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Nascita di un’antologia

Esattamente vent’anni fa, il numero secondo dell’anno diciannovesimo, nella quarta serie, di “In forma di parole”, quella che fu forse la più bella rivista internazionale di poesia pubblicata in Italia, fondata da Gianni Scalia e da lui diretta fino al 2014, usciva in forma monografica col titolo Emigranti do rie. Poeti in genovese del Novecento.

Avevo già avuto a che fare con “In forma di parole” nella fase in cui, dopo essere stata pubblicata da Crocetti, la rivista era approdata a Marietti, storica casa editrice prima torinese, transitata poi a Casale Monferrato e approdata infine a Genova sotto la direzione di Antonio Balletto. Erano gli anni 1990-1992, io facevo parte della redazione (insieme, tra gli altri, a Carlo Alberto Bonadies, futuro responsabile della Saggistica di Einaudi), e ricordo ancora con piacere le incursioni di Gianni e dei suoi amici, Pasquale Alferj, Rolando Gualerzi, Adriano Marchetti, professionisti e al tempo stesso “amatori” di altissimo rango, per i quali pubblicare poesia era non solo passione e piacere, ma atto di convinta militanza culturale.

“In forma di parole”, inoltre, aveva sempre dimostrato un particolare interesse per le espressioni linguistiche “minori” o decentrate: ricordo tra le altre sillogi di autori armeni, baschi, curdi, georgiani, lituani, lapponi, sloveno-carinziani, somali, ungaro-romeni…

A dieci anni dalla prima (in sei volumi, Genova, Marietti, 1989-1991) proprio in quel periodo stava per di più uscendo la seconda edizione della mia storia della letteratura, in tre volumi, col titolo La letteratura in genovese. Ottocento anni di storia, arte, cultura e lingua in Liguria (Recco, Le Mani, 1999-2001): così, quando Scalia mi chiese di realizzare un’antologia ligure, mi parve quella una occasione particolarmente propizia per fare conoscere a un pubblico di lettori competenti e di palato fine i risultati più recenti di una tradizione poetica che aveva espresso attraverso i secoli tante voci importanti.

Nel 1998 la rivista aveva offerto anche Cinque poeti in dialetto veneto con testi inediti di Zanzotto, Ruffato, Caniato, Cecchinel e Villalta, a cura dello stesso Zanzotto, autore di un importante e preveggente testo introduttivo, dove si leggeva tra l’altro che “il dialetto si è imposto all’attenzione come perdita, e poi ogni giorno è andato perdendo qualcosa di più, insieme al cambiamento di tutti i referenti reali, offrendosi quindi come dato oggettivo, e non metafora, di un vasto mutamento antropologico” e che “la grande fioritura della poesia dialettale di questi ultimi tempi rischia però di essere vista come supermarket della diversità, e quindi materia disponibile per ogni tipo di spermentazione, lontana dal dialetto inteso come non-dicibile ‘principio’”.

All’epoca, e se ne sente qui l’eco, andava per la maggiore la fortunata, e tuttora utilissima, categoria di poesia “neodialettale”, soprattutto per merito delle ricognizioni critiche e antologiche di Franco Brevini (Poeti dialettali del Novecento, Torino, Einaudi, 1987; Le parole perdute, Torino, Einaudi, 1990), che proprio in quell’anno avrebbe prodotto il monumentale Meridiano in tre volumi La poesia in dialetto. Storia e testi dalle origini al Novecento (Milano, Mondadori, 1999): molti preconcetti relativi all’espressione artistica nelle lingue locali venivano in ogni caso sottoposti a una rigorosa revisione critica, che si alimentava anche della lettura di alcuni tra i migliori “genovesi”, da Plinio Guidoni a Roberto Giannoni; ma di questi e di altri autori si continuava tutto sommato a presentare un’analisi basata essenzialmente sul rapporto “orizzontale” con la poesia in italiano, quale estremo sviluppo dell’idea crociana di una “letteratura dialettale riflessa” sostanzialmente vincolata a una interpretazione, rivisitazione, destrutturazione dei modelli “alti” secondo una dimensione prettamente vernacola.

Questa interpretazione tendeva a escludere aprioristicamente l’esistenza – o quanto meno la possibilità di analisi – di un altro percorso, quello “verticale” che consente di ricostruire “storie letterarie” originali e parzialmente distinte (per quanto la letteratura, come fenomeno, possa essere distinta per appartenenze linguistiche e culturali) dal filone centrale della cultura linguistica italiana, riducendo alla categoria univoca e singolare di “dialetto” la multiforme e (certo non solo dal punto di vista diatopico) variamente collocata vitalità plurale dei “dialetti”.

Ora, questo preconcetto strideva in maniera abbastanza evidente con la storia linguistica e letteraria che aveva caratterizzato la Liguria in epoca preunitaria, all’insegna di un plurilinguismo all’interno del quale individuare una relazione di mero “subordine” dell’espressione genovese rispetto a quella toscana risulterebbe francamente assurdo: lo dimostrerà implicitamente Brevini stesso nei tre volumi mondadoriani, prendendo in fondo atto dell’irriducibilità dei principali autori liguri cinque-settecenteschi (Foglietta, Cavalli, De Franchi) all’interno delle periodizzazioni e delle classificazioni da lui proposte per altre aree.

Ma quello che era stato evidente fino al Settecento e addirittura fino a buona parte dell’Ottocento (con i tentativi di “rinascita” paralleli a quelle verificatesi in Provenza e in Catalogna, fino alla pubblicazione di un poema “nazionale” quale A Colombiade di Luigi M. Pedevilla nel 1870), aveva riverberato o no i suoi riflessi anche sulla poesia del Novecento? In che misura la lettura del fenomeno “neodialettale” doveva tener conto, in Liguria, della variabile offerta dall’esistenza di una riconoscibile e rivendicata continuità con gli sviluppi storici della letteratura dei secoli precedenti?

