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Donato Loscalzo intervista Mario Torelli

Mario Torelli, archeologo classico, etruscologo, accademico dei Lincei, è stato ordinario di Archeologia e Storia dell’Arte greca e romana presso l’Università di Perugia e ha tenuto corsi presso diverse università europee, americane e canadesi, da Oxford a Bristol, Paris La Sorbonne, Ann Arbor e Princeton. Studioso di fama internazionale, ha segnato profondamente con i suoi studi le ricerche archeologiche, prospettando nuove metodologie e innovative chiavi di lettura. Tra le sue numerose opere: L’arte degli Etruschi, Roma-Bari, Laterza 1985; Storia degli Etruschi, Roma-Bari, Laterza 1990; Le strategie di Kleitias, Milano, Mondadori Electa 2007; Dei e artigiani: archeologie delle colonie greche d’Occidente, Roma-Bari, Laterza 2011; La forza della tradizione, Milano, Longanesi 2011.

La ricerca archeologica esercita e ha esercito grande fascino sui giovani. Anche il cinema ha raccontato il lavoro dell’archeologo proiettandolo nel mito. Qual è la realtà della professione di archeologo, quali sono le difficoltà?

Il cinema e il mito della scoperta del tesoro, antico quanto l’uomo, hanno fatto più danni che altro contribuendo alla costruzione della nefasta leggenda dell’archeologo all’Indiana Jones. La realtà del lavoro dell’archeologo è invece fatta di grande fatica fisica, di resistenza a condizioni climatiche avverse, di grande ripetitività delle operazioni sia di base che finali, di laboratorio, che ogni lavoro di ricerca archeologica presuppone. C’è poi l’altro aspetto del lavoro dell’archeologo, un tempo dominante o addirittura esclusivo, ma ora purtroppo sempre meno praticato, che è quello di storico dell’arte antica, in cui sono state portate solo parziali innovazioni, riassumibili nella ricerca iconologica, iniziata dalla scuola di Aby Warburg, e nella ibridazione tra storia dell’arte e antropologia, estremamente utile per ricostruire la mentalità antica e i processi che conducono alle realizzazioni artistiche e monumentali.

Com’è cambiato il mestiere dell’archeologo in questi ultimi 50 anni?

Oggi il lavoro sul campo ha di fatto espunto il vecchio operaio, il cui lavoro è ormai compito del tecnico, il piccone è stato sostituito dalla cucchiara, e l’integrazione con molte discipline tecniche, dall’areofotografia alle prospezioni geofisiche, è diventata parte del bagaglio di ogni archeologo; in magazzino poi l’allegra gestione di qualche decennio fa, caratterizzata (quando si facevano) da inventari sommari dei materiali, è stata soppiantata da un’attenta analisi dei contesti, con due obiettivi di base: trovare l’elemento più tardo che data lo strato e valutare la composizione dello strato, che è una fondamentale indicazione della natura del deposito e delle attività che hanno presieduto alla sua formazione, e dunque sulla natura e la storia del monumento oggetto dell’indagine. Dell’archeologia come storia dell’arte classica si è appena detto.

L’archeologia costituisce un ponte tra il passato e il presente: in quale misura è in grado di “presentare” il passato?

Ogni “presentazione” del passato è frutto di un forte condizionamento ideologico di chi ricostruisce quel passato: l’età di Pericle o il secolo di Augusto come sono letti oggi sono assai diversi da quegli stessi periodi nella storiografia anche solo di trent’anni fa. Analogamente ogni paesaggio archeologico è costruito secondo il gusto e l’idea che di quel passato si aveva in una data epoca: concretamente l’inventore del paesaggio della Via Appia antica, prodotto del gusto neoclassico attardato, è stato l’architetto-archeologo Luigi Canina, attivo all’età della Restaurazione. Per questo, quando si leggono (o si guardano) le ricostruzioni del passato, bisogna tenere presente quali erano gli orizzonti culturali e di gusto e le convinzioni politiche all’origine di quella ricostruzione.

All’archeologo si chiedono una vasta erudizione e varie competenze, dalla storia della politica, dell’economia, delle religioni, fino all’ingegneria e alla scienza delle costruzioni. Quali opere è indispensabile che conosca?

L’inventario sia delle discipline che delle letture indispensabili a fare il buon archeologo occuperebbe pagine e pagine e alla fine sarebbe un arido elenco che richiederebbe a sua volta una lunghissima serie di esplicazioni: in altre parole occorrerebbe scrivere un manuale. Quello che ho sempre raccomandato ai miei allievi è di essere onnivori in fatto di libri, di allargare fino all’inverosimile il campo dei propri interessi, di far confluire nella ricostruzione del passato ogni possibile disciplina, cioè di fare pratica interdisciplinare vera. Ciò non vuol dire estendere la ricerca a tutto lo scibile, ma di conoscere i fondamenti delle discipline che si fanno entrare in giuoco per capire il passato: ad esempio, poiché la cultura greca arcaica e classica è condizionata da un sostanziale dominio (che non è comunque universale e totalizzante) dell’ideologia religiosa, ricostruire senza quei presupposti brani del passato o leggere monumenti di quei periodi senza tenere conto di quei condizionamenti è fare un lavoro a metà, se non, in qualche caso, addirittura falsante; questo non significa che l’archeologo deve improvvisarsi storico della religione greca, ma che deve conoscere bene i meccanismi che l’ideologia religiosa mette di volta in volta in campo, dai rituali alle aspettative degli antichi, basandosi sulla ricerca più moderna e aperta in campo storico-religioso, avendo però ben presente che il materiale che egli ha dissotterrato – materialmente o metaforicamente – spesso può cambiare nozioni e prospettive di ricostruzione anche in campo storico religioso. Occorre insomma essere molto duttili e aperti all’apporto delle altre grandi discipline che studiano l’antichità, la sua storia e le sue mentalità.

Tutti sanno che il Prof. Torelli è un lettore appassionato, se non compulsivo. Quali sono le letture, soprattutto di opere letterarie, che hanno contribuito alla sua formazione?

Come ho anche scritto di recente, mi considero effettivamente un lettore compulsivo: immenso è il mio debito verso letture “matte e disperatissime”, che ho fatto fin da giovanissima età e che non ho mai abbandonato. Distinguerei tra le letture che hanno contribuito alla costruzione della mia idea dell’antico, da quelle che invece non hanno a che fare direttamente con il passato classico, ma che sono state determinanti per la mia formazione di intellettuale: tra queste ultime hanno un posto di rilievo opere di storia, di filosofia e di politica, ma anche di letteratura moderna italiana ed europea. Le mie scelte di classicista partono della lettura in originale di un discreto numero di opere antiche di poesia e di prosa: di questo sono debitore prima di tutto verso il prof. Bonelli, mio professore di latino e greco di liceo, che veniva settimanalmente con pacchi di classici Teubner, Oxford, Belles Lettres, da lui assegnati in lettura con il compito di riferirne in classe, e poi ai programmi di studio universitari, allora monumentali e seri; essenziale è stata poi la frequenza alle lezioni, poiché nel corso di quelle lezioni alcuni (non tutti) docenti ricordavano nomi ed opere di studiosi moderni, non necessariamente archeologi. Queste menzioni mi hanno fatto conoscere personalità straordinarie come Rostovzeff, tanto per fare un esempio, le cui opere immediatamente dopo la lezione alcuni di noi andavano a consultare in biblioteca, per poi farne attenta lettura. Domande come queste per un lettore compulsivo possono essere addirittura imbarazzanti.

Quali letture si possono consigliare a un aspirante archeologo?

Anche qui l’imbarazzo è sommo: per restare alle solo opere archeologiche, credo sia essenziale andare a leggere i migliori storici, dell’arte, della letteratura e storici tout court del XX secolo. Per restare nel solo campo archeologico credo sia fondamentale la conoscenza di storici dell’arte antica italiani come Ranuccio Bianchi Bandinelli, di tedeschi come Tonio Hölscher e Paul Zanker, di francesi come Roland Martin e Jean Charbonneaux, ma preferirei quasi che a questi autori venisse premessa la lettura di storici come Ronald Syme, Arnaldo Momigliano, Ettore Lepore o Pierre Lévêque o di storici della letteratura e della cultura, come Jean-Pierre Vernant, Pierre Vidal Naquet o Bruno Gentili. Tutto di tutto, insomma, all’insegna della curiosità senza fondo.

La chiusura al traffico dei Fori Imperiali a Roma è davvero auspicabile e funzionale alla ricerca archeologica?

La pedonalizzazione della Via dei Fori Imperiali è prima di tutto un atto di rispetto urbanistico per un patrimonio unico diventato un’area di attraversamento veloce con automobili, più un paesaggio per giostra degli autoscontri, che per rovine archeologiche. Naturalmente scavare quell’area sarà fondamentale per capire uno snodo architettonico-urbanistico antico di primaria importanza, e cioè l’ancora irrisolto problema della forma del lato corto del Foro di Augusto, a tutt’oggi sconosciuto, e l’altro, a questo collegato, del rapporto architettonico tra Foro di Augusto e Foro di Traiano. Bisognerà comunque evitare quei “purismi” dell’archaeologically correct degli scavi degli anni Novanta, che hanno lasciato in vista il collettore fognario del ‘600 che taglia a metà il Foro di Cesare e soprattutto le cantine ottocentesche e novecentesche delle case abbattute negli anni Trenta, che nessuna persona anche di buona cultura è in grado di capire cosa siano. Se si fa questo con grande spesa del contribuente non è per salvare le anime belle degli archeologi (che conservano tutto), ma restituire il volto di un insieme monumentale ad elevatissimo contenuto storico, architettonico e urbanistico del passato di Roma.

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L'autore

Donato Loscalzo
Donato Loscalzo
Donato Loscalzo insegna Letteratura greca presso l'Università degli Studi di Perugia.