Interventi

Insegnare a separarsi. Cura materna e nascita della coscienza

L’immagine di copertina è di Enrico Pulsoni

Le considerazioni che ho svolto in La filastrocca, il gioco, tra infanzia e maturità mi hanno offerto un’opportunità per “prendermi cura” del disagio che provo di fronte alla cultura, purtroppo diffusa, che attribuisce al mondo dell’infanzia e agli interventi educativi ad esso rivolti, una dimensione di semplicità e di ingenuità che in realtà non gli appartengono. Vorrei tornare, con qualche riflessione più tecnica, sulla complessità profonda dell’universo infantile.

Mi riferisco alla complessità delle scelte che l’essere umano compie in una fase estremamente articolata e decisiva della sua vita, impegnato in una interazione costante con il suo mondo interno e con quello esterno. Tali scelte sono in larga misura determinate, come ho già detto, dalle caratteristiche che assumono le relazioni significative con le figure di accudimento, e successivamente con gli educatori, fino al grande “rimpasto” dell’adolescenza. Ma a questo occorre aggiungere il ruolo delle componenti che caratterizzano la specie umana e il suo patrimonio ereditario di capacità e potenzialità, fondamentali per consentire la sopravvivenza e l’adattamento all’ambiente di vita.

Occorre infine considerare la necessità insita nella specie umana di condurre una vita sociale e la sua predisposizione a farlo. È importante cogliere come siano proprio le sue caratteristiche genetiche che gli consentono la sopravvivenza, la creazione di strategie di soluzione ai problemi fondamentali, solo in parte condivise con altre specie animali, ma che in alcuni casi rischiano di diventare, per la specie umana, condizione di estrema fragilità. Le caratteristiche naturali della specie umana, a causa della loro complessità, costituiscono dunque un punto di forza che ha consentito in migliaia di anni la sopravvivenza. Per contro, proprio la complessità del patrimonio naturale della specie umana crea le condizioni per una grande fragilità e richiede cure ed interventi che, nel corso della storia, l’umanità ha elaborato e trasmesso attraverso la creazione di cultura, e continue trasformazioni per un adattamento alle mutevoli condizioni di vita.

John Bowlby, geniale psicoanalista inglese, insoddisfatto della spiegazione psicoanalitica tradizionale, giunse negli anni Cinquanta ad ipotizzare che la tendenza del bambino a mantenere il legame con la figura di «attaccamento» (attachment), facesse parte di una dotazione della specie umana, essenziale alla sua sopravvivenza, connessa con il bisogno di protezione dai predatori e derivante dalle nostre origini di primati. Una condizione di stabilità e sicurezza consente al piccolo di esplorare, azione essenziale per lo sviluppo ed anche per l’apprendimento di ulteriori, più complesse, strategie di sopravvivenza.

Lo schema teorico elaborato dallo studioso inglese quindi deriva solo in parte dalla psicoanalisi. Bowlby in particolare realizzò la sua formazione con l’analista Joan Riviere ed ebbe come supervisore Melanie Klein, entrambe studiose di grande rilievo delle relazioni oggettuali e degli effetti patogeni creati dalla perdita di tali relazioni. Il rapporto che Bowlby consegnò all’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 1950, a proposito della salvaguardia della salute mentale dei bambini separati dalle famiglie, contribuì a richiamare l’attenzione sul problema, e soprattutto a stimolare la ricerca in questo ambito. Tuttavia l’autore riconosceva di aver descritto approfonditamente gli effetti nocivi legati alla carenza di cure materne ed agli interventi di cura e prevenzione, ma di non avere sufficientemente esaminato i processi attraverso cui si producevano i disturbi psichici nei bambini e i mutamenti nello sviluppo della loro personalità.

Gli studi che James Robertson stava conducendo con bambini ricoverati in ospedale, per patologie diverse, e allontanati dalle madri, interessarono molto Bowlby. Egli sostenne Robertson dando valore alle sue osservazioni sulle reazioni di «protesta», «disperazione» e «distacco» che i bambini ospedalizzati mostravano a seguito dell’allontanamento dalle madri, e definì il bisogno di questa relazione privilegiata equivalente al bisogno di cibo. Le alterazioni dell’equilibrio interno del bambino avrebbero prodotto conseguenze più o meno stabili, fino a generare patologie diverse per caratteristiche e gravità nell’età adulta.