Da queste riflessioni scaturiva dunque l’esigenza di realizzare una silloge ampia, che aggirando il rischio di limitarsi a celebrare “eccellenze” precostituite (come, nel caso specifico, il piccolo culto provinciale di Firpo quale “unico” genovese degno di entrare nel Parnaso italiano del Novecento), e di perpetrare interessate omissioni, andava al contrario alla ricerca anche di voci poco note, spesso sconosciute, in parte persino inedite, tessuto connettivo di quel mai interrotto filone di espressione genovese che risaliva indietro, per il ricorrere costante di riferimenti artistici, retorici, contenutistici e ideologici, fino agli ultimi decenni del sec. XIII.

Chiesi così a Gianni di non dovermi limitare a una scelta selettiva come quella proposta da Zanzotto, e di poter concentrare la mia attenzione sul filone idiomaticamente portante dell’espressione ligure, quello genovese: non certo per far tacere le pur significative voci provenienti dalle Riviere, ma per sottolineare i caratteri di continuità e di autonomia di una letteratura che continuava a esprimere un significativo e mai interrotto legame col proprio passato, smentendo a questo modo, tra le altre cose, i miti relativi alla presunta “spontaneità” dell’espressione “dialettale”.

Scalia fu entusiasta della proposta, in cui acutamente vide anche l’occasione, come scrisse in un Nuovo invito che commenta la raccolta, di “riconoscere la differenza tematica (non sempre rilevata) tra l’espressione poetica ‘in genovese’ e i poeti ‘liguri’ (o ‘in Liguria’) in lingua nazionale, e i suoi caratteri inerenti”, tra cui “una costante componente, intensamente icastica, di poesia ‘civile’ e sociale, [e] il legame pronunciato alla propria tradizione”; e gli piacque anche il titolo ispirato a un verso di De Andrè che sovvertiva (all’epoca, assai più di adesso) un altro luogo comune, quello della letterarietà “dialettale” come fatto libresco e appartato, avulso da riferimenti diretti a un “pubblico”, riferimenti che al contrario la poesia in genovese aveva largamente manifestato ancora per gran parte del Novecento, certificando l’esigenza, come scrisse ancora Scalia, di una conoscenza priva di preconcetti del “patrimonio della lingua in poesia dei dialetti dell’Italia ‘plurale’” non solo nei risvolti idiomatici, ma in quelli della varietà di esiti e contenuti letterari, “il cui destino vorremmo continuasse a essere, nella memoria e nell’avvenire, ricco delle differenze, non misero nella omologazione”.

Con simili presupposti, nel richiamo costante al titolo della rivista, da parte mia la ricerca della “forma” poetica nel discorso letterario in genovese del Novecento non poteva non essere un’esperienza affascinante, a tratti esaltante, densa di osservazioni e di spunti che trovarono puntuale esposizione nei “cappelli” relativi agli autori raccolti nell’antologia, e destinata a lasciarmi un’impressione profonda. Non è un caso che, pubblicando molti anni dopo una raccolta di miei versi giovanili, l’abbia intitolata appunto E restan forme (Lavagna, Zona, 2015), scegliendo proprio un verso a suo modo evocativo di quell’esperienza.

ftoso@uniss.it

L'autore

Fiorenzo Toso
Fiorenzo Toso
Fiorenzo Toso (Arenzano, 1962) vive tra la Liguria, dove risiede, e la Sardegna, dove è professore ordinario di Linguistica all’università di Sassari. Dialettologo, è specialista dell’area linguistica ligure, alla quale ha dedicato numerosi studi, con riferimento in particolare al contatto linguistico tra genovese e altri idiomi e alle varietà d’oltremare, alla storia linguistica e letteraria e a vari temi relativi al lessico: tra gli altri Il tabarchino. Strutture, evoluzione storica, aspetti sociolinguistici, Milano, Franco Angeli, 2004; Linguistica di aree laterali ed estreme. Contatto, interferenza, colonie linguistiche e «isole» culturali nel Mediterraneo occidentale, Recco, Le Mani, 2008; La letteratura ligure in genovese e nei dialetti locali. Profilo storico e antologia, Recco, Le Mani, 2009; Piccolo dizionario etimologico ligure, Lavagna, Zona, 2015. Si occupa anche di minoranze linguistiche in Italia e in Europa, con riferimento agli aspetti sociolinguistici e glottopolitici e alle tradizioni letterarie (Lingue d’Europa. La pluralità linguistica dei Paesi europei fra passato e presente, Milano, Baldini Castoldi Dalai Editore, 2006; Le minoranze linguistiche in Italia, Bologna, Il Mulino, 2008), di etimologia italiana (Parole e viaggio. Itinerari nel lessico italiano tra etimologia e storia, Cagliari, CUEC, 2015) e di metalinguaggio della linguistica. Libero docente di Filologia Italiana, collaboratore tra l’altro del Lessico Etimologico Italiano fondato da M. Pfister e dell’Atlante Linguistico del Mediterraneo, di La cultura italiana diretta da L. Cavalli Sforza (2009) e della Enciclopedia dell’italiano diretta da R. Simone (2010), dirige il progetto del Dizionario Etimologico Storico Genovese e Ligure. È anche traduttore dallo spagnolo e dal francese in italiano, dallo spagnolo e dall’italiano in genovese; in quest’ultima lingua è autore del volume di poesia E restan forme (2015).