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Silvia Argurio intervista Maurizio Virdis

Maurizio Virdis (Roma, 1949) insegna Filologia Romanza e Lingua sarda all’Università di Cagliari. Si occupa di Letteratura francese medievale, e più in particolare del romanzo cortese (sec. XII-XIII); di Filologia sarda (edizione di testi sardi medievali e della prima età moderna); svolge ricerca sulla grammatica (fonetica, sintassi) della lingua sarda. Presta attenzione e passione alle scritture letterarie, e alla letteratura in Sardo di ogni tempo. Si diverte a tradurre in Sardo testi poetici diversi. Tra i suoi lavori: Perceval. Per un’e(ste)tica del poetico. Fra immaginario Strutture linguistiche e azioni, Oristano, S’Alvure, 1988; Gloser la lettre. Marie de France Renaut de Beaujeu Jean Renart, Roma, Bulzoni, 2001; Condaghe di Santa Maria di Bonarcado, a cura di Maurizio Virdis, Cagliari, Centro di Studi Filologici Sardi/CUEC, 2002; Gerolamo Araolla, Rimas diversas spirituales, a cura di Maurizio Virdis, Cagliari, Centro di Studi Filologici Sardi/CUEC, 2006; Vindice Satta, una poesia metafisica minimalista (Prefazione a Vindice Satta, Il giorno qualunque e Una solitudine, a cura di Ugo Collu, Nuoro, il Maestrale, 2014;  Allegorice loqui (pp. 11-25) e Allegorice cogitantes (pp. 126-147), in Patrizia Serra (a cura di), In altre parole. Forme dell’allegoria nei testi medievali, Milano, Franco Angeli, 2015.

Professore di Linguistica sarda e Filologia romanza presso la Facoltà di Studi umanistici dell’Università degli Studi di Cagliari, a fianco al ruolo accademico coltiva un forte interesse per la letteratura e la poesia in sardo, per lo sviluppo di questa lingua e per i suoi problemi attuali. Può dirci qualcosa sulla situazione della poesia e della letteratura in sardo? Come si presenta il panorama contemporaneo?

Il panorama contemporaneo della letteratura in lingua sarda si presenta oggi in maniera duplice, e in qualche modo contraddittoria. Mi spiego. Oggi, in questi ultimi decenni, assistiamo al fiorire di una produzione letteraria in Sardo alquanto forte e abbondante, come non mai nel passato; e in genere, io credo, di buona qualità, pur con esiti ovviamente diversi. È soprattutto nata finalmente, a partire dai tardi anni Settanta del Novecento, una prosa narrativa sarda, e una attività di traduzione letteraria che volge nella lingua nostra isolana capolavori della letteratura europea. Questo in positivo; in negativo va detto che purtroppo la ricezione di tutto ciò non è alla pari della qualità e dell’impegno profuso dagli autori (e dai traduttori). Assai pochi ne sono al corrente, anche fra gli intellettuali e fra chi si occupa di letteratura, e di letteratura prodotta in Sardegna in lingua italiana. Ciò è dovuto a fattori molteplici che sarebbe lungo e complesso qui dire; ma, sintetizzando, potrei avanzare alcune considerazioni: la lingua sarda è sempre meno usata e compresa nella società sarda, ed anche, e direi soprattutto, dalle persone colte ed esperte, ancor più poi quando si tratti di un uso raffinato, letterario appunto, della lingua. Il Sardo, nella percezione dei più, resta di fatto, anche quando e dove sia conosciuto e impiegato in maniera vitale, una lingua dell’oralità e della quotidianità, o al massimo di una letteratura folclorica e della tradizione antica. Né i mezzi di comunicazione fanno sforzo per far comprendere tutto ciò: anzi! Si assiste così al paradosso – forse non solo sardo – per cui, proprio oggi che la lingua sarda perde sempre più parlanti, essa conosce una qualità, quantità e capacità di produzione che mai finora si era data.

Da quale momento storico si può parlare di poesia e prosa d’arte in lingua sarda? Entrambi i settori dimostrano la stessa vitalità?

