Ciò che colpisce il lettore mediamente colto, che incontra don Giuseppe De Luca (1898 – 1962), in primissima battuta, è l’assoluta oscurità che circonda quel nome (e quell’opera), e, di contro, subito dopo, man mano ch’egli cominci a leggere di lui, e su di lui, l’accecante fulgore che proprio da quel nome (e da quell’opera) s’irradia, fino a non reggerne lo sfavillio, richiamando alla mente, per analogia di stupore (e di scoperta), la momentanea cecità di Dante, all’altezza del XXV del Paradiso:
Qual è colui ch’adocchia e s’argomenta
di vedere eclissar lo sole un poco,
che, per veder, non vedente diventa (118-20)
[Come colui che aguzza la vista, e s’ingegna / di vedere l’eclissi di sole, almeno per un po’, / e che, per vedere, diventa non vedente]
Don Giuseppe De Luca, erudito, editore e saggista italiano, filologo e storico, consigliere (ascoltato) di papa Giovanni XXIII, ideatore della categoria interpretativa della «pietà popolare» e fondatore delle (prestigiose) «Edizioni di Storia e Letteratura» (1941), con le quali volle perseguire l’ambizioso progetto di tenere assieme filologia sacra e filologia profana, in una visione unitaria degli studi sui testi e sulla lingua della nostra tradizione nazionale:
Chi voglia dare uno sguardo ai secoli della nostra letteratura, non può rimanere […] né contro né dentro le sagrestie: bisogna, alla fine, decidersi ad entrare nella chiesa, la quale, almeno in Italia, non è soltanto la casa di Dio, ma è anche la casa più bella degli uomini in mezzo alle città. La prosa italiana nasce in prevalenza dal latino di Chiesa; da quel latino che fu grandissima lingua anche nel Medioevo, perché non aveva dimenticato né Cesare né Virgilio, e nemmeno Ovidio; ed era divenuto la lingua delle due città, dei due imperi, dell’Aquila e della Croce, della lupa e dell’agnello. Nasce da questo latino, come Eva dal fianco di Adamo sonnolento; e, al pari di lei, non bambina ignara, ma adolescente curiosa di scoprire il nuovo, tentata e tentante [dalle Prose di cattolici italiani d’ogni secolo, a c. di G. Papini e don G. De Luca, SEI, 1941, p. XI].
Frequentò familiarmente intellettuali del calibro di Giuseppe Prezzolini, Benedetto Croce, Giovanni Papini, Franco Rodano, Adriano Ossicini, Alfredo Schiaffini e tanti altri (come è testimoniato dal ricchissimo epistolario, oggetto di recentissima, ancorché parziale, pubblicazione, a cura di Paolo Vian, su precedente lavoro di Giovanni Antonazzi (1913-2007), discepolo e fedele collaboratore di don De Luca, Ai confini del regno. Vita di don Giuseppe De Luca attraverso le Lettere, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 2021). Per non dire, ovviamente, di personalità e di intellettuali del mondo ecclesiastico, tanti laici quanto prelati, limitandomi, in questo ambito, a citare soltanto Carlo Bo, Jacques Maritain, Luigi Sturzo, papa Giovanni XXIII, e il cardinale Giovanni Battista Montini (futuro Paolo VI). Del mondo politico, da Giuseppe Bottai, ad Alcide De Gasperi, a Palmiro Togliatti.
Don De Luca non appartiene, certo, soltanto a Sasso di Castalda, o a Brienza, i due borghi del potentino, nei quali, rispettivamente, nacque e visse, fino agli anni della prima infanzia; e non appartiene nemmeno alla Lucania, la sua regione d’origine, o al Sud d’Italia. Direi che la sua statura di intellettuale umanista va ben oltre gli stessi confini nazionali. Egli è colonna portante di quella Res publica delle Lettere che aveva sognato Ludovico Antonio Muratori (1672-1750), nei suoi Primi disegni della repubblica letteraria d’Italia (1703). In questo senso, dunque, vedo in don Giuseppe De Luca un raffinato esponente di quei «formiconi», per dirla con Tommaso Fiore (1884-1973), il cantore della laboriosità del «popolo di formiche», del nostro Novecento più autentico e alto; un protagonista di primo livello di quel pensiero meridiano, così come lo avrebbe sintetizzato, con una espressione sentenziosa e precisa, decenni e decenni dopo, Franco Cassano (1943-2021).
Con le Prose di cattolici d’ogni secolo, SEI, 1941, scritte e pubblicate in collaborazione con Giovanni Papini, don Giuseppe De Luca non solo offriva una prima esemplificazione di lingua e letteratura italiane in visione unitaria, tra vita religiosa e vita profana di una nazione, colmando, così, a suo modo di vedere e di intendere la vita nazionale, civile e letteraria di un popolo, le lacune delle altre ricostruzioni storiche e antologiche della lingua e della letteratura d’Italia, già uscite, subito dopo l’unità d’Italia (a cominciare, ovviamente, da quella di Francesco de Sanctis, 1870-71), ma, pure, consegnava una riflessione, come dire, di sapore epistemologico, sul concetto stesso di «antologia», cioè su cosa significasse allestire uno strumento didattico, a uso dei giovani, in quegli stessi anni nei quali, tra fine Ottocento e primo Novecento, altri intellettuali, oltre al già ricordato De Sanctis, cioè, Benedetto Croce, Giosuè Carducci (e lo stesso Antonio Gramsci, ancorché rinchiuso nelle carceri fasciste), avevano svolto le loro riflessioni, offrendo, nel contempo, ciascuno da par suo, esemplificazioni che avrebbero fatto scuola, nel senso che avrebbero segnato un aurorale canone delle future storie e antologie letterarie dei Classici italiani.
