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Don Chisciotte a Fiesole

«En un lugar de la Mancha, de cuyo nombre no quiero acordarme, no ha mucho tiempo que vivía un hidalgo de los de lanza en astillero, adarga antigua, rocín flaco y galgo corredor». Così inizia, in luoghi e tempi sfocati come la vista del suo protagonista, poeticamente incapace di distinguere le parole e le cose, il racconto del Don Chisciotte di Miguel de Cervantes, pubblicato a due riprese – nel 1605 e nel 1615 – e da subito destinato a trascendere i limiti dell’opera letteraria per imporsi tra i miti fondativi della modernità, con Don Giovanni, Faust, Amleto (l’opera shakespeariana, come notò già Turgenev, è pressoché contemporanea). Alla 75esima edizione dell’Estate fiesolana Don Chisciotte è stato protagonista di una lezione-spettacolo di Corrado Bologna e Tullio Solenghi, parte di un percorso in più tappe prodotto dal Teatro pubblico ligure di Sergio Maifredi e suggestivamente intitolato Europa terra di giganti e cavalieri: un viaggio di ampio respiro tra i cavalieri immortali che hanno percorso sui loro destrieri i sentieri della letteratura europea, da Orlando ai Tre Moschettieri. Della cavalleria delle epopee medievali e rinascimentali Cervantes, uomo della modernità, già soldato a Lepanto nel 1571, intona un requiem irresistibilmente comico, fondato su uno sfasamento costante tra la visione (obnubilata?) del protagonista e l’ordinarietà, spesso triviale e talora anche un po’ deludente, del mondo in cui si trova a vivere: il lettore avveduto, tuttavia, capisce perfettamente, come già Borges, che l’autore «è dalla parte dei sogni eroici e non della comune realtà». Dunque questo hidalgo, che di cognome fa Quijada, o Quesada, o «per congetture abbastanza verosimili Quijana» – dove l’instabilità semantica dei nomi evoca versioni diverse e sovrapponibili e dona al romanzo dei romanzi la forma di un miraggio di mezzogiorno nelle deserte e assolate lande della Spagna centrale – questo piccolo nobile di provincia, insomma, legge tutti i libri di cavalleria del mondo «fino a prosciugarsi il cervello» e si fa Don Chisciotte della Mancia (don “formaggino” o qualcosa di simile), deciso a vivere come un cavaliere errante e ad andare a cercarsi le avventure che tutti dovrebbero vivere. Si sceglie anche un fido scudiero, Sancio Panza, un contadino analfabeta e proverbioso, che lo segue attratto dalla promessa di diventare governatore di una favolosa isola. Sancio rappresenta fino ad un certo punto, come è stato notato più volte, il principio diastolico della realtà (fin nei suoi ambiti più triviali) chiamato ad arginare, senza successo, la sistole irrefrenabile della fantasia cavalleresca di Don Chisciotte, che si esercita su osti scambiati per castellani, mulini per giganti, frati per incantatori.

Lo spettacolo è un meccanismo a due voci perfettamente riuscito. Quella del grande attore, Tullio Solenghi, legge e interpreta il testo di Cervantes dando forma (a un tempo evocativa e godibilissima) ai vari personaggi: Don Chisciotte, con il timbro esile e tremulo di un uomo ascetico e trasognato, tutto votato al nobile compito che si è imposto; Sancio, bofonchiante e trasandato, con un leggero accento settentrionale e il tono di un sempliciotto; il prete cantilenante e il barbiere, gli “intellettuali” del paese, chiamati in soccorso dalla famiglia dell’hidalgo per mettere un freno alla pazzia di quel parente che ha lasciato la casa sommariamente vestito da cavaliere senza più dare notizie di sé. Memorabile la scena del capitolo VI, in cui il curato e il barbiere distruggono quasi tutti i cento volumi e passa della biblioteca personale di Don Chisciotte, i grandi libri della cavalleria ricolmi delle imprese di Amadigi di Gaula, di Florismarte d’Ircania, di Palmerino d’Inghilterra e delle storie di tanti altri che, si capisce, Cervantes doveva adorare. Tanto questi libri maledetti, in grado di deviare la mente dalla retta via sui sentieri della finzione, quanto quelli di poesia – che potrebbero indurre il buon hidalgo, quand’anche guarito dalla sua mania cavalleresca, a farsi poeta («infermità incurabile e contagiosa») – vengono bruciati senza pietà, come nei tanti autodafé promossi dall’Inquisizione spagnola anche ai tempi di Cervantes (c’è anche lui, peraltro, nella biblioteca del suo personaggio, con la Galatea, cui, sospeso il giudizio in attesa del secondo volume, viene per il momento risparmiato il supplizio delle fiamme).

La voce del grande accademico, Corrado Bologna, che di tutta la rassegna è anche l’ideatore, introduce, commenta, puntualizza, prende per mano il pubblico e lo conduce con leggerezza nelle pieghe della storia, ma soprattutto traccia meridiani, tra epoche e libri diversi, eppure tanto strettamente legati: e così lo spettatore scopre senza fatica (ma con richiami filologicamente ineccepibili) che Alessandro Manzoni nel delineare la figura indimenticabile di Lodovico-Fra Cristoforo, quel «vendicatore de’ torti» animato da «un orrore spontaneo e sincero per le angherie e i soprusi» aveva in testa – e con tutta evidenza sul suo tavolo da lavoro – proprio il Chisciotte («[…] según eran los agravios que pensaba deshacer, tuertos que enderezar, sinrazones que emendar y abusos que mejorar […]»). L’ombra allungata e magra del Chisciotte si proietta quindi su epoche e contesti diversi e in questo – al di là del valore latamente culturale – si coglie sul versante letterario l’inesausto potenziale generativo del romanzo di Cervantes, dai Moschettieri di Alexandre Dumas (cui è stato dedicato, nello stesso ciclo, un appuntamento a parte) al Novecento, a Kafka, a Borges, a Gadda.