Mary Salter Ainsworth collaborò con Bowlby sia alla Tavistock Clinic di Londra, sia con ricerche estese a diverse altre nazioni, ma fu fondamentale anche l’apertura di Bowlby all’etologia ed agli studi di Konrad Lorenz e Nikolaas Tinbergen, nonché a Robert Hinde. Nel 1969 Bowlby, nel suo Attachment and Loss, scriveva: «Nella maggior parte delle specie i piccoli possono manifestare svariati tipi di comportamento che hanno come risultato la vicinanza con la madre. Per esempio i richiami vocali di un piccolo attraggono la madre verso di lui, e i suoi movimenti locomotori lo portano vicino a lei». Poiché il risultato di questi come di altri comportamenti è la vicinanza, l’autore ha coniato il termine «comportamenti di attaccamento» (attachment behaviours), seguendo una tradizione etologica che classifica alcune tipologie di comportamento animale in base alla loro conseguenza: si pensi ai comportamenti relativi all’accoppiamento o a quelli di costruzione del nido per gli uccelli.

Questa svolta che Bowlby volle dare ai suoi studi, allontanandosi coraggiosamente dalla tradizione psicoanalitica, arricchì enormemente le sue ricerche: fu innovativo il concetto di «sistema comportamentale di attaccamento» (attachment behavioural system), cioè un insieme di comportamenti innati che ha lo scopo di mantenere in equilibrio le condizioni esterne ed interne di sicurezza del bambino. Non si tratta quindi, come postulato da Freud, semplicemente di un legame madre-bambino visto come una motivazione secondaria, conseguente al fatto che la madre nutre e cura il piccolo. Inoltre Bowlby ha ipotizzato altri tre «sistemi di controllo» (control systems) che guidano il comportamento del bambino: quello «esplorativo», quello che consente la «gestione della paura» e quello «affiliativo»: all’interno di un organismo biologico funzionante e che operi in condizioni naturali, il sistema di attaccamento è organizzato con gli altri tre sistemi, così da creare un equilibrio dinamico, soprattutto rispetto al rapporto fra l’esplorazione e la vicinanza con la figura di attaccamento. All’interno di questa descrizione, l’attaccamento costituisce un costrutto organizzativo, che vede il sistema comportamentale di ogni individuo coordinato con il sistema psicofisiologico, con quello affettivo-emotivo, e con quelli cognitivo e comunicativo.

Nel 1979 lo studioso affermò che il comportamento di attaccamento, inteso come ricerca di vicinanza ad un individuo specifico, considerato più forte e saggio, pur essendo specifico dell’infanzia, è presente nella vita umana «dalla culla alla tomba» (from the cradle to the grave). Il comportamento e le modalità dell’attaccamento di ogni individuo, corrispondono alle sue aspettative rispetto alle possibili risposte della figura di riferimento: pertanto, nel corso della vita, le strategie poste in essere nelle relazioni affettive da ogni individuo, conservano le caratteristiche assunte durante l’infanzia, a seguito delle risposte fornite dalla figura di accudimento.

La Ainsworth descrisse quattro tipologie dell’attaccamento, tutte considerate «organizzate»: dal legame «sicuro» (secure attachment), ritenuto costruttivo ai fini di una sana crescita dell’individuo, a quelli limitanti lo sviluppo in maniera più o meno drammatica. L’insicuro di tipo «ansioso-ambivalente» (anxious-ambivalent insecure attachment), contribuisce alla definizione di personalità ambivalenti, che attraverso il rapporto con una figura imprevedibile nelle sue risposte, hanno imparato ad esprimere esageratamente le emozioni per ottenere garanzia di vicinanza ed attenzione e ad usare la rabbia per gestire un rapporto in cui la madre non coglie le esigenze del figlio e non adegua ad esse le sue risposte. Il legame insicuro di tipo «ansioso-evitante» (anxious-avoidant insecure attachment) induce il bambino ad un atteggiamento di indifferenza rispetto alla separazione ed alla solitudine, ed anche al riavvicinamento alla madre, la quale tende a non cercare col figlio un contatto fisico, anche in situazioni in cui lui vive lo stress. Infine sono spaventati e cauti i figli di donne maltrattanti o abusanti, o che non riescono a superare situazioni di lutto o eventi traumatici: i bambini evitano il contatto al riavvicinamento, o si mostrano disperati, confusi nei pensieri e nei comportamenti (disorganized/disoriented attachment). In sintesi per un bambino, conservare una «distanza ottimale» dalla madre, adeguandosi alle richieste implicite della stessa, se questa non corrisponde alle esigenze di cura e rassicurazione, consente di mantenere comunque una relazione che in caso di pericolo grave risulti protettiva.