De Luca ha precisa, ferma e lucida, contezza di tutto ciò che si agita intorno (e dietro) a questa sua rivendicazione di visione «unitaria» della storia della lingua e della letteratura italiane. Risale al 1926, infatti, cioè, a quasi vent’anni prima, rispetto alla pubblicazione delle sue Prose di cattolici, l’esplicito riferimento a questi suoi studi sulla letteratura della «pietà popolare», in una lettera a Prezzolini: «Ho pensato a lungo e già molto ho studiato sopra la «storia letteraria della pietà italiana», che comunque condotta con rigore filologico tra le righe potrebbe dir molto e qualcosa di nuovo nella storia d’Italia. Ho avuto occasione di scriverne a B. Croce, giorni fa, e quell’uomo «cha sa tutto» me ne ha risposto nobilissime parole, e che ci si metterebbe lui, se fosse più giovane e men carico d’impegni con se stesso [P. Vian (a c. di), Ai confini del regno…, cit., p. 61]».
Il passo citato mostra, all’altezza del 1926, ad appena ventott’otto anni, quanto antico fosse l’inclinazione di don Giuseppe De Luca per questo indirizzo di studi, e, anche, con quanta chiarezza ed esattezza egli percepisse la novità di una tale prospettiva unitaria, nella ricerca e negli studi di letteratura sacra e di letteratura profana. Cosa e quanto, cioè, tutto ciò significherebbe per l’Italia, fino ad affermare che un lavoro simile «potrebbe dir molto e qualcosa di nuovo nella storia d’Italia». Nel 1941, come ho già scritto, vedrà la luce, per i tipi della SEI, il volume curato in collaborazione con Giovanni Papini, delle Prose di cattolici italiani d’ogni secolo; e nel 1954, De Luca curerà, sempre in questo solco di scavo filologico e di proposta di testi sacri, il volumetto antologico per la collana dei «Classici Ricciardi», Prosatori minori del trecento. Scrittori di religione, tomo I, vol. 12 della «Letteratura italiana. Storia e testi», Milano-Napoli, 1954; poi riedita, integralmente e con il titolo di Leggende cristiane del trecento, dall’editore Giulio Einaudi, Torino 1977. In entrambe le operazioni editoriali (SEI, 1941 e Ricciardi, 1954, poi Einaudi, 1977), don Giuseppe De Luca premette alle rispettive antologie corpose e puntuali Introduzioni, con sottolineature e rivendicazioni di merito e di metodo, filologico, critico e storico.
Il passo riportato sopra, della lettera di De Luca a Prezzolini, del 6 maggio 1927, inoltre, ci riporta il lusinghiero giudizio di Benedetto Croce, su questo indirizzo di studio, che il giovane don Giuseppe sta confidando all’amico Prezzolini, fino all’esplicito incoraggiamento, da parte di Croce, unito al rammarico di non potersene occupare di persona, a perseverare in tale direzione di scavo filologico e di studio, che deve aver avuto, evidentemente, il sapore e il tono di una autorevolissima legittimazione.
Rispetto a queste parole lusinghiere di Croce, che rinnoverà, nel tono e nella sostanza, almeno in altre due circostanze: nell’incontro diretto, tra i due, avvenuto il pomeriggio del 14 maggio 1940, a Napoli, in casa di Croce, con la discussione e l’approvazione del progetto di curatela editoriale, da parte di don Giuseppe De Luca, di ben tre volumi, per la serie laterziana degli Scrittori d’Italia, diretta dal filosofo napoletano, sui mistici italiani del Quattro-Cinque-Seicento, ricevendo anche in quella circostanza, parole di incoraggiamento e di conforto sui lavori e sul metodo di studio svolti (cfr. P. Vian, op.cit., p. 200 e sgg.); e, successivamente, nel 1941, in occasione dell’uscita del volume delle Pose di cattolici italiani d’ogni secolo, che De Luca ha avuto la gentilezza di inviare a Benedetto Croce, ricevendo in risposta, per un verso, parole acerrime e severissimi giudizi su Giovanni Papini, suo sodale nell’impresa editoriale, e, per altro, cortesi e fermi inviti «a far da solo», sentendosi appellare, da parte dell’anziano filosofo napoletano, «uomo dotto e scrittore fine». Rinvio, per la ricostruzione di questa vicenda, specie per i termini precisi della polemica Croce-Papini, alle pp. 208-11, alle lettere di don Giuseppe De Luca curate da Paolo Vian.
Rispetto a tutti questi incoraggiamenti, dicevo, stupisce l’incipit del saggio di Benedetto Croce, Letteratura di devozione, edito nel 1933, per i tipi di Gius. Laterza e Figli, dal momento che sembra un attacco frontale, senza mai nominarlo, proprio a don Giuseppe De Luca, e alla sua insistita e perseguita volontà di ridare unità agli studi in materia di lingua e di letteratura italiane:
Cadono […] tutte le vecchie questioni, se la poesia sia affine o identica alla religione o se la religione possa prender forma di poesia […]. Ma cadono insieme le argomentazioni onde si suole rivendicare, accanto alla poesia profana, quella sacra; vien meno il motivo alle rimostranze contro l’ingiustizia usata nelle storie della poesia, le quali (si dice) danno piccolo o niun posto alle laudi, alle rappresentazioni sacre, alle vite di santi, e alle altre opere della stessa ispirazione, candide e schiette e così spontaneamente moltiplicantisi dappertutto nei primi tre secoli della nostra letteratura […]. Quando per avventura un poeta si propone quei fini didascalici, pedagogici e pratici, attinti sia alla religione sia all’etica e alla politica, se egli attua la sua virtù di poeta, di necessità li sorpassa tutti e vive il semplice dramma umano… [B. Croce, Letteratura di devozione, in La letteratura italiana, per saggi e storicamente disposti da M. Sansone, Editori Laterza, Bari, 1959, pp. 145-46].
