a proposito di... · In primo piano

“Qui le ventate piegano le canne”. Dialogo con Donato Loscalzo

L’immagine di copertina è di Enrico Pulsoni

Donato Loscalzo, lucano di origini, è un estimatore della poesia di Rocco Scotellaro. Crede che i suoi versi, anche se poco apprezzati dalla critica e proprio perché poco noti, siano una fonte alla quale hanno attinto molti poeti e cantautori del Dopoguerra, senza dichiararlo. Per esempio, il verso “amore che vieni e che vai” è in una sua poesia, Il granatello, del 1953. 

Tante ragazze, tante giovani donne vengono citate nelle sue poesie ma, in una cantilena, Amelia Rosselli lo definisce un puttanone. C’è una relazione tra le due cose?

Amelia Rosselli conosceva Rocco, le sue pulsioni, i suoi segreti, i suoi amori, non a caso definì i loro incontri «come un lago nella memoria». La loro fu un’amicizia particolare, intima, tant’è che nella Cantilena si dichiara sua «sposa d’infanzia», sposa trasparente. Li immagino come due solitudini che si proteggevano a vicenda. Come lei stessa ebbe a dire, diventarono amici, «proprio amici, come fratello e sorella». Non credo che la poetessa facesse riferimento a qualche caratteristica affettiva o a una sessualità esuberante. Rileggiamo quei versi dedicati all’amico preso «tra le braccia, morto»: «Sventolo la bandiera e grido. / Quanti puttini / sui gironi / e tu puttanone». In questo intenso frammento si coglie, piuttosto, un’allusione a una adolescenza negata, al suo mondo relazionale sofferto, reso nell’immagine del trovarsi impropriamente tra puttini. È vero, comunque, che Scotellaro ha costellato la sua produzione di tante figure femminili che appaiono quali crisalidi, quasi mai donne mature, che si affacciano sul mare della vita. Attraversano la sua esistenza per alcuni istanti, come meteore, per poi essere inghiottite dal ricordo. La loro vicinanza, la condivisione del dolore, sfumano spesso nell’alterigia, nel piano di vita irrealizzato, in un processo magico di trasformazione e dalle sfumature oniriche. Sono figure sospese, sensuali, rappresentate a volte come adolescenti archetipiche, a volte come icone ancestrali, distanti, irraggiungibili.

Poeta contadino, nel definire Rocco così, Carlo Levi inventa una figura funzionale, anzi organica, alla sua concezione del Meridione?

 

Carlo Levi aveva bisogno di una figura che fosse complementare alla sua, nel senso che parlasse dei “cafoni lucani” dall’interno, a differenza di lui che ne aveva raccontato la vita, il malessere e l’arretratezza, ma con il suo occhio esterno, da ricco borghese del Nord. Fu così che creò il mito di Scotellaro poeta-contadino, dopo la sua morte, perché diventasse il portavoce diretto di quel mondo, nel senso che ne condivideva il linguaggio e ne conosceva le tradizioni. Ma Scotellaro non era contadino di estrazione: suo padre era un ciabattino e sua madre una casalinga alfabetizzata, raro requisito per quei tempi. E non è vero neanche che abbia cantato nella sua poesia solo la realtà dei contadini, che ritorna all’incirca in un 5% della sua vasta produzione. La sua è, invece, poesia prevalentemente urbana, ispirata alla vita intellettuale del tempo, scaturisce dalla sua fervida curiosità intellettuale, dai suoi viaggi, dalle città visitate.

Esiste, in generale, un conflitto tra il mondo artigiano e quello contadino: riesce o non riesce Rocco a superarlo o uscirne fuori?

In una poesia definita da Levi la Marsigliese contadina (il cui titolo è però Sempre nuova è l’alba), Rocco prende le distanze per un momento da quelli per i quali aveva lottato come uomo politico prima e come sindaco poi. Chiede ai contadini, infatti, di non soffiargli nel cuore i loro fiati caldi, ma di cedere a un momento di piacere condiviso, conviviale, di bevuta collettiva mentre fa notte. È una citazione da un poeta greco, Alceo, dal quale ha tratto probabilmente l’idea della politica anche come incontro e scambio di opinioni davanti a un bicchiere di vino. Scotellaro chiede ottimismo e fiducia nel futuro, nonostante nella medesima poesia ricordi le molte proteste del passato, come quelle dei briganti, affossate nel sangue. Esorta all’impegno politico, alla ribellione, perché dopo la notte c’è l’alba e il sole del nuovo giorno può illuminare e indicare il viaggio verso l’avvenire. Io avverto in questi versi un invito a uscire dalla disperazione che i contadini percepivano come destinale, dalla cupa visione di una sofferenza ineluttabile, che induceva all’immobilismo, se vogliamo anche alla querimonia e al vittimismo, per cercare una luce nuova, un nuovo giorno, forse un nuovo destino. Il suo progetto non era di combattere e superare la cultura contadina, che molti vedevano come “vergogna” per l’arretratezza, ma era di tutelare la vita dei contadini, rendendo migliori le loro condizioni economiche e culturali. Certamente l’aver studiato fuori Tricarico, il bagaglio di esperienze che, giovanissimo, aveva già maturato, oltre a una visione eccentrica della storia e della politica sono tutti fattori che gli consentirono di avvicinarsi a quel contesto con uno spirito diverso, con la vocazione di diventare una forza catalizzatrice di nuove istanze.

C’è un motivo per cui la sua esperienza politica, breve ma intensa, finisca bruscamente con la successiva sentenza assolutoria?

Nel 1950 fu arrestato con l’accusa, infondata, di concussione e rimase in carcere per 40 giorni. Fu poi prosciolto dalla Corte di Appello di Potenza, che nella sentenza lo definì vittima di una «vendetta politica». Certamente questa manovra ebbe i suoi effetti: da un lato si comprese quanto violenta e spregiudicata fosse l’opposizione, dall’altra, però, l’accusa infamante lo allontanò dalla politica locale e lo indusse a migrare altrove, a Roma, a cercare altri spazi. Il sindaco che aveva fatto aprire un ospedale a Tricarico, che aveva fatto della militanza il segno del riscatto della sua terra, dovette andare in esilio: l’obiettivo dei democristiani dell’epoca di bloccare Scotellaro, troppo amato dal popolo e visto come un pericolo, fu raggiunto. Infamarlo, arrestarlo e mandarlo in galera era un ammonimento, un avvertimento e anche un modo per bloccare la sua carriera e il consenso imprevisto che aveva conseguito. Assolverlo per innocenza fu poca cosa: avevano comunque dato, io credo, un forte avvertimento al personaggio. Ma non si dimentichi che Scotellaro fu inviso anche alle forze progressiste.

Qual è il pensiero e il ruolo dei socialisti e dei comunisti rispetto al mondo contadino, più esattamente nei confronti della terra del rimorso?

Il mondo contadino era ritenuto costituzionalmente legato al passato, reazionario, troppo intriso di magia, religione e irrazionalità. Per questo rappresentava una vergogna per i tanti intellettuali di sinistra, una realtà marginale, resistente sia al capitalismo sia alla nuova etica del lavoro, alle scoperte tecnologiche e scientifiche, e come tale andava forse debellato, combattuto, oserei dire “colonizzato culturalmente”. Chi parlava di quel mondo poteva essere tacciato a sua volta di irrazionalismo e ottusità. Mario Alicata, noto esponente del PCI, parlò a proposito della poesia di Scotellaro di «deriva metafisica e misticheggiante», e questa stroncatura ne segnò l’insuccesso. Tale parere fu condiviso da altri intellettuali di estrazione marxista come Carlo Salinari e Giorgio Napolitano. Qualche anno dopo, nel 1965, Alberto Asor Rosa parlò di estetismo «populistico-democratico», la cui matrice andava ricercata nella tradizione letteraria del tardo Ottocento. Gli intellettuali dell’epoca guardavano più alle classi operaie, come portatrici di valori di ribellione e di modernità: la povertà dei contadini, il loro pensiero magico, quasi prelogico, sembrava bigotto e ancorato a un passato del quale bisognava disfarsi. Pochi intellettuali invece cercarono in quel contesto antichi valori da custodire, da raccontare, da conoscere. E anche se il loro obiettivo era quello di affrancare queste fasce sociali dalla disperata povertà, non furono amati dalla sinistra stessa.

Certamente una linea gramsciana auspicava a un coordinamento dei contadini del Sud con gli operai del Nord, ma i contadini e il loro sistema di vita antico e antiquato, superstizioso, legato alla Chiesa, continuarono a essere visti con una certa diffidenza. Ernesto De Martino ne narrò, con un tratto quasi romantico e struggente, i contorni e la realtà, ma bisogna ricordare che prese ispirazione proprio dalle ricerche di Carlo Levi e Rocco Scotellaro: i Contadini del Sud, uscito postumo, aprì le porte al nuovo modo di fare antropologia perché fece comprendere che il mondo dei subalterni non era solo una miniera di canti e tradizioni su cui indagare, ma era afflitto da problemi esistenziali, psicologici e storici che andavano affrontati e narrati di pari passo. Le successive indagini di De Martino sono improntate proprio a questo metodo rivoluzionario e innovativo che proveniva da Scotellaro.

La scelta di raggiungere Manlio Rossi Doria cosa ha significato per Scotellaro e in cosa consisteva il suo progetto per il Meridione?

Rossi Doria aveva compreso che il grande problema del Sud era la condizione contadina e aveva guardato anche con un certo ottimismo all’emigrazione (definitiva o transitoria che fosse) che sembrava creare un miglioramento della condizione. In risposta al fascismo che aveva disincentivato le partenze, i flussi migratori sembravano dare respiro a un Sud sovraffollato, dove la terra non garantiva la sopravvivenza di tutti. Rossi Doria sperava che le rimesse potessero creare nuove condizioni sociali ed economiche, e che soprattutto ci fosse un incremento dell’agricoltura attraverso gli studi di agraria. Come si è visto, tuttavia, è stato solo apparente il beneficio creato dall’emigrazione postbellica, perché l’emorragia ancora è in atto e il Sud lentamente si sta progressivamente spopolando. Anche Scotellaro parlò della migrazione come fenomeno positivo, perché dimostrava la dinamicità dei meridionali, e dei contadini in particolare, il loro desiderio di emancipazione, contro lo stereotipo di un mondo gretto, immobile e arretrato. Tuttavia entrambi ebbero modo di comprendere i disagi creati dal fenomeno, soprattutto a livello umano. Non a caso nel discorso a vent’anni dalla morte, Manlio Rossi Doria cita i bellissimi versi del suo amico, tratti da L’America: «Ho perduto la schiavitù contadina / non mi farò più un bicchiere contento / ho perduto la mia libertà». Con l’ossimoro schiavitù-libertà, il poeta denuncia i due aspetti dell’emigrazione: l’apertura verso nuove realtà, l’affrancamento, l’arrivo di nuove ricchezze, ma anche il fallimento, quando sul piatto della bilancia si considerano sacrifici, dolori, strazi di separazione, oltre ai numerosi casi di migranti che non raggiunsero mai il benessere sperato.

L'autore

Enrico Pulsoni
Enrico Pulsoni
Enrico Pulsoni è il direttore di Insula europea (http://www.insulaeuropea.eu/enrico-pulsoni/)