Gli psichiatri costruttivisti Roberto Lorenzini e Sandra Sassaroli, pur riconoscendo interesse e importanza agli aspetti etologici della teoria dell’attaccamento, ritengono sia prevalente la necessità di attribuire all’uomo un ruolo attivo nella costruzione di scopi e mete. Pertanto, «se l’attaccamento nasce come difesa dai predatori, nell’uomo diviene qualcosa di più: funzionale all’apprendimento in genere, alla protezione dai predatori e a tante altre cose». In Attaccamento, conoscenza e disturbi di personalità (1995) i due psichiatri ritengono che l’attenzione vada rivolta non «agli aspetti di similitudine con le radici etologiche, con i primati dai quali deriviamo, ma di differenza, di specificità del nostro apparato conoscitivo. La motivazione fondamentale dell’uomo è per noi la crescita della conoscenza. Il lungo periodo di relazione col genitore serve a imparare gli stili di conoscenza, che sono personali, idiosincrasici, fondamentali nel determinare la struttura della personalità».

La costruzione di criteri di conoscenza sarebbe, secondo l’approccio cognitivo-comportamentale di Lorenzini e Sassaroli, l’anello mancante alla teoria di Bowlby e della Ainsworth per poter spiegare il rapporto fra i diversi stili di attaccamento e la psicopatologia e per poter intervenire positivamente su quest’ultima. Appare importante e fruttuoso indagare i processi di formazione della conoscenza: ogni essere umano alla nascita è incapace di sopravvivere da solo, ma possiede una significativa capacità di relazionarsi con un altro essere umano e di imparare da questo. Nella fase iniziale della vita in cui non c’è ancora differenziazione fra sé e l’altro («universo indiviso») il bambino comincia a costruire l’idea dell’esistenza di altro da sé a seguito della necessità di gestire i propri stati interni. Successivamente si manifesta l’autoconsapevolezza di sé come soggetto, «indirizzata a risolvere tre ordini di problemi: l’ineliminabilità degli stati interni, la polarizzazione del campo percettivo e il fallimento dell’imitazione». Segue lo sviluppo di «schemi interni d’azione», necessari allo sviluppo della relazione di attaccamento. Se non si realizza una relazione che genera uno stile «sicuro» il bambino entra in una fase intermedia e instabile da cui ha origine un attaccamento «insicuro ambivalente». Se si ripetono le esperienze di rifiuto si procede verso un «attaccamento insicuro-evitante». Diversamente il bambino permane nella fase instabile, tuttavia, il ripetersi di nuove, positive esperienze di accettazione può invertire la rotta e riportarlo verso l’attaccamento sicuro.

Straordinario è il contributo di Margaret Mahler nella descrizione del complesso processo di differenziazione del bambino dalla madre. La studiosa, pediatra e psichiatra, con un’importante formazione psicoanalitica, collaborò fra l’altro con Anna Freud, trasferendosi poi negli Stati Uniti dove insegnò alla Columbia University di New York, sviluppando il concetto di «nascita psicologica del bambino» (psychological birth of the human infant). La Mahler ha apportato un contributo fondamentale, dal carattere fortemente innovativo, alla teoria psicoanalitica dello sviluppo infantile. Le sue ricerche, da inquadrare all’interno dell’orientamento della Psicologia dell’Io americana, si sono svolte dopo gli anni quaranta, parallelamente a quelle di altri studiosi come Spitz, con l’obiettivo di definire le linee e le fasi di sviluppo del bambino nei primissimi anni di vita, cercando criteri di predittività dello sviluppo successivo, la prevenzione e la diagnosi precoce delle patologie.

La scuola americana della psicologia dell’Io descriveva lo sviluppo dell’individuo in termini di adattamento alla realtà esterna. La Mahler in particolare, dal 1949 svolgeva ricerche sull’area delle psicosi infantili. Nel 1960, con la collaborazione di Anni Bergman, attraverso uno studio pilota sul tema Lo sviluppo dell’identità del Sé e i suoi disturbi, volle «apprendere le modalità con cui i bambini normali raggiungono il loro senso di entità individuale e di identità».  I ricercatori, in seguito, attraverso osservazioni sistematiche e studi comparativi durati anni e finanziati dal National Institute of Mental Health, giunsero ad individuare una fase dello sviluppo infantile chiamata di separazione-individuazione, costituita a sua volta da quattro sottofasi: differenziazione, sperimentazione, riavvicinamento e infine, tendenza verso la costanza dell’oggetto libidico insieme con l’inizio del consolidamento dell’individualità, dell’identità del sé. Si tratta di un processo di sviluppo continuo in cui le coppie madre-bambino, osservate attraverso uno studio longitudinale, interagivano in modi tipici all’interno di ogni sottofase. Gli osservatori avevano anche modo di rilevare mutamenti negli schemi di sviluppo del bambino, in relazione alle sottofasi, giungendo a conclusioni importanti per la prevenzione di gravi disturbi emotivi. Prima di questa importante fase di sviluppo così articolata, il neonato si trova inizialmente in una fase autistica, caratterizzata da «un’assenza relativa d’investimento degli stimoli esterni», con mancanza di risposte e la prevalenza di periodi di sonno su quelli di veglia. È attraverso le cure materne che il neonato comincia ad uscire da questo stato primitivo, mentre i riflessi primitivi si riducono gradualmente, fino a scomparire. Attraverso una «sensibilità fluttuante agli stimoli esterni» il neonato entra nella fase simbiotica ed inizia a distinguere l’esperienza piacevole da quella dolorosa. Inizialmente non distingue l’effetto prodotto dagli interventi materni da quello generato dalle innate reazioni fisiologiche come il rigurgito, la tosse, il defecare, ecc. In seguito facoltà innate e autonome di percezione consentono il formarsi di tracce di memoria relativa alle due qualità delle esperienze: «buone» e «cattive».

La psicoanalista Edith Jacobson parla di un «Sé primario psicofisiologico». Nella fase simbiotica descritta dalla Mahler si crea nel bambino una vaga consapevolezza di un «oggetto» che soddisfa i bisogni, vissuto come «un’unità duale racchiusa in uno stesso confine comune»: «si tratta forse della sensazione oceanica di mancanza di confini», di cui già parlava Freud (Margaret Mahler, Fred Pine, Anni Bergman, La nascita psicologica del bambino, 1978). In ogni caso questa che viene definita «periferia sensoripercettiva», comincia a costituire una protezione dagli stimoli, ma al tempo stesso un fronte ricettivo e selettivo. Secondo la Mahler e i suoi collaboratori, «l’investimento libidico appartenente all’orbita simbiotica sostituisce la barriera istintiva innata agli stimoli e protegge l’Io rudimentale da tensioni inadeguate alla fase e dai traumi degli stress». Appare chiaro che l’ottica di questo gruppo di ricercatori è di trovarsi di fronte a un soggetto inizialmente dotato di un bagaglio di strumenti per l’autoprotezione e lo sviluppo ridotto a pochi riflessi automatici, che in breve tempo si riducono e lasciano il bambino in una condizione di assoluto bisogno ed estrema vulnerabilità, cui sopperisce la madre: «Il bisogno che il bambino ha della madre è assoluto, mentre relativo è il bisogno che la madre ha del bambino»; «Nella specie umana la funzione e il corredo dell’autoconservazione sono atrofizzati. L’io rudimentale (non ancora funzionante) del neonato e del bambino molto piccolo deve avere come complemento un rapporto emotivo di cure da parte della madre, una sorte di simbiosi sociale. È all’interno di questa matrice di dipendenza fisiologica e sociobiologica nei confronti della madre che si verifica la differenziazione strutturale che conduce all’organizzazione individuale per l’adattamento: l’Io funzionante».

Come per Spitz, anche secondo la Mahler, durante il secondo e il terzo mese di vita, gli stimoli sensoriali generati dall’accudimento consentono il passaggio dall’iniziale fase autistica a quella simbiotica. Inoltre secondo la Mahler le percezioni, soprattutto quelle profonde, di tutta la superficie corporea del bambino, quando viene preso in braccio dalla madre, e le sensazioni cinestetiche, assumono un ruolo fondamentale nello sviluppo di questa fase. Queste esperienze di «adesione fisica e le loro variazioni», risultano fondamentali per creare familiarità fra il piccolo e la madre: «La simbiosi è ottimale, quando la madre permette al bambino, in modo naturale, di guardarla in viso, cioè se permette e favorisce il contatto visivo, specialmente mentre lo allatta al seno o col biberon, mentre gli parla o canta».

Se facciamo ancora un passo indietro, prima delle fasi autistica e simbiotica, possiamo soffermarci sull’esperienza che ognuno di noi ha vissuto immerso per nove mesi nelle vibrazioni interne della voce materna e del liquido amniotico. Dal punto di vista filogenetico, le specie animali sono passate da una condizione di galleggiamento e movimento nell’acqua ad una di sforzo dinamico con attrito, da animali acquatici ad anfibi e rettili. Nell’ontogenesi si passa ad una condizione in cui, in maniera più o meno traumatica, attraverso uno sforzo si “vede la luce”, una luce che risulta accecante e attraverso un grido si comincia a respirare, infine si comincia a sentire il peso corporeo. È interessante rilevare come nei riti di iniziazione sia spesso presente una rinascita, un rientro simbolico nel corpo materno, un ritorno a fasi primarie che consente di conquistare le condizioni per acquisire un’identità sociale ed un nuovo modo di procedere.

A seguito di traumi che creano blocchi ed impossibilità a procedere si manifestano regressioni a fasi precedenti, a volte anche primarie. Nei bambini osservati e descritti dalla Mahler, il manifestarsi di uno o più eventi infausti o semplicemente di cambiamenti imprevisti nell’assetto familiare erano in grado di rallentare o bloccare il naturale sviluppo del bambino anche se potenzialmente dotato sul piano biologico delle capacità necessarie allo sviluppo: ad esempio si manifestava un ritardo nella deambulazione o nella comparsa del linguaggio, oppure era presente un atteggiamento di distacco rispetto alla madre o alla situazione sociale di gioco con i coetanei.

Durante il corso della nostra vita ogni sensazione di sconforto, di difficoltà si traduce in un inconscio abbassamento e ripiegamento della schiena, mentre, al contrario, ogni sensazione di vitalità, di fiducia nelle proprie possibilità di agire o nell’ambiente sarà accompagnata da un raddrizzamento della schiena dalla base. Tutto ciò ricorda la posizione protettiva fetale o viceversa il raddrizzamento del feto impegnato nello sforzo di uscire all’esterno del corpo della madre. Si potrebbe dire che quando decidiamo di camminare e ci orientiamo nello spazio, esterno o interno che sia, noi cominciamo aprendo le clavicole; viceversa se siamo intimoriti o confusi nelle scelte o nella direzione da prendere, nello spazio fisico come in quello psichico, chiudiamo le clavicole e incurviamo le spalle. La memoria insita nel corpo si traduce in linguaggi simbolici e i meccanismi inconsci sono connessi con reazioni tonico-muscolari e atteggiamenti. Tutto questo è noto agli psicoterapeuti che si trovano a lavorare per la conquista di ogni storia personale e l’integrazione della dimensione corporea-sensoriale all’interno della coscienza. La persona dunque può tornare a nascere, può riuscire a distaccarsi, a riunirsi, a non provare più paura.

La coscienza della memoria del proprio corpo, dei messaggi in esso imprigionati e non espressi, ci fa cogliere un tono muscolare che, se mutato può rendere diverso un gesto, prima compiuto sempre e solo nello stesso modo, come se si trattasse del tono di voce, del ritmo o dell’accento e delle pause che diversificano un discorso. Il linguaggio del corpo è universale e primario, presente già dalla vita intrauterina, purtroppo in molti casi a noi sconosciuto.

Secondo il modello teorico di Armando B. Ferrari, psicoanalista che dà rilievo alla fisicità, discostandosi dalla scuola post-freudiana di New York, quanto esiste nel bambino di corporeo non costituisce un semplice supporto per la mente, al contrario è un insieme di funzioni che si articolano con le funzioni mentali, e viene definito «Oggetto Originario Concreto» (O.O.C.). In L’eclissi del corpo (1992) Ferrari parla di una unità fisico-emotivo-mentale: «La funzione mentale inizia con la prima registrazione di una percezione sensoriale, dando alle operazioni del percepire la sensazione e del registrarla, una diversità di significato». Quindi individua un soggetto, costituito dall’apparato che registra, ed un oggetto che viene registrato, l’Oggetto Originario Concreto, costituito dal corpo e dall’insieme delle sensazioni che da esso derivano. «Accanto all’O.O.C. abbiamo una madre, una presenza etologicamente attesa. Sotto la spinta delle percezioni sensoriali violente e marasmatiche, pericolose anche per un armonico funzionamento fisico (coordinamento tra sistema nervoso, endocrino, vascolare ecc.) ed in presenza della mente materna, nella sua importantissima funzione di rêverie, l’apparato mentale inizia la sua funzione che è, insieme, di registrazione e di contenimento. La registrazione avviene, presumibilmente, per l’esigenza di distanziare la percezione sensoriale che altrimenti sarebbe completamente invasiva e, nel contempo, per darle significato».

È così che comincia appunto l’eclissi dell’Oggetto Originario Concreto e viene a costituirsi l’area del mentale. Le sensazioni si attenuano e la luce si fa meno abbagliante, mentre cominciano a distinguersi immagini più chiare, ricche di sfumature e di chiaroscuri. «Tutta l’attività mentale è così vista come una risposta con funzioni di contenimento nei confronti di sensazioni ed emozioni che, per loro natura, sono unicamente vivibili». L’originale visione di Ferrari quindi ci mostra un rapporto fra il bambino e l’esterno, nella persona della madre, ed uno fra il bambino ed il suo interno, l’intrapsichico, un rapporto fra la mente e l’O.C.C.: «Fin dall’inizio della vita extra-uterina, l’individuo quindi stabilisce una relazione BINA, che esprime la relazione fra fisicità e psichicità al suo interno, ed una relazione esterna con l’oggetto etologicamente atteso». Un aspetto appare molto interessante: «alle fantasie materne corrispondono nel figlio rappresentazioni di se stesso, di un sé corporeo e di un sé psichico». Quindi la vita psichica del bambino non costituisce una realtà a sé stante, ma esiste in quanto elemento in relazione con la realtà fisica della madre, dal momento in cui la separazione della nascita ed il marasma che ne consegue, attivano la formazione di un contenitore che dà forma al marasma.

Concludo queste riflessioni ricordando le splendide ricerche avviate da António Damásio, neuroscienziato portoghese trasferitosi a lavorare negli Stati Uniti, che con immensa capacità di seria divulgazione ha trattato in particolare il tema della coscienza, collegando il piano neurofisiologico e quello psicologico (L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, 1994; Emozione e coscienza, 1993; Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti e cervello, 2003; Il sé viene alla mente. La costruzione del cervello cosciente, 2010; Lo strano ordine delle cose; Sentire e conoscere, Storia delle menti coscienti, 2021: tutti tradotti da Adelphi). Per Damásio la coscienza consente ad ogni individuo di affrontare le sfide dell’ambiente in cui vive, che non rientrano nel suo progetto di base, in modo da consentire la sopravvivenza. Esiste infatti un evidente scompenso fra le richieste ambientali e le possibilità che gli individui hanno di farvi fronte tramite gli automatismi ed i meccanismi stereotipati. Gli esseri dotati di coscienza sono in grado di andare oltre la regolazione automatica, mettendola in rapporto con la capacità di immaginazione. Essi possono immaginare situazioni che non sono ancora realtà e pianificare, prevedere risultati e creare risposte consone alle variazioni ambientali per le quali i loro automatismi non sono adeguati. La coscienza, stabilendo un legame fra la base biologica che presiede alla regolazione della vita individuale e quella che sottende il pensiero, genera il senso di sé. È appunto questo senso di sé che penetra tutti gli aspetti dell’elaborazione del pensiero, orienta le conoscenze concentrandole sulla vita dell’individuo, sui suoi problemi e sulle relative soluzioni. Se a causa di patologie o lesioni si interrompe il senso del sé, la vita dell’individuo in un ambiente complesso diventa impossibile, poiché da solo egli non è più in grado di svolgere la manutenzione. È il senso di sé che orienta i comportamenti e la conoscenza, finalizzandola all’autoconservazione.

Esiste un tipo di coscienza più semplice, quella nucleare, che offre all’individuo un senso di sé legato al qui e ora, ed una più complessa, la coscienza estesa, che fornisce all’individuo un’identità, lo colloca in un presente connesso con una storia passata, consente di prevedere un futuro e di avere una conoscenza del mondo circostante, spesso piuttosto profonda. La coscienza nucleare non è una proprietà esclusiva degli esseri umani, mentre quella estesa, è articolata in diversi livelli e gradi, ed evolve durante il corso della vita. Alcune specie animali prossime all’uomo posseggono anche un livello semplice di coscienza estesa, ma solo nell’uomo questa raggiunge il livello più elevato, quello relativo al linguaggio, quello che, oltre ai livelli della memoria convenzionale ed operativa, consente la creatività. Lesioni legate a traumi o patologie gravi mostrano come le menomazioni della coscienza estesa consentano a quella nucleare di continuare a funzionare, mentre se è quest’ultima a venir danneggiata, crolla l’intero sistema della coscienza.

Il sé autobiografico emerge dal sé nucleare, e questo da un proto-sé. Secondo Damásio il sé «è costruito per gradi»: e nel momento in cui, dopo un’evoluzione al tempo stesso ontogenetica e filogenetica, «il sé viene alla mente», allora «la costruzione del cervello cosciente» si compie con la fioritura degli aspetti etici ed estetici, che rendono l’uomo libero e felici le comunità che si fondano sulla serena condivisione dei desideri e della loro realizzazione. Mi sembra meraviglioso il limpido e forte riconoscimento, da parte di Damásio (Il sé viene alla mente), della saldatura del momento morale con quello della rappresentazione culturale quale vetta della maturazione autonoma dell’individuo e della società umana: «Una volta che il sé autobiografico può operare sulla base della conoscenza impressa nei circuiti cerebrali e nelle registrazioni esterne fissate sulla pietra, sull’argilla o sulla carta, gli esseri umani diventano capaci di agganciare le proprie esigenze biologiche individuali all’insieme delle conoscenze collettive. Comincia così un lungo processo di indagine, riflessione e risposta, che nel corso di tutta la storia umana registrata si esprime nei miti, nelle religioni, nelle arti e nelle varie strutture escogitate per governare il comportamento sociale: i princìpi etici, i sistemi giudiziari, l’economia, la politica, la scienza e la tecnologia. Le conseguenze ultime della coscienza si realizzano grazie alla memoria, acquisita attraverso un filtro costituito dal valore biologico e animata dalla ragione».

rosaviola5@gmail.com

 

L'autore

Rosanna Bologna
Rosanna Bologna, è psicologa e psicoterapeuta. Si è laureata presso l’Università “La Sapienza” di Roma nel 1975. Ha seguito un percorso di psicoanalisi kleiniana dal 1977 al 1983 presso un membro onorario della Società di Psicoanalisi. Ha lavorato come insegnante e psicopedagogista nella scuola elementare statale fino al 2014 e ha partecipato come docente e responsabile dell’area psicologica nei corsi di formazione statali per gli insegnanti di sostegno delle scuole medie superiori.

Ha pubblicato saggi sugli asili nido comunali durante gli anni in cui ha collaborato con la cattedra di Psicopatologia Generale e dell’Età Evolutiva 1 all’Università La Sapienza di Roma, fino al 1979. Ha frequentato il corso biennale di formazione per educatori presso l’Ateneo Salesiano di Roma. Nello stesso Istituto si è diplomata alla Scuola di Specializzazione in Psicologia Clinica e Psicoterapia, divenendo Psicoterapeuta e Analista Transazionale, iscritta dal 2003 all’EATA  (European Association of Transactional Analysis).