Pur non nominandolo mai, l’attacco contenuto in questo passo crociano, è diretto, frontale, e si rivolge, evidentemente, proprio a don Giuseppe De Luca, che, come Benedetto Croce sa bene (e da tempo), insiste scientificamente e didatticamente proprio su tale rivendicazione di richiesta di spazio culturale (ed editoriale) alla vasta produzione sacra (e non solo a quella relativa ai primi secoli), fino a giungere a formulare (e a sostenere), senza alcun complesso di inferiorità, un’altra (legittima) idea di storia della lingua e della letteratura italiane: « La prosa italiana nasce in prevalenza dal latino di Chiesa; da quel latino che fu grandissima lingua anche nel Medioevo, perché non aveva dimenticato né Cesare né Virgilio, e nemmeno Ovidio; ed era divenuto la lingua delle due città, dei due imperi, dell’Aquila e della Croce, della lupa e dell’agnello. Nasce da questo latino, come Eva dal fianco di Adamo sonnolento; e, al pari di lei, non bambina ignara, ma adolescente curiosa di scoprire il nuovo, tentata e tentante [dalle Prose di cattolici italiani…, cit, p. XI]».
In filigrana, al discorso di Croce, c’è da leggere un altro, illustre, nome, come ulteriore obiettivo polemico, tutto dentro l’orto del pensiero cattolico ottocentesco, che, evidentemente, sottende alle parole sferzanti (e dure) del filosofo napoletano, ugualmente non nominato, ma fortissimamente intuibile, e cioè Vincenzo Gioberti (1801-1852), sacerdote, filosofo e uomo politico di primo livello (nel Piemonte del pre-risorgimento), autore, tra l’altro, di quel Primato morale e civile degli italiani (1843), nel quale aveva sostenuto, appunto, che, in sede di ricostruzione della storia civile d’Italia, fosse inscindibile la storia sacra da quella profana di una nazione. Tornerò più avanti sui rapporti fecondi (anche in termini di stile espressivo) tra Gioberti e De Luca, non foss’altro che per la filiazione (che mi azzardo a definire diretta) tra l’idea giobertiana del «nazional-popolare», e quella deluchiana della «pietà popolare». Categorie interpretative fertilissime, come ben intuì (e seppe leggere) Antonio Gramsci (1891-1937), nelle sue riflessioni sulla «letteratura nazionale», limitatamente a Vincenzo Gioberti, ovviamente, per meglio mettere a fuoco il concetto di «popolare» nella tradizione letteraria d’Italia.
Nella sua prosa rutilante, il saggio di Croce sulla letteratura di devozione, dal quale ho citato il passo polemico, subito dopo, proprio per giustificare il suo virulento attacco nei confronti di tutta quella letteratura con fine «didascalico, pedagogico e pratico», cita Dante (anche per giustificarsi rispetto alle tante critiche ricevute, per rilanciare la sua tesi): «Che è il caso di Dante, e io dovrei stupirmi che questa chiara e ovvia verità non sia pacificamente ricevuta nelle menti, e che in taluni rispunti la voglia di attaccar lite con me che l’ho riconfermata, ragionata e fatta toccar con mano col discernere nel poema di Dante tra romanzo teologico e lirica […]. Se Dante avesse posseduto o mantenuto l’«unità» che in tal modo si richiede, sarebbe stato un Cavalca o un Passavanti, un Bianco da Siena o un disciplinato umbro compositore di devozioni drammatiche, magari una santa Caterina… [B. Croce, Letteratura di devozione, in La letteratura italiana…, cit., p. 147]».
Ben altra (e alta) è, dunque, se ben si osserva, la battaglia che Benedetto Croce sta svolgendo, con tutta la forza del suo pensiero e con tutta la potenza espressiva del suo stile pugnace, dietro questo siparietto della letteratura di devozione. Il nostro don Giuseppe De Luca, allora, si è trovato, suo malgrado, in mezzo, a questa tempesta di idee, prendendo legnate che, probabilmente, non sono (intenzionalmente o unicamente) rivolte a lui, ma ad altri. Croce, del resto, sa che il buon pretino lucano non ha mai mostrato nei suoi confronti atteggiamenti di sudditanza o di inferiorità, ma è sempre stato schietto e sincero, e non ha mai nascosto le sue idee (le sue verità di fede, in quanto sacerdote), difendendole sempre. Lo stesso De Luca, inoltre, ha avuto coscienza, piena consapevolezza, anche negli incontri privati, sia di trovarsi di fronte a un gigante della cultura italiana ed europea (l’uomo «che tutto sa», infatti, lo aveva definito nella lettera a Prezzolini del 1927), sia di trovarsi di fronte a un «nemico», così come scrive, in una lettera indirizzata all’amica (e consigliera) Romana Guarnieri (1913-2004), prima biografa di don Giuseppe De Luca, riferendo dell’incontro con Croce (e con Fausto Nicolini (1879-1965), storico ed erudito, delle cerchia di Croce, a Napoli, in casa del filosofo: « Che bella serata! prete, prete al 100/100, tra grandi nemici – i maggiori nemici – ero onorato e amato… [P. Vian (a c. di), Ai confini del regno…, cit., p. 201]».
Anche nel 1943, don Giuseppe De Luca, recensendo un piccolo (e fortunato) scritto di Benedetto Croce, Perché non possiamo non chiamarci «cristiani», del 1942, che aveva suscitato tanto scalpore e dibattito (ricevendo accoglienza tutt’altro che lusinghiera, osteggiato, tra gli altri, anche dagli ambienti gesuitici italiani), da attento e acuto lettore, aveva colto bene tutte le implicazioni (anche religiose) di quel singolarissimo testo crociano, e dei tanti problemi che sollevava, non sottraendosi, ciò nonostante, a sottolineare le manchevolezze di Croce, pur riconoscendogli rigore e tono altissimi (oltre all’appassionata difesa del cristianesimo). In sostanza, De Luca rimproverava a Croce, per quello scritto, di non aver avuto il coraggio di compiere un ulteriore passo avanti, sostituendo alla parola «Spirito», la parola «Dio», lasciando dunque fuori dalla sua riflessione (di filosofo dell’immanenza) la trascendenza cristiana, giudicando, dunque, quella interpretazione cristiana ancora parziale, monca della luce.
Invece, dall’osservatorio, come dire, linguistico-letterario, di questo mio saggio, intorno alle ragioni scientifiche e didattiche che portarono, con coerenza e con tenacia, De Luca a rivendicare (e a difendere) un’altra idea di storia delle origini e dello sviluppo della lingua e della letteratura d’Italia, rispetto a quelle vincenti, è singolare notare che, in una nota d’autore, contenuta in una pagina iniziale di quest’operetta di Croce, lì dove, cioè, il filosofo sta ribadendo la sua idea che la poesia più autentica fa sempre i conti con l’«impoetico», che vi si frammischia, non esclusi Omero e Dante, compaia un elogio sulla letteratura che indaga le origini cristiane: « Mi si consenta di notare che l’odierna letteratura italiana possiede nei libri di Omodeo sulle origini cristiane un’opera in cui il vigile senso storico dei trapassi e delle sfumature si disposa, come è ben raro, col robusto pensiero filosofico… [B. Croce, Perché non possiamo…, cit., nota 1]».
Il riferimento è agli studi di Adolfo Omodeo (1889-1946), storico del cristianesimo e della letteratura cristiana dei primi secoli, ma anche studioso del Risorgimento italiano, con saggi sulla politica di Cavour, sulla figura di Carlo Alberto e sul pensiero politico di Gioberti (Omodeo, del resto, svolse attivamente anche l’impegno politico, fino a ricoprire, nel 1944, l’incarico di ministro, nel secondo governo Badoglio, ripristinando la dicitura “Ministero della pubblica istruzione”).
La mappatura antologica dei prosatori cattolici italiani d’ogni secolo, edita nel 1941, per la SEI, curata da don Giuseppe De Luca e da Giovanni Papini, forniva ai lettori una rassegna molto (ma molto) più ampia di quella crociana, pubblicata, lo ricordo, nel 1933, con il titolo Letteratura di devozione; ma, soprattutto, quella di De Luca e Papini, non si fermava ai soli primi secoli della storia della lingua e della letteratura italiane, ma si spingeva fino a tutto l’Ottocento (l’ultimo autore in Indice è Giulio Salvadori – 1862-1928 -, scrittore, poeta, critico letterario e docente, dapprima nei licei, e, poi, presso diversità Università italiane), tenendo fuori solo i contemporanei (i viventi). Una prima sottolineatura, contenuta nelle Avvertenze (alle pp. XXXVII-XXXIX), sulle quali tornerò a breve, mi preme sottolineare subito, e cioè la puntigliosa precisazione di De Luca sul titolo dell’antologia: «Non di «scrittori cattolici», come il mal vezzo recente esige, ma di scrittori è questa antologia: scrittori alle prese con Dio e la loro anima, con la Chiesa e la tradizione cattolica, con gli uomini e i costumi, con le dottrine e le parti».
Aprendo la densa Introduzione al volume, De Luca aveva ingaggiato, senza timori, e a testa alta, una duplice battaglia: da un lato, contro la cultura laica, e contro tutti quegli esponenti di tale cultura (gli «esercenti dell’estetica filosofistica») che escludono dignità d’arte alla prosa religiosa; dall’altro, contro quelli che don Giuseppe, con sprezzo, definisce «crociferini», tutti all’interno dell’orticello cattolico, secondo i quali: «Lo scrittore cattolico, per il fatto che si dedica all’incremento della religione, può dispensarsi dall’essere e dal voler essere prosatore vero, cioè artista». Per rincarare la dose, subito dopo, con una ulteriore sferzata: «in Italia siamo ancora alle prese con una moltitudine […] di pii cattolici, secondo i quali la sostanza della fede e della vita cristiana non soltanto non esige ma respinge qualsiasi consorzio […] coll’arte…»
Sul versante dei nemici, di tutti quei «filosofi» che negano che possa esistere una prosa d’arte cattolica, e che la poesia e la prosa debbano essere soltanto pure, senza alcuna aggettivazione, don Giuseppe, a testa alta, senza alcun timore riverenziale, precisa che «…non possiamo fare a meno di riconoscere che la maggior parte della prosa italiana […] è prosa impura, prosa adultera, prosa bastarda, meticcia e disonorata».
