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“Non so vivere altrove”. Luca Serianni per Pietro Tripodo

L’immagine di copertina è di Enrico Pulsoni

Uno degli ultimi interventi di Luca Serianni, l’11 maggio 2022, è stato all’incontro su Pietro Tripodo «Non so vivere altrove», letture e testimonianze (il titolo è ripreso dalla traduzione del celebre carme I, 11 di Orazio pubblicata dal poeta sulla rivista «Dismisura» nel dicembre 1984), tenutosi a Roma nella sede della Società Dante Alighieri, con ulteriori interventi di Francesca Romana de’ Angelis, Corrado Bologna, Camilla Miglio e Michael Frank, l’esposizione di carte di Anna Onesti ed Enrico Pulsoni e letture di Giuseppe Renzo.
La figura spesso negletta di Pietro Tripodo (Roma, 1948-1999) è invece quella di un poeta e traduttore centrale nel panorama letterario italiano del secondo Novecento. La quasi totalità delle sue poesie risale agli anni Novanta, quando uscirono le sue due raccolte poetiche, Altre visioni (Roma, Rotundo, 1991) e Vampe del tempo (Roma, Il bulino, 1998) e anche diversi testi pubblicati su riviste come «Nuovi argomenti», «Poesia», «Dismisura» e «Prato pagano». Nel 2007, otto anni dopo la sua prematura scomparsa, Raffaele Manica ha curato la ristampa di entrambi i volumi per la casa editrice Donzelli (Altre visioni seguito da Vampe del tempo, a cura di Raffaele Manica, Roma, Donzelli, 2007) e Enrico Pulsoni ha pubblicato Nuvole barbare, trascrizione e illustrazione di testi inediti dell’autore con una nota del critico letterario, e anche compagno di scuola dell’autore, Emanuele Trevi (Roma, Empiria, 2007).
Di là dall’attività di poeta originale, non meno importante fu quella di traduttore dalle lingue classiche, dallo spagnolo, dal francese, dal tedesco e dall’inglese di autori come Catullo, Orazio, Callimaco, Willliam Shakespeare, Georg Trakl, Arnaut Daniel e in particolare Antonio Machado, le cui traduzioni inedite risalgono già alla metà degli anni Settanta, anche se verranno pubblicate solo nel 2018 grazie alla cugina di Tripodo, Ines Morisani, col titolo Pietro Tripodo traduce Antonio Machado (Roma, Il bulino, 2018).
L’intervento di Serianni, che qui si riporta con minimi adattamenti dell’oralità al testo scritto (perlopiù l’eliminazione di segnali discorsivi) si sofferma proprio sulla duplice e simbiotica attività di Tripodo, poeta e traduttore, in una visione che nota anche Niccolò Scaffai nell’introduzione al volume della rivista «Semicerchio» dedicato al poeta: «Sono rifacimenti o appropriazioni, quelli di Tripodo, mai solo traduzioni. […] il confine tra il fare (poiein) e il ri-fare non è solo debole, ma è anche irrilevante per l’interpretazione della sua opera».

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Quella di Pietro Tripodo è una vicenda abbastanza particolare, perché ha avuto la ventura, nel corso di una vita non facile – comunque, complessivamente, mi sentirei di dire non serena – di conoscere alcune grandi personalità che lo hanno accompagnato negli anni e lo accompagnano ora nel ricordo. Alcuni compagni di scuola intanto, quando le classi potevano essere veramente costituite da persone di particolare motivazione, di particolare impegno: davanti a me ho il governatore Visco – non è da tutti avere come compagno di classe un futuro governatore della Banca d’Italia –, il pittore Enrico Pulsoni, e poi una serie di allora giovanissimi critici letterari, niente più che future promesse, che però, visti oggi, rappresentano una delle tendenze più vitali della critica letteraria italiana. Ricordo tra questi Niccolò Scaffai, che è un contemporaneista accademico, Emanuele Trevi, che, come si dice in questi casi, non ha bisogno di presentazione, noto premio Strega, e altre figure significative che hanno dato vita ai due convegni che il segretario generale Masi ricordava poco fa. Convegni recenti, perché si sono svolti a Roma nel 2018 [Altre visioni (Roma, Società Dante Alighieri, Palazzo Firenze, 8 novembre 2018)] e a Firenze nel 2019 [Vampe del tempo (Firenze, Palazzo Medici Riccardi, 29 ottobre 2019)], quindi circa vent’anni dopo della morte di Pietro Tripodo, che indubbiamente ha segnato, grazie alla sua duplice attività di poeta e di traduttore, una stagione importante della nostra poesia, come dimostra il fatto che questa diffusione anche di studi, di interesse sulla sua figura è scattata e si è sviluppata a una certa distanza dalla sua morte.