Di poesia letteraria in lingua sarda si può cominciare a parlare dal tardo secolo XVI, quando Gerolamo Araolla, intellettuale e sacerdote sassarese, scrisse un poemetto agiografico, in ottave ariostesche e tassiane, sui Santi turritani Gavino, Proto e Gianuario, e le Rimas diversas spirituales, una raccolta di liriche religiose e spirituali, che ben si inseriscono e validamente nella produzione e nella temperie del petrarchismo italiano ed europeo; tali liriche sono state concepite e scritte in tre lingue: in Sardo la maggior parte, ma anche in Italiano e in Spagnolo, con l’intento, da parte dell’Autore, di dimostrare che il Sardo poteva stare alla pari delle altre più provate lingue letterarie europee. Ciò in un momento assai fervido per la cultura della Sardegna, che conobbe allora un suo pur piccolo Rinascimento, e che, non va dimenticato, vide in quell’epoca nascere le sue due Università, e il venirsi a formare, per la prima volta nella sua storia, di un ceto intellettuale. L’Araolla intendeva, e con piena consapevolezza, elevare il Sardo a lingua ‘nazionale’ per via letteraria. Tentativo nobile ma abortito, si è detto da più parti, e in parte con ragione; tuttavia il tentativo araolliano ha dato frutti, rimasti però, per così dire ‘sottotraccia’, con produzioni editoriali labili e precarie: ma il suo esempio continua, e in certa misura fino ad oggi, fra i poeti ‘locali’ (brutta parola, mi rendo conto). Lo Spagnolo prima, e poi l’Italiano hanno fatto una concorrenza spietata e impari, mentre il Sardo scivolava man mano al rango di ‘dialetto’ (virgolette d’obbligo). Tuttavia l’Araolla ha inventato un registro linguistico letterario non dimenticato, ed egli rimane ancor oggi, benché ai più sconosciuto, un esempio luminoso e vivido. Sarà un caso, ma a Cagliari vi sono diverse vie intitolate a letterati sardi del passato, ma tutti letterati che non scrissero in Sardo (Delitala, Lo Frasso, Deledda, Satta), ma non ce n’è neppure una (non così magari in altri comuni) dedicata ai poeti in Sardo: Gerolamo Araolla o Luca Cubeddu o Melchiorre Murenu, per citarne giusto alcuni; registro felicemente che è stata intitolata una piazza ad Aquilino Cannas, cagliaritano e cantore sopraffino di Cagliari, recentemente scomparso, nel 2005.

Quanto alla prosa, nel passato storico poco si è prodotto, il Sardo viene impiegato, talvolta a livello amministrativo e giuridico, in atti notarili, nell’omiletica e in qualche scrittura pragmatica. A livello di prosa d’arte narrativa, bisogna aspettare i tempi nostri, gli ultimi decenni del Novecento, come dicevo prima. Molti scrittori sono attivi in questo impegno, e più d’uno di loro posso annoverarlo con gioia fra i miei amici. Non citerò chi è ancora in attività, per timore di offendere chi non cito: né posso citare tutti; ma va ricordato quanto meno Benvenuto Lobina, scomparso nel 1993, e il suo bellissimo e magistrale romanzo in Sardo Pocantu Biddanoa, apparso negli anni Ottanta.

Insieme alla produzione scientifica si dedica alla traduzione in lingua sarda di componimenti poetici. Quando e come è nato questo interesse e in base a quali criteri seleziona i testi da tradurre?

Questo interesse è nato, diciamo così, per gioco, a partire dagli ultimi due decenni. Nasce primariamente dal mio interesse e dalla mia passione per la letteratura e per la poesia, e dall’amore che porto per il Sardo, congiuntamente al mio insegnamento e alla mia ricerca scientifica in ambito filologico. Mi diverte farlo, per provare me stesso e la lingua sarda: non ho alcuna ambizione, né, fino ad ora almeno, mi sono prefisso alcun disegno o progetto in tal senso. Tutto è episodico, ed è inedito: è presente giusto in rete sul mio sito web.

La scelta dei componimenti è estremamente varia sia cronologicamente che linguisticamente: spazia da Petrarca a Leopardi e dall’occitano di Arnaut Daniel al romanesco di Belli. Quale lingua o quali autori le hanno creato maggiori difficoltà nella traduzione, e quali invece le sono sembrati più in armonia con il sardo? 

