressa a volte con un voluto rovesciamento dei ruoli e dei giudizi.

Meno riusciti, a mio modesto parere, sono invece i grandi quadri – tra i quali i pochi a colori presenti nella mostra – troppo esplicitamente rivelatori di un giudizio politico e della scelta di campo, come la serie dedicata a un Obama sospeso tra le raffigurazioni da condottiero, da eroe di tragedia shakespeariana o di una rivisitata mitologia classica o meticcia. Anche in questo caso, va detto, Walker si riscatta sempre con l’arma dell’ironia, che non permette mai una lettura univoca delle sue opere, lasciando invece aperto uno spiraglio all’ambiguità interpretativa: celebrazione o delusione? Apologia o denuncia?
Alcuni dei disegni esposti fin dalla prima sala assumono la forma più semplificata possibile, e al tempo stesso incisiva, della sagoma o siluetta. Teste e figure umane perlopiù femminili, sempre di profilo, nelle quali il nero si fa polisemico, ombra del corpo ed eredità razziale. Dalle sagome al teatro delle ombre il passo è men che breve e ricorda in modo sorprendente i lavori di William Kentridge, uno degli artisti contemporanei più celebrati e citati al mondo.

A dire il vero è già dagli anni Novanta che Walker esplora questo linguaggio, ciò che la mette al riparo da ogni sospetto di plagio o di troppo facile appropriazione dell’opera di Kentridge, al di là comunque della piena legittimità nell’arte contemporanea di ogni citazione e commistione.
Anche le animazioni di Kentridge, sempre più sofisticate col passare degli anni, esplorano il territorio della sopraffazione, della menzogna e del furto dell’identità, e lo fanno con crudezza e aggressività. C’è però nei video del sudafricano un’impronta di epica e di solennità, spesso affidate anche al commento musicale, che manca invece nei filmati di Kara Walker, volutamente più elementari e vicini a un’estetica popolare, quasi da teatrino di provincia. Non c’è traccia di infingimento nei due film presentati presso l’altra sede del museo, il Gegenwartkunstmuseum sulle sponde del Reno, con i titoli Six Miles from Springfield on the Franklin Road e Lucy of Pulaski, entrambi del 2009. Si vedono chiaramente i contorni delle figurine ritagliate, il movimento impresso dalle mani, il cono di luce proiettato alle spalle dell’artista. Tutto deve lasciar pensare alla rielaborazione di una narrativa dal sapore antico, di tradizione orale, un po’ ingenua ma proprio per questo credibile e potente.
Il primo film narra la storia di Amanda Willis, una giovane ragazza nera violentata da una banda di fuorilegge bianchi che avevano attaccato e rapinato la sua famiglia, uccidendo il padre e dando alle fiamme la casa. Struggente è il racconto appena accennato alla pacifica vita nella cittadina di Springfield, nel Tennessee, spezzata dalla violenza.  Il secondo video è invece la cronaca di un violento scontro tra bianchi ed afroamericani avvenuto nel 1868 a Pulaski, sempre nel Tennessee, e conclusosi con la morte di otto neri. Qui il dramma è un’anti-epopea, dolente cronaca dei fatti, rassegnata ma non per questo meno lacerante consapevolezza del destino delle vittime. Il materiale è il frutto di un accurato studio delle fonti documentali condotto da Walker scavando negli archivi che conservano la memoria dei fatti di sangue avvenuti nella seconda metà del XIX secolo negli Stati Uniti del sud.
A Black Hole is Everything a Star Longs to Be, Un buco nero è tutto ciò che una stella ambisce a essere, è il titolo della mostra di Basilea, e in esso, come non poteva non accadere dinanzi a un’artista così narrativa, è racchiuso tutto quanto si sopra detto. La stella, oggetto luminoso e chiaro per eccellenza, diventa nero nel momento in cui collassa, ma quel collasso, lungi dal sottrarre forza, la moltiplica al punto tale da divenire il corpo celeste più potente, in grado di attrarre una massa enorme, di intrappolare la luce, di modificare la curvatura spaziotemporale.