Ancora su quest’ordine di idee, il centro ideale dello spettacolo fiesolano, che pure percorre a vele spiegate tutto il Quijote, è il capitolo VIII della prima parte, dove si narra del celebre duello tra Don Chisciotte e il biscaglino, con la meravigliosa invenzione, da parte di Cervantes, di sospendere la narrazione nel momento culminante della battaglia, quando i due contendenti tengono le spade a mezz’aria in procinto di colpirsi vicendevolmente: «Il male è che l’autore di questa storia a questo punto lascia sospesa questa battaglia, scusandosi col dire che non ha trovato scritto dell’imprese di Don Chisciotte altro che quelle già raccontate». La storia rimane così sospesa, «destroncada», finché nel capitolo successivo (il IX) il narratore racconta di aver trovato fortunosamente il seguito della storia all’Alcanà, il mercato di Toledo, dove ha posato per caso gli occhi su alcune scartoffie ricoperte di caratteri arabi. È qui che Cervantes, primo autore, diventa il «patrigno» di Don Chisciotte, poiché la paternità della storia è attribuita, nella finzione (già topica nella letteratura cavalleresca e destinata a grande fortuna), a un secondo autore, lo storico arabo Cide Hamete Benengeli; questi ha redatto nella sua lingua una Storia di Don Chisciotte della Mancia, completa – nel manoscritto toledano di cui sopra – di un’illustrazione del duello col biscaglino che coglie proprio il momento, cristallizzato dalla fine del capitolo VIII, in cui l’ingenioso hidalgo e il suo rozzo avversario sollevano le spade l’un contro l’altro. Difficile non pensare alla centralità delle illustrazioni, secondo progetto dello stesso Manzoni, nei Promessi Sposi, dove torna anche, come tutti sanno, l’invenzione dello pseudo-autore, il celebre “Anonimo”. Ma nel Quijote c’è anche un terzo autore, il traduttore: un passante, ingaggiato da Cervantes per cinquanta libbre di uva passa e due staia di grano, che traduce la storia dall’arabo in un mese e mezzo di lavoro. In questa moltiplicazione e sovrapposizione dei piani autoriali, inclusi l’uno nell’altro come matrioske, Cervantes proietta la sua opera dalle prime soglie della modernità quasi al postmoderno, a testimonianza di come il Don Chisciotte sia davvero un romanzo in certo modo archetipico. Così, più di trecento anni dopo Jorge Luis Borges immaginò in Finzioni ancora un altro autore del Chisciotte, quello scrittore francese, Pierre Menard, che si mette in testa la più donchisciottesca impresa che si possa immaginare: «Non voleva comporre un altro Don Chisciotte – cosa facile – ma il Don Chisciotte. È inutile aggiungere che non affrontò mai una trascrizione meccanica dell’originale; non si proponeva di copiarlo. La sua ammirevole ambizione era quella di produrre alcune pagine che coincidessero – parola per parola e riga per riga – con quelle di Miguel De Cervantes».

Su tutto questo e su molto altro si sofferma il racconto di Corrado Bologna e Tullio Solenghi, che passa infine alla seconda parte del Don Chisciotte, nata anni dopo dall’esigenza di Cervantes di tutelare la sua opera da un tentativo di plagio: il successo istantaneo del romanzo incoraggerà infatti numerosi imitatori, e nel 1614 a Tarragona viene pubblicata da tale Alonso Fernándes de Avellaneda (un altro autore!) una continuazione apocrifa delle avventure dell’hidalgo. Cervantes va comprensibilmente su tutte le furie e in breve tempo scrive il secondo libro, la “versione ufficiale”. Decisamente più cerebrale, per certi versi più astratto, nel secondo Chisciotte le avventure si diradano e, come è stato sottolineato, i ruoli dei due protagonisti progressivamente si invertono: Don Chisciotte si “sancizza” e Sancio si “donchisciottizza”, con il primo che riacquista il senno e condanna tutte le proprie pazzie del primo libro e il secondo che diviene desideroso di continuare a vivere le “grandi” avventure insieme al suo padrone. Così, Sancio cerca di convincere Don Chisciotte che tre contadine (impersonate da Tullio Solenghi in un divertentissimo dialetto toscano caricato di toni sguaiati) siano in realtà Dulcinea del Toboso, la señora de sus pensamientos, e due sue damigelle: ma le illusioni hanno abbandonato Don Chisciotte, che vede oramai solo la nuda realtà e si prepara a morire. La morte di Don Chisciotte, con cui si chiude il romanzo, è l’atto, quasi notarile, di fine del personaggio, che non dovrà più essere riportato in vita da alcun altro autore.

Don Chisciotte, conclude il professor Bologna, da sempre considerato l’antieroe per eccellenza, possiede invece un alto statuto eroico. È anzi l’Eroe di cui anche questi nostri tempi schiacciati sulla realtà avrebbero bisogno: un uomo mite (Alonso Quijano era noto nel suo paese come “il Buono”) ma risoluto, disposto a lottare con ogni sua forza per un ideale alto, che continuamente – e umanissimamente – fallisce, cade a terra, prende botte a destra e a manca, ma trova sempre la volontà e la forza per rialzarsi e continuare la sua battaglia.

lorenzo.calafiore.94@gmail.com

L'autore

Lorenzo Calafiore
Lorenzo Calafiore (1994). Laureato in Lettere Classiche, sta svolgendo il Dottorato di Ricerca presso l’Università di Perugia. Si occupa prevalentemente di Letteratura greca e del dio Dioniso, ma si interessa anche di arte. Appassionato di tennis e politica.