Certamente le difficoltà maggiori sono state con l’Occitanico medievale: difficile già in sé, per noi oggigiorno, cui si aggiunge il dettato spesso arduo e complesso degli Autori; mi sono cimentato, oltre che con la sestina di Arnaut, anche con Jaufré Rudel e con Raimbaut d’Aurenga (una poesia per ciascuno di essi, non di più). Fra i moderni, più arduo da tradurre è certamente Eugenio Montale, grande ed aspro poeta, di cui pure ho fatto alcune prove di traduzione; ma soprattutto certe poesie di Leopardi, come Amore e morte e Il pensiero dominante, dalla testualità e dal dettato complesso, elaborato e pregnante. Quanto al romanesco del Belli, di cui pure alcuni sonetti ho tradotto, ciò è un atto, gioioso, d’amore per Roma, mia città natale, e per mia madre, romana ella pure. Oltre che, ovviamente, per il grande poeta. Più in armonia col Sardo? lei mi chiede. Credo che nessuna lingua sia in armonia con nessun’altra, almeno di per sé: ognuna è se stessa, con le sue proprie risonanze e col mondo e la storia che le stanno dietro; forse è proprio l’attività di traduzione che inventa le armonie interlinguistiche. Certo del pur ostico Montale, mi è venuto più semplice tradurre Meriggiare pallido e assorto, che non Vasca o L’anguilla. Più semplice tradurre Patrizia Valduga, che dietro l’apparente semplicità cela una densità poetica veramente sublime. Per altro, parte i miei tre ‘capricci’ provenzali, ho tradotto solo dall’Italiano (e dal romanesco del Belli): lingue che, insieme al Sardo, porto nell’anima e nel pensiero.

La traduzione di testi così importanti del patrimonio culturale italiano ed europeo può contribuire ad accrescere la dignità della lingua sarda nella percezione dei parlanti?

In linea di massima risponderei di sì a questa domanda: così in astratto. Certo la lingua sarda sta dimostrando giorno dopo giorno, per merito di tante persone, molte delle quali giovani, piene di cultura e di competenze linguistiche e letterarie, che essa ha tutte le capacità per essere lingua a pieno titolo e compiutamente. E la traduzione è stata per tantissime culture e letterature, un volano: il banco di prova su cui provarsi, confrontarsi e misurarsi; un traguardo da raggiungere; ma soprattutto un ricco laboratorio, uno stimolo all’invenzione. Fra le traduzioni, tutte moderne, nella nostra lingua vorrei citare, fra le altre, il Don Chisciotte, il Werther goethiano, Cuore di tenebra di Conrad, Lo strano caso del dottor Jekyll e Mister Hyde di Stevenson. E, niente di meno, due traduzioni integrali della Commedia dantesca: la più recente ad opera di Paolo Monni, conclusasi meno di quindici anni fa: un vero stupore.

In astratto, però, dicevo. Nella concretezza, tutto ciò trova poco riscontro nella società, anche nella società delle lettere; tale attività è pressoché ignorata, o guardata con sufficienza, come una sorta di ghiribizzo di qualche “fissato”, sostanzialmente inutile; e la chiosa che, sotto forma di domanda, si fa a questo lavoro e lavorio è: “perché? a che serve tutto ciò?”. Sarebbe lungo spiegare le ragioni di un tale diffuso atteggiamento – ma forse sono anche facilmente intuibili. Il tutto si inquadra nella cornice sociolinguistica e culturale in cui sono oggi immersi il Sardo e la cultura che in tale lingua si esprime, a monte della quale v’è il discredito, quando pure non è il disprezzo, storico-politico-culturale cui la lingua sarda per secoli è stata sottoposta, con studiata e politicamente voluta intenzione. I poeti, gli scrittori e i traduttori sono generosi e importanti, ma non bastano. Ci vuole coscienza politica. Ci vogliono solide capacità, anche organizzative, che attuino una vera politica culturale e generino una coscienza.

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L'autore

Silvia Argurio
Silvia Argurio
Silvia Argurio si è laureata in Filologia Moderna presso l’Università di Roma La Sapienza, dove si è perfezionata anche in Storia delle Religioni. Ha conseguito il dottorato presso RomaTre con un progetto sulla retorica dell’impossibilità nella lirica medievale italiana ed europea. Attualmente è assegnista di ricerca presso l’università Sorbonne Nouvelle Paris3 dove collabora con il progetto DHAF (Dante d’hier à aujourd’hui en France) sulla diffusione e l’influenza dell’opera dantesca in Francia. Ha da poco pubblicato il primo commento integrale alla silloge Scintille poetiche di Giacomo Lubrano.