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Kara Walker può essere vista in due modi diversi, non necessariamente alternativi: come artista individuale – l’opzione che personalmente preferisco – e come rappresentante di un gruppo, ovvero gli artisti di origine africana o afrodiscendente. In questo secondo caso si iscrive certamente nel solco di un riscatto riuscito e di un successo crescente. In un libro dedicato proprio a lei (Les mauvais sentiments, Dijon, Les presses du réel, 2019), Vanina Géré fa un’interessante ancorché non esaustiva compilazione di quanti tra quegli artisti abbiano ottenuto nel precedente decennio i maggiori riconoscimenti, elencando le mostre di Lorna Simpson al Whitney Museum di New York nel 2007 e al Brooklyn Museum nel 2011, di Mark Bradford al Whitney nel 2007, Catherine Opie al Guggenheim nel 2008, Julie Mehretu al Guggenheim nel 2011, Glenn Ligon al Whitney nel 2011, Martin Puryear al MoMa, e ancora, la scelta per rappresentare gli Stati Uniti nella Biennale di Venezia caduta su Fred Wilson nel 2003, proprio su Kara Walker nel 2005 e su Robert Colescott nel 2007, per finire con la direzione generale della stessa Biennale affidata nel 2015 al nigeriano Okwui Enwenzor, prematuramente scomparso nel 2019. Del resto proprio a Kara Walker, ci ricorda Géré, fu dato da Enwezor l’incarico di realizzare la scenografia della Norma di Bellini in quell’edizionee. E sempre Walker fu fotografata da Annie Lebowitz su due numeri di Vogue nel 2005, mentre il Time Magazine la inserì nel 2007 nel classico elenco delle cento personalità più influenti al mondo.

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Tra gli artisti afroamericani di maggior successo va menzionato anche Tony Cokes (Richmond, Virginia, 1956), non foss’altro per l’interesse che può avere in questo momento per il pubblico italiano. Fino al 17 ottobre si può infatti visitare al MACRO di via Nizza, a Roma, il suo This isn’t Theory. This is history, una grande installazione video-sonora che gioca con musiche e frasi legate all’immaginario delle periferie multietniche americane, con riferimenti molto polemici anche ai più recenti episodi di guerriglia urbana, combinate con l’uso di luci violente, acide, volutamente fastidiose.

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In Luster, romanzo uscito l’anno scorso, la trentenne Raven Leilani, nata nel Bronx, mette in scena i complessi rapporti tra la giovanissima artista afroamericana Edie, il suo amante Eric, un dirigente di archivio bianco e molto più maturo, la moglie di questi Rebecca, anatomopatologa specializzata in autopsie, e la loro figlia adottiva Akila, che non a caso è una bambina afroamericana. Una delle scene chiave del libro ci mostra Edie che accompagna Akila a casa dei genitori adottivi, che è ovviamente anche la sua casa. Le due giovani vengono fermate e trattate con brutalità da alcuni agenti di polizia, che le considerano evidentemente estranee al quartiere residenziale e tipicamente bianco nel quale si trovano. Il rinvio a casi come quello tragico di George Floyd è evidente, ed è ancora una volta significativo come nella riscrittura narrativa la scena venga vista da una prospettiva tutta femminile:

Quando chiedono se io vivo in quella casa ho un attimo di esitazione, mentre Akila tiene le braccia conserte e dice che lei sì, ci vive, con un tono assai meno rispettoso del mio. Uno degli agenti si gira a guardarla e posso sentire la tensione che sale tra di loro, la mia paura dinanzi all’agente che si fa sempre più vicino in qualche modo temperata dallo strano fatto che io e lui siamo egualmente increduli per come Akila si stia allontanando dalla sceneggiatura. Non so dire se questo accada per un gesto di sfida o perché semplicemente lei non conosce le sue battute. Faccio un passo mettendomi davanti a lei e le dico di proteggersi dietro le mie spalle. Ma si rifiuta di farlo, e una parte di me si rende conto di quanto lei si trovi a suo agio, sia nel pieno possesso delle sue facoltà, e allo stesso tempo frustrata per quello che non le è stato spiegato. Ma quando vedo quanto sia risoluta, disinvolta nel reclamare ciò che è suo, sono invidiosa di lei. Quando gli agenti mi chiedono di mostrare un documento mi metto a cercare la patente, ma mi tremano le mani e la mia borsetta è piena di campioncini di profumo rubati. Questa è casa mia, dice Akila, e io so che la distanza tra il momento in cui un ragazzo nero è ancora in piedi e in grado di parlare e quello in cui sarà a terra in una pozza di sangue è quasi impercettibile e dipende in gran parte dalla tacita conversazione che si svolge alle sue spalle e davanti a lui, e questo rende vano ogni sforzo di intromettersi prima che si arrivi a una conclusione. So che gli eventi si sono mossi rapidamente per via del varco che si è aperto tra i saluti e la caduta sull’asfalto, ma nel tempo reale, mentre gli agenti schiacciano Akila a terra, ogni secondo dura un’eternità. Mentre questo accade a ognuno coinvolto nella scena viene sottratta un po’ di dignità, la forza bruta degli agenti sincera e assurda, lo sforzo che li rende piccoli, e Akila, sorpresa e goffa e spaventata, così chiaramente una bambina che io mi metto a correre senza pensarci e cerco di staccarli da lei, il bianco dei loro occhi che brilla nella luce dell’androne prima che un agente mi sollevi tra le braccia e mi schiacci sull’erba e dica la smetta di opporre resistenza, frase che i miei orecchi accolgono come se fosse antico greco e allo stesso tempo come un déjà vu, perché nemmeno in quello che possibilmente sarà il mio ultimo momento riesco a liberarmi da internet e dalla sala di specchi digitale nella quale gli ordini sono impartiti senza ironia a uomini e donne sul punto di morte. Quando smetto di opporre resistenza è perché non riesco più a sentire la voce di Akila. Per un momento sento solo delle oche e da qualche parte un camioncino dei gelati.