L’interlocutore mai nominato, contro il quale, qui e altrove, De Luca sostiene la sua visione di lingua e letteratura, totalmente differente, è, ovviamente, Benedetto Croce e la sua idea della «poesia pura», che escludesse ogni fine didascalico, pedagogico e pratico. De Luca, invece, afferma di non riconoscere come: «…legittimo quel decreto né giustificata quella prassi. Affermiamo risolutamente, anzi, che vi possono essere prose ispirate da fini pratici, pedagogici, apostolici, eppur tuttavia prose d’arte e d’arte vera, quando, s’intende, siano l’opera di artisti veri, anche se non paiono artisti, come scioccamente di dice, puri. Né vogliamo perder tempo, foglio e inchiostro per provare questa affermazione con argomenti storici, critici e filosofici».
Per concludere, in forma sentenziosa e arguta, quasi un tweet contemporaneo, senz’appello, che, tanto «coloro che cacciano la religione cristiana dall’arte quanto coloro che cacciano l’arte dalla religione cristiana, sono fuori della verità, così del pensiero come della storia».
Risolta questa duplice polemica, espressione di un’autentica e sincera «battaglia delle idee», don Giuseppe De Luca, passa, sempre nell’Introduzione al volume del 1941 (contenuta alle pp. VII-XXXVI, dalle quali, salvo diversa indicazione, ovviamente, sto citando), ad affrontare la spinosa questione di una diversa origine e storia della lingua e della letteratura italiane. Come ho scritto sopra, già in una lettera del 1927, De Luca riferisce di aver comunicato a Benedetto Croce di questo suo indirizzo di studi, a carattere filologico e storico, ricevendone, dal filosofo napoletano, lusinghieri incoraggiamenti (con il rammarico crociano a non potersene occupare di persona, per via dei tanti impegni assunti, che, però, nel 1933, tale confidenza trovò pubblica sconfessione, con l’uscita, nel volume laterziano Poesia popolare…, cit, del saggio di Croce sulla letteratura di devozione). De Luca, in buona sostanza, denuncia le correnti ricostruzioni sull’origine della lingua e della letteratura italiane come pregiudizievolmente monche, proprio perché ignorano, tutte, l’apporto fondamentale dato a quella storia dalla Chiesa, cioè, dalla comunità cristiana «Se molta poesia italiana sorse come linguaggio d’amore per le donne che non sapevan di grammatica, molta prosa sorse per le pauperes dominae, che pur recitando nel coro la preghiera della Chiesa, volevan parlare a Dio e sentir parlare di Dio nella lingua delle mamme […]. …le donne innamorate degli uomini e le donne innamorate di Dio riceveranno i primi timidi messaggi in quella lingua che dirà di Beatrice e della Madonna le parole che nessuna creatura mai, in tutte le civiltà, aveva ispirato. Per le confraternite laicali si levò a volo la lauda […] e si volgarizzarono, dal latino e dal francese, libri di pietà e di ammaestramento a meditare, a pregare, ad agire».
Mirabile l’immagine, creata dalla fantasia di don Giuseppe De Luca, in queste pagine, della lingua d’Italia come una giovinetta, curiosa, tentata e tentante, che, sulla fine del secolo decimoterzo « esce al braccio di Dante per le strade della città in fiore, e non teme di ragionare coi filosofanti e di conversare coi mistici: ecco il nuovo Convito dopo la Vita nuova. Prima che questa prosa divenga ornato prossenitismo nel sensuale borghese di Certaldo, e quando era ormai dominante nei banchi dei fondaci e nelle novelle di corte, i predicatori, i trattatisti, i raccontatori devoti, i pii esortatori di buona vita seppero scriverla con sapienza e grandezza […]. L’aureo Trecento è aureo non per sfoggio di orpelli e di porporine ma per l’oro fino della sostanza spirituale, della vita dell’anima […]».
Indicando in Domenico Cavalca (1270-1342), in Jacopo Passavanti (1302-1357), nei (tanti) francescani, «maggiormente amici delle plebi e delle pievi che non delle università», creatori di quella che don Giuseppe definisce «atmosfera di poetica pietà», che amarono scrivere «con quel linguaggio sobrio eppure estroso col quale si parla al popolo», negli agostiniani (non «dell’agostinismo metafisico e mistico della scolastica; ma dei frati agostiniani, che sino all’agostiniano ribelle, Lutero, ebbero conventi, libri, chiese, devozioni, scrittori e seguaci»), nei predicatori popolari (che, «di città in città erompono in fuoco di parole»), nei domenicani («fino al savonarola»), in santa Caterina, la cui prosa «rimane un miracolo», quel primo canone della lingua e della letteratura italiane, che la storiografia linguistico-letteraria laica, al secolo, ignora del tutto (o riduce a campione volgare, nient’affatto d’arte).
De Luca indica nella prosa di santa Caterina un’altezza alla quale né Dante, né Petrarca e né Boccaccio seppero accostarsi: «in quella sua fermezza quasi monotona e battente con ritmo eguale, vibrano talune parole che lo stesso Dante cercò e non seppe trovare al sommo del Paradiso, fremono segrete apprensioni di un cuor di donna, che fanno apparire lezioso e ozioso lamento non poche rime del Petrarca; e saettano giudizi e incidono ritratti d’uomini, di cose, quali non troviamo mai in quel preteso pittor perfetto delle umane nature ch’è il pingue e moroso Boccaccio».
In poche e fulminanti battute, De Luca distrugge le tre (celebrate) corone della letteratura italiana delle origini: al cospetto di quella prosa, la loro lingua è vil metallo, altro che oro. La prosa di Caterina di Fontebranda è, dunque, modello al quale si sono abbeverati ben altri Classici della nostra tradizione nazionale: «Il Foscolo, il Leopardi, il Giordani si nutrirono, come si nutriranno il Carducci e il d’Annunzio, di quegli asceti della lingua oltreché della perfezione religiosa: e si vede. Si vede benissimo, invece, che il Manzoni e il Pascoli, per esempio, prosatori più squisiti e trepidi ma assai men virili, non li praticarono».