I due versanti di poeta in proprio e di traduttore non sono facilmente distinguibili, e questo è stato sottolineato da vari interventi. Ho davanti a me una rivista a lui dedicata interamente, il primo fascicolo del 2020 di «Semicerchio» [Pietro Tripodo e la traduzione dei classici, a cura di Niccolò Scaffai, «Semicerchio», LXII, 1 (2020)], e faccio un paio di citazioni che trovo particolarmente rilevanti da questo punto di vista, partendo da un carme molto famoso di Catullo, famoso direi anche per chi non abbia frequentato il Tasso, «Dicebas quondam solum te nosse Catullum» – si rivolge a Lesbia in un momento di difficili rapporti e di distacco, e le dice con tono elegiaco ‘dicevi una volta che amavi solo Catullo’ – e a un certo punto ancora il poeta veronese dice «Dilexi tum te non tantum ut vulgus amicam» ‘allora ti ho amato non solo come il volgo’, ossia ‘come un’amante per le persone volgari’ (qui potremmo proprio tradurre così). La traduzione di Tripodo compie uno scarto autonomo, perché dice «cara mi fosti / da Venere tra Veneri»: è insomma notevole – o almeno a me è parso tale – che in questo sia più classicheggiante della sua fonte. È un Catullo volutamente dimesso questo della famosa elegia, e invece, nella traduzione di Tripodo, il tono si eleva quasi a gara, con un’immagine tipicamente latina incardinata nella mitologia: «da Venere tra Veneri».

Il confronto con i poeti latini (non c’è solo Catullo) è un confronto ineliminabile, direi, per il cultore italiano di poesia. Ma sono significativi anche gli altri poeti a cui Tripodo si è rivolto, partendo da Arnaut Daniel, il grande poeta provenzale esponente del trobar clus, cioè della poesia molto intellettuale, difficile, non trasparente, poeta molto ammirato da Dante, che lo celebra in un canto del Purgatorio: superò tutti in versi «e lascia dir li stolti / che quel di Lemosì credon ch’avanzi», quindi è una dichiarazione particolarmente significativa messa in bocca a un personaggio, a un’anima che Dante incontra. Come osserva Zeno Verlato [Zeno Verlato, Pietro Tripodo traduttore di Arnaut Daniel, in «Semicerchio», LXII, 1 (2020), pp. 12-28], che è uno studioso proprio di filologia romanza, a proposito di Arnaut (ma l’osservazione si potrebbe generalizzare) «in queste prove, sembrerebbe che Tripodo si rivolgesse a testi caratterizzati ab origine da un’ampia stratificazione linguistico-culturale, capaci di proporre già in sé una dimensione del fare poetico come un ri-fare, come un fare di nuovo». Mi sembra che colga molto bene questo aspetto della poesia di Tripodo e anche del suo rivolgersi con una notevole varietà di stimoli culturali a poeti molto diversi tra loro: antichi, come i due che ho citato finora (Catullo e Arnaut), o moderni.

Tra i moderni – non mi ci soffermerò, ma è molto significativo –, Georg Trakl, poeta espressionista morto giovanissimo, dopo un’esistenza particolarmente tormentata: la sua vita si chiude con un suicidio, dopo esperienze, anche di guerra, particolarmente traumatiche e traumatizzanti. Quindi forse non è casuale che Tripodo sia stato attratto anche da lui.