Nel 2014 Kara Walker eresse la più grande opera d’arte mai esposta in uno spazio pubblico nella storia di New York. Si trattava di A Subtlety, or the Marvelous Sugar Baby (Una sottigliezza, o la meravigliosa Sugar Baby), una sfinge alta più di dieci metri e larga ventidue, composta da quaranta tonnellate di zucchero compatto, ancora una volta con il volto accentuato fino al caricaturale di una Mammy del sud, le labbra enormi, il fazzoletto con le cocche annodate, il seno nudo e la vulva prominente. Essendo di zucchero, questa donna volutamente stereotipata nei suoi tratti afrodiscendenti era tuttavia bianchissima, luccicante, in sarcastico contrasto con il colore della pelle che ci si sarebbe attesi. Inoltre lo zucchero usato come materiale e il nome della sfinge, Sugar Baby, evocavano entrambi dolcezza e attrazione sessuale, ricordando quanto la schiava africana sia stata purtroppo anche oggetto di violenta appropriazione da parte del maschio bianco.


È la stessa violenza che Raven Leilani descrive nella scena del romanzo e che trasforma la donna prostrata a terra da magica sfinge a corpo insanguinato, e allora penso che riflettere sui limiti dell’identità è importante soprattutto per la costruzione di un futuro più razionale e davvero integrato, ma finché accadranno ancora fatti come quelli di Minneapolis è giusto che artisti e scrittori utilizzino ancora le differenze per farne potente strumento narrativo o evocativo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L'autore

Silvio Mignano
Silvio Mignano
Silvio Mignano è nato a Fondi il 23 ottobre 1965. È scrittore e diplomatico di carriera: ambasciatore d’Italia in Bolivia, dal 2007 al 2010, in Venezuela dal 2015 al 2019, e attualmente in Svizzera.

Ha pubblicato i romanzi Una lezione sull’amore (Fazi, 1999), Le porte dell’inferno (Fazi, 2001), Pilar degli invisibili, La favola del mercante Docibile e della principessa siriana (Robin-Biblioteca del Vascello, 2015), Il Danzatore inetto (DeriveApprodi 2018), il libro di favole Il regalo del rinoceronte (Manni, 2004, con illustrazioni dell’autore), le raccolte di poesie Taccuino nero per il viaggio (Caramanica, 2003), Non abbiamo uno sceneggiatore di scorta (Gente Comun, La Paz, 2009), La nostra ribelle buona educazione (Manni, 2011, con prefazione di Enrico Testa, Premio Sertoli Salis 2012 per il miglior libro italiano di poesia del biennio) e I Venerdì Santi (Passigli, 2017), e il libro di racconti El Bolígrafo Boliviano (Robin-Biblioteca del Vascello, 2015).

I suoi libri sono stati tradotti in spagnolo.

Ha tradotto tra l’altro l’antologia di poesie cubane L’isola che canta (Feltrinelli, 1998, a cura di Danilo Manera), Río Quibú di Ronaldo Menéndez (Fazi, 2009), I miei fratelli Fidel e Raúl, di Juanita Castro (Fazi, 2010, con lo pseudonimo di T. Ferreri) e l’antologia di poeti venezuelani Mezzogiorno in Venezuela (Robin-Biblioteca del Vascello, 2017).
Con lo pseudonimo di Mario Cabrera Lima ha scritto la sceneggiatura del film Haiti Chèrie di Claudio Del Punta, premio Giuria Giovane al Festival di Locarno nel 2007 e premio proprio per la sceneggiatura al Festival di Mons (Belgio) del 2007.

È stato anche presidente del comitato organizzatore della Biennale dell’Arte contemporanea de La Paz nel 2009, quando il Presidente della Giuria era Achille Bonito Oliva.

A Basilea ha curato con Germano Celant nel 2006 Avenue Rotella, l’ultima mostra di Mimmo Rotella ancora vivente, tenutasi presso il Museo Tinguely. Collabora con il mensile italiano L’Indice dei Libri, con L’immaginazione (Manni editore), con Margini, la rivista dell’Istituto di Italianistica dell’Università di Basilea, diretta da Maria Antonietta Terzoli, con Insula Europea, rivista on line diretta da Carlo Pulsoni, e con l’Enciclopedia Treccani.