Rinvio ad altro lavoro più organico, su De Luca e sulla sua idea di origine e storia della lingua e della letteratura italiane, al quale sto attendendo, per un esame puntuale, secolo per secolo, degli Autori e dei testi che don Giuseppe De Luca indica come spina dorsale della nostra tradizione linguistico-letteraria popolare. Faccio, però, cenno, in questa sede, almeno, a quella che posso definire come la «questione manzoniana», per poi toccare, anche, senza però approfondirla eccessivamente, la portata del concetto di «pietà popolare» e di «nazional-popolare», che giunge a De Luca per il tramite dell’opera e del pensiero di Gioberti, e che da questi passerà in Antonio Gramsci (1891-1937), anche se, all’altezza del 1941, don Giuseppe non poteva, ovviamente, conoscere il testo dei Quaderni del carcere di Gramsci (usciti, per la prima volta, postumi, tra il 1948 e il 1951), e quindi il tenore di quelle riflessioni (nate nel carcere fascista, nel quale Antonio Gramsci era stato rinchiuso) sulla letteratura nazionale.
Nella Introduzione, i giudizi di De Luca su Alessandro Manzoni (1785-1873) sono severi, e, in molti passaggi, anche sprezzanti, fino al dileggio. Sostanzialmente, De Luca accusa Manzoni di viltà: «Alessandro Manzoni, ricco dei più velenosi succhi dell’illuminismo francese, non vede nel Cattolicesimo se non un umanitarismo sociale con dei riti da godere più che da approfondire; aspetta che sian morti tutti i giansenisti italiani per disdire le sue prime tentazioni di schifiltoso rigorista, e nemmeno le disdice […]. Non dice una parola, nella sua lunga vita, a difesa del Pontificato romano dell’Ottocento, sfidando condanne autentiche della Santa Sede, a cui obbedivano, pur soffrendo, Vescovi, sacerdoti, laici: e nonostante tutto questo, tutti i cattolici lo considerano lo scrittore cattolico per eccellenza e qualcuno addirittura lo proporrebbe volentieri per Santo [Prose…, cit., pp. IX-X]».
Dopo l’accusa di ignavia, sulla quale insisterà anche in altri punti, De Luca formula un severo giudizio sui Promessi sposi, entrando nel cuore del sistema dei personaggi del romanzo: « rappresenta un Vescovo talmente grande ch’è difficile trovarlo nella vita e nella storia, fuorché nei Santi, mentre il suo, santo non è; rappresenta un frate, dissimile troppo dai suoi pari e superiori; una suora omicida, lussuriosa e manutengola; rappresenta un parroco tanto vile che San Giovanni Bosco non glielo perdonerà mai [ibidem]».
E questa è una novità critica di non poco conto, se si considera che le poche voci di dissenso su Manzoni, che si sono mai sollevate, sostanzialmente, sono quasi tutte di carattere, come dire, politico-sociologico, sull’opportunismo manzoniano, sulla sua prudente e guardinga, fino al menefreghismo, tutela del «particulare», nel nome di quell’ideale di vita riparata che gli giunge, attraverso il Guicciardini, dallo stesso Petrarca (del De vita solitaria). Qui, De Luca, formula un severo giudizio di stile e di creazione artistica, su alcuni dei personaggi centrali del romanzo di Manzoni, entrando, quindi, nel merito artistico, senza più fermarsi sul limite della sociologia della letteratura. Solo quattro anni dopo, rispetto a queste pagine di De Luca, e cioè nel 1945, a firma Luigi Russo, per le Edizioni italiane di Roma, sarebbe uscito il (fortunato) saggio sui Personaggi dei Promessi sposi, più volte riedito, nei decenni successivi, con gli Editori Laterza di Bari, e destinato a far scuola, nella lettura e nella interpretazione di quel romanzo, il cui nucleo critico risaliva, però, ad appunti e materiali per il corso universitario tenuto da Russo a Pisa nell’anno accademico 1934-35 (com’egli stesso annota nella Prefazione).
Sulla questione del carattere «popolare» della letteratura di devozione, Croce era stato perentorio, nel suo severo giudizio (risalente al 1933): «Fu una letteratura in buona parte popolare, ma anche in altre sue parti non popolare […], popolare non era, per esempio, Iacopo Passavanti, e nemmeno Caterina da Siena… [B. Croce, Letteratura di devozione…, cit., p. 147]», rimarcando la polemica, sul presunto diritto di esistere di tale letteratura: «…non si può dire che fosse peggio trattata dai vecchi critici e storici di come essi trattarono i cantari cavallereschi e romanzeschi, le canzonette, le ballate, gli strambotti, i rispetti e le villanelle, e le altre opere di tono popolare, e che perciò ci sia luogo a una speciale azione di rivendicato diritto. Che anzi […] converrebbe ricordare che, anche dopo che si è fatto posto a quelle opere, l’attenzione si trasporta sempre sulle altre di più complessa arte, che presentano al pensiero più numerosi e più gravi problemi. [ivi, p. 148]».