Ma vediamo invece un poeta molto diverso, anche se non molto distante cronologicamente, e cioè Machado. Ed è abbastanza interessante, anche qui, l’atteggiamento del traduttore: rispetto a un testo sostanzialmente piano del grande poeta spagnolo, che resta ovviamente tale (non è che non si può fare poesia attraverso numerosissime declinazioni, o attraverso il trobar leu, per riprendere le formule della poesia provenzale, o attraverso il trobar clus), anche qui però Tripodo aggiunge un di più di ricercatezza, anche proprio di ricerca lessicale. Per fare solo un esempio (lo spagnolo ha il vantaggio che può essere citato ancora più del latino senza bisogno di traduzione): «La plaza y los naranjos encendidos» – ‘gli aranci accesi’ – «con sus frutas redondas y risueñas» – ‘con frutti rotondi e ridenti’ –, poi «tumulto de pequeños colegiales» – scrive Machado. Non c’è bisogno di commentare questo tumulto. È una parola generica che può avere vari significati: può evocare – anzi, più spesso evoca – cose negative. Il verso diventa «squillare di piccoli collegiali». Ecco, è una scelta in cui sentiamo la gioiosità che si manifesta in questi ragazzi che escono con la naturale vivacità di ieri e di oggi dalla scuola. E ancora gli ultimi due versi: «¡Y algo nuestro de ayer, / que todavía vemos vagar por estas calles viejas!» è tradotto «E un po’ di noi di ieri / che vediamo pur sempre errare per le viete vie». Machado scrive solo calles viejas, dove viejo è il nostro ‘vecchio’. Vieto aggiunge un elemento specifico: oggi – e anche ieri per la verità – è un aggettivo molto raro, che si usa soprattutto in senso traslato (per esempio è detto di un discorso ripetuto tante volte); qui invece recupera il significato proprio di ‘vecchie strade’, perché sono strade che sono state battute a lungo da persone che le hanno percorse.

Poi ci sono naturalmente le poesie in proprio. Leggo questa poesia per affidare poi alcuni brevi commenti, e la leggerò cercando di far sentire il fenomeno versale noto come enjambement o inarcatura (ma io preferisco inarcatura, non per evitare un francesismo naturalmente, ma perché oggi il francese è diventato una lingua molto rara e quindi nella mia lunga esperienza di docente all’università mi sentivo immancabilmente dire enjembement con pronuncia inglese: allora uso inarcatura che ha anche il vantaggio di essere una parola più immediatamente trasparente, perché è il fenomeno per cui una unità frasale viene scissa in due versi successivi):

Solitudine scende o nell’autunno
vediamo gli anni della nostra vita
o splende inverno che il florido tempo
cancella, non dissimili da foglie
di platani siamo o dall’incedere
avvinto di quelle stagioni eguali
e anche così contro la riva frangono
once di tempo e sabbia le correnti.
In acque limpide i paterni sogni
ripercorro, nei mari perigliosi
che sempre l’uno nell’altro si versano
ora ch’è presto, barche variopinte
alla scogliera celeste degli anni
non sommessi alla giustizia del tempo.

Mancano qui gli ultimi tre versi. Prima di leggerli volevo far notare che tutti questi versi sono organizzati come un continuum, senza fratture, senza – per dir meglio – che le frangiture della fine del verso, insomma lo spazio bianco che segue ciascun verso, concluda il discorso. Cambia invece la struttura negli ultimi tre versi, che sono questi:

Purpurei addii l’autunno distilla
come le ere la sabbia intempestiva
che svelta colma età d’uomo e sconfitte.

Tre versi con una struttura diversa, naturalmente, ma con due parole che richiamano parole già usate nella prima parte: intanto l’autunno, stagione come le altre, ma per certi aspetti ancora di più carica di significati simbolici (come la primavera del resto) – l’autunno della vita, per esempio –; e anche sabbia, che evoca sia la sabbia in senso proprio, del mare o delle rive di un fiume, ma anche una sabbia che tradizionalmente e simbolicamente misura nella clessidra il passare del tempo. Sono due parole che si ripercuotono nelle due sezioni della poesia e che ne segnano una unità nonostante la diversa impostazione dei versi.

Io vorrei fermarmi qui, perché mi piace che sia Francesca Romana de’ Angelis a continuare e ad approfondire il discorso, anche nella sua veste di autrice di poesie, non solo di cultore come posso essere io. Non vorrei però chiudere questo mio intervento senza ringraziare e apprezzare, addirittura con ammirazione, l’attività di Ines Morisani, che ha mantenuto vivo, anche sul piano personale, il ricordo del cugino e alla quale si deve anche l’organizzazione e la promozione di una serie di iniziative, non ultima questa, che intendono ricordarlo.

giada.mancini@studenti.unipg.it

 

L'autore

Giada Mancini
Studentessa del dipartimento di Lettere dell’Università degli studi di Perugia, si sta laureando in Storia della lingua italiana con una tesi sulla comparazione delle traduzioni della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino.