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A che punto è la notte. Dialogo con Roberto Gramiccia  

La notte più buia è un libro che attraversa i generi. Più che un saggio narrato – che pure mi pare formula efficace – lo definirei ‘romanzo di confine’, in equilibrio tra l’autobiografia genettiana, la meditazione intimistica e la riflessione politica. Ho l’impressione che la materia trattata, per complessità e ampiezza di sguardo, non potesse essere ingabbiata in uno schema prefissato: è così? 

Hai ragione. Del resto l’ingorgo delle idee, dei sentimenti e delle ragioni di fatti così drammatici suscitato, come una marea montante, dalla lunga stagione del Covid – durante la quale ho scritto il libro – difficilmente avrebbero potuto trovare un alloggio ordinato, convenzionale, ortodosso. La stessa mancanza di un ordine cronologico nei fatti narrati è espressione di un rifiuto all’adesione a moduli narrativi di uso logico e consolidato. Disubbidire persino al buonsenso della cronologia era in qualche modo disubbidire alle regole ferree del distanziamento sociale.

Confesso, forse oggi per la prima volta, che in questo mio lavoro si è svelata, come mai prima, quell’angoscia della morte che è motore delle mie personali vicende, come di quelle di tutti, anche di chi la morte non la nomina e non la pensa mai. Tanto per fare un esempio, raccontare l’impacciato imbarazzo della propria iniziazione sessuale che cos’è se non il modo più esplicito di esorcizzare la morte?

Nei miei numerosi libri precedenti (prevalentemente saggi), del resto, come pure nelle centinaia di recensioni di mostre pubblicate su Liberazione non ho mai nascosto una vena narrativa che più che stupire per la competenza e l’autorevolezza cercava la confidenza del lettore, la sua complicità. La stessa, direi, che metodologicamente utilizzo nella mia professione di medico. Come strumento per conquistarmi la fiducia ma anche come chiave d’accesso a verità (cliniche e non) nascoste. 

Il tuo percorso intellettuale e umano è qui ri-attraversato mediante le lenti dell’arte, della medicina e della politica. Come può, ciascuno di questi ambiti, uscire dall’‘ossessione’ per se stesso e collegarsi a un mondo più ampio? Tu sottolinei, del resto, l’importanza della totalità.

Quelli che tu nomini sono esattamente i territori nei quali mi sono aggirato durante tutta la mia vita. Il fatto che comunichino fra loro non dovrebbe essere considerata un’anomalia. Lo è diventata nel corso degli ultimi decenni. Te la dico semplice: un medico è più bravo se ha strumenti di interpretazione della realtà (anche politici ovviamente) che vanno oltre lo specifico del caso clinico che ha davanti. E lo è di più ancora se ha una sensibilità artistica. Deve curare corpi e anime: non sostituire rubinetti (con tutto il rispetto per chi li sostituisce). Ma oggi si è imposta la dittatura dell’iperspecialismo. Ognuno fa un pezzetto e non capisce niente del resto. Questo disinteresse all’intero produce guai mostruosi e, soprattutto, favorisce chi detiene il potere, condannando gli altri all’irrilevanza.

Hai scelto come epigrafe due passi che focalizzano il tema della memoria: «Le cose si scoprono attraverso i ricordi che se ne hanno. Ricordare una cosa significa vederla – ora soltanto – per la prima volta» di Cesare Pavese e «Il brutto che è passato è quasi bello» di Leonardo Sciascia. Porte d’accesso che anticipano la tua articolazione narrativa, che sembra rispecchiare, attraverso racconti e immagini, la frammentazione della memoria.

Nelle semplicità delle parole di questi due autori, da me amatissimi, ho trovato una profondità di senso rara. La prima coglie una verità che sfugge ai più: vivere a caldo un’esperienza non può significare conoscerla, capirne le ragioni, specie quando si tratta di un’esperienza che ha a che vedere con le passioni e i sentimenti. Il tempo trascorso invece e la memoria consentono di farlo, per quello che è umanamente possibile. La seconda del passato coglie il fascino, che può essere struggente. Dentro queste due citazioni risiede l’origine del mio sforzo, teso a capire il senso della mia vita e di quella della mia generazione, per trarre piacere ed energia dall’atto stesso di farlo e di condividerlo.

Tutto il libro è intessuto di venature ironiche, di piccoli episodi memorabili narrati con stile brioso. Perché hai scelto questo registro? La tua scrittura, così piena di ritmo, riporta inoltre alla mente alcuni esperimenti artistici, dove musica e parole si compenetrano.

Uno stile “accorciato” del superfluo è esattamente quello che ho scelto nella mia narrazione. Una scelta che ha molto a che vedere con il tentativo di rendere anche “musicale” la prosa. Nervosa, ritmica come dici tu. L’ironia non è solo un espediente per catturare simpatie (è anche questo, lo confesso): è soprattutto uno strumento di scavo, perché richiede e sottintende una distanza dalle cose narrate che permette di meglio coglierne e riferirne la natura più intima. La qualità della scrittura – come quella della pittura del resto – pur rispondendo a ragioni di appropriatezza tecnica è legata a infiniti fattori. Fra questi ritengo che un atteggiamento mentale opposto a quello della supponenza, espressione autentica della consapevolezza dell’inevitabile fragilità che tutti ci attraversa, sia decisivo per farsi apprezzare. Perché “le fragilità si riconoscono”.

Il sottotitolo dell’opera è Cronache di una generazione, quasi a focalizzare i sogni, gli snodi, le conquiste e i dolori di chi – come te – ha attraversato gli anni Sessanta e Settanta, i più densi dell’ultima fase del Novecento. Come è stato possibile trasformare quelle utopie in un cocente disincanto?

Il disincanto è il figlio legittimo della sconfitta di una generazione che voleva cambiare il mondo e, invece, dal mondo è stata cambiata. In peggio sicuramente. Per lo meno – ma non solo – dal punto di vista della caratura umanistica delle esperienze, delle azioni e soprattutto delle “non-azioni”, della passività, che rappresenta il carattere distintivo prevalente dell’oggi. La pandemia avrebbe potuto e dovuto essere un’esperienza collettiva illuminante rispetto ai mali che affliggono i nostri tempi, a partire dall’assuefazione al peggio. Ebbene, a me pare che sia stata archiviata ancora prima di finire. E con essa, speriamo ancora non definitivamente, la speranza di un mondo migliore e più giusto.

ginevraamadio@yahoo.it

 

L'autore

Ginevra Amadio
Ginevra Amadio si è laureata con lode in Scienze Umanistiche presso l’Università Lumsa di Roma con tesi in letteratura italiana contemporanea dal titolo Raccontare il terrorismo: “Il mannello di Natascia” di Vasco Pratolini. Interessata al rapporto tra letteratura, movimenti sociali e violenza politica degli anni Settanta, ha proseguito i suoi studi laureandosi con lode in Filologia Moderna presso l’Università di Roma La Sapienza con tesi magistrale dal titolo Da piazza Fontana al caso Moro: gli intellettuali e gli “anni di piombo”. È giornalista pubblicista e collabora con webzine e riviste culturali occupandosi prevalentemente di cinema e letteratura otto-novecentesca. Sue recensioni sono apparse in O.B.L.I.O. – Osservatorio Bibliografico della Letteratura Italiana Otto-novecentesca. Collabora stabilmente con Treccani.it, con il blog del Premio Letterario Giovanni Comisso e con le riviste Frammenti, Npc Magazine, Sapereambiente, Cronache Letterarie. Nel luglio 2021 ha fatto parte della giuria di Cinelido – Festival del Cinema Italiano dedicato al cortometraggio.