Su Jacopo Passavanti e su santa Caterina da Siena, il giudizio di don Giuseppe De Luca è diametralmente opposto a quello crociano (tanto sui contenuti, quanto sullo stile, di questi due sommi esponenti della tradizione linguistico-letteraria d’Italia), cogliendo l’occasione per inserire un giudizio ironico e sferzante sul celebratissimo Petrarca (in difesa di Boccaccio, e della sua prosa italiana):
Jacopo Passavanti, domenicano, […] sembra che porti il suo bell’abito bianco e nero nelle lettere italiane, colla grazia e la rapidità della rondine; non discetta se non per confortare gli uomini, non narra per piacere ma per argomentare […]. Sdegnoso di fiorentinerie perché fiorentino schietto, sdegnoso di trovate perché ricco nella mente, sdegnoso di grazie perché soccorso dalla Grazia, la sua prosa è quale l’avrebbe scritta Petrarca se questo fiorentino nato ad Arezzo si fosse degnato lasciarci una pagina, soltanto una pagina, di prosa italiana, e non avesse invece odiato codesta prosa al punto di non voler leggere il Decamerone se non voltandolo prima in latino; e così, egli che aveva cantato in trasparente italiano la nudità di Laura, rivestì di pesanti gonne latine la casta Griselda [Prose di cattolici…, cit., p. XIII].
Caterina da Fontebranda, per De Luca, è l’esempio mirabile di una prosa nata «Senza progenitori e senza progenitura. Non si sa a quale altra prosa compararla; simile a sé stessa soltanto e a nessun’altra. Non v’è, sotto, un’architettura dottrinale […]. non v’è, sotto, irrequietezza di sentimento, né avidità di patenti, né convulso di turbamenti [ivi, pp. XIV-XV]».
De Luca, a questi scrittori, specie agli autori francescani, riconosce la capacità di aver saputo dar vita, nei propri testi, a quella ch’egli definisce «atmosfera di poetica pietà». Non è qui il caso, per ora, di affrontare il complesso intreccio che porta dal concetto di «popolare-nazionale» di Vincenzo Gioberti, a quello di «poetica pietà» di don Giuseppe De Luca, e a quello, molto più investigato e studiato, di «popolare-nazionale» di Antonio Gramsci (per il quale rinvio al saggio Nazionale-Popolare, di Lea Durante, per la completezza della trattazione e per la puntuale definizione dei termini della questione, che, come chiarisce la studiosa, va collocata ben al di là del solo «campo letterario», nel quale, erroneamente, sovente, tale formula giobertiano-gramsciana, è stata confinata, bensì in una prospettiva politica di «portata più ampia»):
«…Una letteratura non può essere nazionale se non è popolare; perché se bene sia di pochi il crearla, universale dee esserne l’uso e il godimento». (Q 17, 9, 1914-5, B) Dunque è da Gioberti che Gramsci ricava la lettera della sua più fortunata e tradita espressione, mutandone naturalmente il senso […]. E l’ordine delle parole è prima popolare, poi nazionale, in una progressione non eludibile. Proprio il moderatismo di questo intellettuale […] fornisce a Gramsci le parole per dire il suo progetto sociale e politico così radicale. Da Gioberti egli trae anche riflessioni sulla necessità dell’accuratezza che un progetto culturale deve possedere per essere egemonico, e sulla natura politica dell’idea di popolare-nazionale [L. Durante, Nazionale-Popolare, in F. Frosini e G. Liguori (a c. di), Le parole di Gramsci, Carocci, Roma 2004, pp. 150-169: 163]
Sulla scorta delle sollecitazioni poste da Lea Durante, nel suo (bel) saggio, e in rapporto al pensiero di don Giuseppe De Luca, sull’idea della «poetica pietà» (che, evidentemente, rinvia a quella più generale della «pietà popolare», dalla quale dipende), resta ancora da compiere (e da scrivere), da parte mia, la (parallela) riflessione sulla «letteratura popolare» (presente nel Quaderno 21 di Gramsci), e sulla assenza, per l’Italia, a giudizio di Gramsci, di una letteratura autenticamente «nazionale-popolare». De Luca, infatti, non è convinto del (duplice) fallimento, laico e cattolico, intorno alla funzione storica degli intellettuali (cattolici), nella costruzione di una «coscienza morale del popolo-nazione» [ivi, p. 165], non vedendo negli scrittori cattolici da lui antologizzati nel 1941 un esempio di quella «casta» gramsciana, di intellettuali cioè incapaci di sentire e di esprimere i bisogni, le aspirazioni e i sentimenti del popolo (per utilizzare il lessico gramsciano), ma, al contrario, una «articolazione, con funzioni organiche, del popolo stesso» [ibidem].
Nella Introduzione alle Leggende cristiane del trecento, che ho già citato, in prima edizione Ricciardi nel 1954, e, poi, riedite da Einaudi nel 1977 (dalla quel cito), don Giuseppe De Luca, curatore unico del volumetto, continua a levare la sua voce ferma sul (mal)trattamento subito, nelle storie letterarie e nelle antologie di testi, dalla letteratura religiosa: « Sin qui, i testi religiosi in volgare italiano del trecento hanno costituito una specie di orticello nella letteratura italiana [p. 96]», ribadendo, inoltre, che sarebbe imperdonabile «…pretermettere, a proposito della nostra letteratura religiosa, la storia profana, sia quella politica e civile, sia quella delle istituzioni e dei costumi; come pure la storia della filosofia e la storia delle scienze, la storia delle arti e la storia dei commerci. La vita religiosa, allora, era il cuore di ogni vita [ibidem]».
