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Erinda Islami intervista Gëzim Hajdari

Gëzim Hajdari è uno dei maggiori poeti contemporanei. È nato in una famiglia di ex proprietari terrieri e commercianti i cui beni sono stati confiscati durante la dittatura comunista albanese di Enver Hoxha. Ha studiato presso l’Università di Elbasan e presso La Sapienza di Roma. Nell’inverno del 1991 Hajdari è tra i fondatori del P. Democratico e del P. Repubblicano della città di Lushnje, entrambi partiti d’opposizione. È inoltre co-fondatore del settimanale di opposizione «Ora e Fjalës». Nelle elezioni politiche del 1992 si presenta come candidato al parlamento nelle liste del PRA, ma non risulta eletto. Nel corso della sua intensa attività di esponente politico e di giornalista d’opposizione in Albania ha denunciato pubblicamente e ripetutamente i crimini dell’ex-regime di Enver Hoxha, la corruzione  e gli affari sporchi tra la mafia e i politici dei regimi post-comunisti. Per queste ragioni, a seguito di ripetute minacce, è stato costretto nell’aprile del 1992 a fuggire dal proprio paese.

In Albania ha svolto vari mestieri lavorando come operaio, guardia di campagna, magazziniere, ragioniere, operaio in un’azienda per la bonifica dei terreni, militare per due anni con ex-detenuti, insegnante di letteratura alle superiori dopo il crollo del regime comunista; mentre in Italia ha lavorato come pulitore di stalle, zappatore, manovale, aiuto tipografo.

È stato invitato a presentare la sua opera in vari paesi del mondo ma non in Albania, dove viene volutamente ignorato dalla cultura di potere di Tirana. Bilingue, scrive in albanese e in italiano (tra le varie opere ricordiamo Erbamara, Antologia della pioggia, Ombra di cane, Sassi controvento, Corpo presente, Stigmate, Spine nere, Maldiluna, Péligorga, Poema dell’esilio e Delta del tuo fiume). Ha scritto saggi e libri di viaggio (San Pedro Cutud. Viaggio nell’inferno del tropico e Muzungu, Diario in nero) e ha tradotto in albanese e in italiano vari autori. È vincitore di numerosi premi letterari tra cui i Premi Eugenio Montale, Guido Gozzano e Léopold Sédar Senghor. È presidente del Centro Internazionale Eugenio Montale e cittadino onorario per meriti letterari della città di Frosinone. Le sue opere sono tradotte in diverse lingue.

Nella sua produzione letteraria vi sono delle parole che ritornano, parole che danno il titolo alle opere stesse (come ad esempio “corpo presente”, “stigmate”, “peligòrga”, “spine nere”) e che trasmettono un senso di unità alla sua creazione artistica, in particolar modo dal punto di vista contenutistico. Il loro continuo riaffiorare era prefissato nella sua mente per creare un corpo centrale intorno al quale farne roteare altri o si tratta di termini che per lei hanno un significato tale da rendere spontanea la loro costante presenza?

Il ritorno di alcune parole o di alcuni personaggi da un’opera all’altra appartiene alla tradizione letteraria europea che parte da Omero a Balzak a Trakl. Una cosa del genere di solito caratterizza i poeti e gli scrittori epici. La prosa e la poesia epica chiedono che il poeta, lo scrittore, prima di tutto sia un grande uomo, con un vissuto intenso e drammatico sulla propria pelle. Solo i grandi uomini onesti e coraggiosi che si misurano con la Storia, non con i propri coglioni, possono scrivere una grande poesia oppure una grande narrativa. Spesso tutto questo significa rischiare la vita ed essere tagliato fuori dal potere letterario ufficiale. Nella storia della poesia contemporanea europea di oggi si contano sulla punta delle dita coloro che hanno rischiato in nome dell’onestà intellettuale davanti alla pagina bianca e della verità storica. Purtroppo nel vecchio continente non ci sono più poeti epici, ma scrittori di poesie che rendono visibili le frustrazioni e le fobie quotidiane.

Infatti le parole “corpo presente”, “stigmate”, “peligòrga”, “spine nere”, “Erbamara”, “Ombra di cane”, Sassicontrovento”, basta per citare alcuni dei titoli dei miei libri, hanno un doppio significato. Oltre a esprimere un disagio profondo esistenziale, esse assumono  in sé anche il dolore di un destino tragico segnato da drammi storici e politici di un popolo intero, come quello albanese. Quindi il corpus della mia opera è un poema epico collettivo.

Quando lei parla del suo stato d’esule nelle sue poesie spesso si rivolge a degli “amici”: Puskin, Gogol, Shawky, Brodskij, p’Bitek, Tagore, solo per citarne alcuni. Sia che essi abbiano vissuto la lontananza dalla patria come lei sia che l’abbiano accompagnato negli anni di gioventù e in quelli dell’esilio, sembrano essere gli amici che meglio la comprendono. Trova che questa visione colta da un occhio esterno sia giusta? Potrebbe dire in che rapporto si trova con questi autori sia da lettore che da poeta?

Sono stato nutrito fin da bambino con i racconti e le leggende dell’epica albanese. Posso dire che sono nato già ‘uomo’. Era così che crescevano i bambini della mia stirpe montanara del nord dell’Albania. Nei  giorni d’oggi questa straordinaria tradizione è stata sostituita con Cartoni animati e Walt Disney, accompagnati da patatine fritte e coca cola.

Mentre in gioventù, il mio corpo leggero sentì sulle spalle il peso della Storia tragica del mio Paese sotto il regime di Enver Hoxha. Poi nei primi anni delle superiori ho potuto leggere Puskin, Gogol, Shawky, Brodskij, p’Bitek, Tagore, ma anche molti altri classici greci e latini, i quali formarono la mia identità letteraria e la mia visione di uomo di mondi proiettato verso una nuova coscienza della mondialità.

L’Albania, la madre patria. L’immagine che lei ne dà, detto da una sua connazionale, corrisponde perfettamente all’immagine reale e concreta del Paese sotto ogni aspetto. Ritengo che le sue opere scritte e tradotte siano un’ottima fonte per chi volesse conoscere l’Albania, la sua storia, la sua politica, la sua cultura e le sue tradizioni, la sua bellezza e i suoi limiti. Considerando anche la sua traduzione in italiano degli slogan comunisti dell’Albania di Enver Hoxha in “Evviva il canto del gallo” e quella della lirica popolare albanese ne “I canti dei nizàm” il suo intento era quello di farsi portavoce della sua nazione?

È il dovere dei cantori epici quello di farsi portavoce dei loro popoli. Gli epici greci e romani,  nelle loro opere, esaltano più che gli uomini il popolo. È proprio questo il dovere di un cantore come me, ovvero di raccontare più che la storia la gjama (id est “tragedia inaudita”) della controStoria, della contropolitica e della controcultura dell’Albania martoriata.

Testimoniare per tutti quelli che sono stati costretti ad abbandonare la patria e tramandare la memoria collettiva alle generazioni che verranno, è questo l’impegno di un esule come me. Dico questo perché la Storia dell’Albania deve essere riscritta, noi albanesi sappiamo solo la metà della verità storica della sua politica e della sua cultura negli ultimi cent’anni. Ma questo è un altro discorso.

Dalla madre patria passiamo alla madre vera e propria alla quale spesso lei si rivolge in molte poesie invocandola e richiamandola a sé con affetto profondo. Queste due importanti figure materne a cui lei fa appiglio raggiungono la fusione in quello splendido poema drammatico in due atti che è “Nur”, un titolo che rimanda proprio al nome della madre Nurie. Come nasce in lei l’ispirazione di dare vita ad un’opera che mette insieme il biografico e il poetico, il passato e il presente con un’ambientazione mitica ed eroica?

Mia madre Nur è una donna semplice e generosa come la madre Terra. Durante il regime comunista lavorava scalza nei campi agricoli della cooperativa dello Stato. La sera, stanca e sfinita, mi pregava di toglierle le spine nere dai piedi con l’ago. È una figura centrale nella mia opera, una figura femminile con una forte carica di universalità, in quanto sorella, sposa, madrepatria, memoria.

Nur: Eresia e besa, che riporta proprio il nome di mia madre, è un dramma epico-tragico che attinge sulla tradizione orale dell’Albania del Nord, un palcoscenico ricco di figure epiche e ancestrali,  di narrazioni popolari, leggende e miti, dove ha regnato per cinque secoli il Kanûn, codice d’onore albanese o “Codice delle Montagne”, caratterizzato dai valori etici di giuramento, besa (la parola data per gli albanesi), sangue, onore, pane e vendetta.

Su questo sfondo storico e arcaico, l’autore traduce, e al tempo stesso sublima, le lacerazioni biografiche in lacerazioni mitiche, rivolte al futuro. Ovviamente un’opera del genere si poteva scrivere, detto con le parole del critico Andrea Gazzoni, solo ‘nel sisma dell’esilio’.

Nur come anello mancante fino ad oggi, che finalmente si aggiunge alla storia della memoria culturale europea.

Nel poema “Contadino della poesia” sembra esserci la perfetta sintesi del suo modo di fare poesia. Nella natura apparentemente antitetica di due figure come quella del poeta e quella del contadino vi è però uno stretto legame. Può spiegare qual è e perché lo ha individuato tra queste due specifiche entità?

Sono nato in un villaggio dove durante l’autunno e l’inverno si scatenano lampi, tuoni, fulmini tremendi e tira sempre vento. Ho fatto il pastore all’età di otto anni e quando perdevo una capra al pascolo la notte dormivo nei covoni per sfuggire all’ira di mio padre, e per questo venivo anche maledetto (Non avrai mai fortuna, che tu possa morire come un cane).

Prima di andare a scuola io e mia sorella più piccola vendevamo il latte e lo yogurt presso le famiglie nella città di Lushnje. Ogni giorno facevo quattro ore a piedi per andare a scuola in città e tornare nel villaggio. Per comprare il pane e i libri per studiare lavoravo nei campi durante le vacanze estive.

Chi è nato contadino porta nelle narici i profumi campestri, gli odori delle erbe, i canti dei merli, parla con i sassi, sa leggere il cielo e la terra, si lava con la terra. Chi è nato contadino conosce soltanto la parola originaria: il fischio e il grido. La mia scrivania di campagna fu un tronco di quercia e una penna di sambuco. Su questo tronco scrissi i primi versi impaurito.

Ho scritto in mezzo ai rovi e sugli alberi nudi, fra i monti sparuti della mia terra matrigna; ho scritto sui dirupi e lungo i torrenti. Fare il contadino della poesia vuol dire rispecchiarsi negli occhi della mucca, vuol dire guadagnare il piatto quotidiano col sudore della propria fronte, ricostruire il tempio della parola distrutta dagli eunuchi del minimalismo sterile. Vuol dire scrivere sul proprio corpo e con il proprio corpo, scegliere l’esilio invece di servire il potere. Se in Albania ho svolto vari mestieri lavorando come operaio, in Italia ho lavorato come pulitore di stalle, zappatore, manovale, aiuto tipografo. Chi è nato contadino, nasce già poeta.

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