In questa (prestigiosa) sede editoriale, don Giuseppe difende l’utilizzo del volgare italiano, rispetto alla predominante (ancora) considerazione d’arte della produzione in lingua latina, e sottolinea il grande valore culturale (e civile) dei volgarizzamenti: «la massa, o bruciata o fumosa o incandescente, dei testi religiosi in volgare […] fa parte dell’identico fuoco della ultima letteratura monastica e della prima letteratura universitaria e dei Mendicanti. È letteratura spirituale, non meno degli originali latini, se non anche di più: il volgare attraeva gli spiriti, infiammava i Santi non meno che i poeti, ed esaltava gli eretici e gli indipendenti [p. 103]». E ancora: «I volgarizzamenti portarono a compimento l’impresa generosa a cui si era sobbarcata l’Università, l’istruzione e l’educazione della borghesia, anzi del popolo; altro sintomo del passaggio, oramai in atto, dall’impero e dal feudo al comune, dai monaci ai frati [p. 104]».
Conclusioni (provvisorie)
Nelle Avvertenze, premesse alle Prose di cattolici…, don Giuseppe De Luca, tra le altre cose, poneva sul tappeto questioni ancora oggi dibattutissime, intorno all’idea di organizzare una antologia scolastica, cioè un percorso di letture tra Autori e Testi, che non fosse meramente organizzata in modo cronologico, ma che seguisse strade nuove, come, per esempio, quella tematica, indicando, nel concreto del farsi antologia, un elenco puntuale di temi:
– teologia
– letteratura canonistica del diritto
– letteratura della politica e della diplomazia (papato, vescovadi, …)
– letteratura storica (della Chiesa, degli ordini, dei Vescovadi, dei conventi, dei monasteri, …)
– letteratura ereticale
– letteratura degli oratorii
– letteratura degli apologisti, dei polemisti, dei controversisti
– letteratura della narrativa sacra (novelle, teatro, romanzi, libellistica, …)
– letteratura missionaria (crociate, pellegrinaggi, …)
– letteratura dei moralisti, dei precettisti, dei retori, …
Per concludere che l’Italia «Non è soltanto, come Dante voleva, il giardin dell’imperio, ferace di signori, di capitani e di statisti, ma è pure il giardin della Chiesa […]. Esiste una prosa religiosa italiana […]; ed è talvolta prosa grande di grandi e quasi sempre prosa viva […]. Prosa «impura» agli occhi di certi impurissimi prosatori […]; ma prosa […] sottile e sapiente, armoniosa di ritmi e focosa di sentimenti, ardita e meditata, fulgente anche attraverso la rozzezza [Prose di cattolici…, cit., pp. XXXII-XXXIV]».
Dichiarando, in conclusione, di aver preferito fornire, attraverso l’antologia di testi, un invito alla lettura, rivolto ai più giovani, e non, piuttosto, «monumenti sulle piazze». E questo mi sembra, come monito da sottoscrivere, nei confronti di chi troppo spesso, ancora oggi, monumentalizza Autori e Testi, ma, di fatto, non li legge, e, ancora peggio, non educa alla lettura, che, invece, è il compito precipuo della scuola.
In tempi di rivoluzione informatica, come sono gli odierni tempi, con l’introduzione capillare degli strumenti digitali nei processi formativi, la sfida dell’educazione alla lettura, è ancora più impegnativa (e avvincente). Credo, in conclusione, che in un simile, rinnovato, orizzonte di senso, vada inserito l’invito di De Luca, per esaltare «l’elemento religioso negli scrittori italiani» [p. XXIX], la «scoperta del divino nell’umano delle nostre lettere» [ibidem], a dispetto di quanti, invece, da un secolo e mezzo, hanno mostrato il contrario, in «storie e crestomazie della nostra letteratura» [ibidem], con l’invito a mettere in campo cantieri per la poesia: « Nessuno scrittore nostro ha potuto fare a meno di rivolgere a Dio una qualche parola, o della giovinezza o della vecchiaia, o del tempo felice o delle ore segrete, o per furore di parte o per violenza d’amore, o di tenerezza o di sdegno [ibidem]».
Il tutto, ovviamente, reinterpretato e reinventato dal di dentro di una prospettiva di integrazione, e non certo di opposizione, tra i tradizionali strumenti cartacei, il manuale, e i nuovi strumenti digitali, l’ipertesto, per una crestomazia ipertestuale: « chi volesse esplorare […] dovrebbe ricorrere alle planimetrie del Catasto, agli assaggi dei geologi, alle misurazioni dei geodeti e dei geometri, magari all’esperienze degli erboristi e dei cacciatori, ai pazienti scassi del contadino […]. …raccogliere tutte le voci di una cultura (o, meglio, civiltà: che va dal culto di Dio alla coltivazione delle api), non può fare a meno, seppure ne abbia fatto a meno sin qui, di conoscere e raccontare la storia religiosa d’Italia quale apparisce nella sua lingua [ivi, pp. XXIX-XXX]».
Il fascinoso catasto magico, di cui ha scritto, decenni dopo, e in tutt’altro contesto, Maria Corti (1915-2002), filologa e scrittrice.
L'autore
- Trifone Gargano è professore presso l’Università degli Studi di Bari, con l’insegnamento «Lo Sport nella Letteratura». Ha insegnato «Linguistica italiana» al Corso di Laurea Magistrale in «Scienze della Mediazione Linguistica», e «Didattica della lingua italiana» per l’Università degli Studi di Foggia, e «Storia della lingua italiana» in Polonia (Università di Stettino). È autore di numerose pubblicazioni e collabora con la Enciclopedia Treccani, con il quotidiano «Corriere del Mezzogiorno» («Corriere della sera»), e con diversi blog letterari. Realizza lezioni-spettacolo sui Classici della Letteratura italiana, ed è commentatore televisivo e radiofonico.
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