In primo piano · La scoperta

Pietro Tripodo, Sepulchra Maris 

L’immagine di copertina è di Enrico Pulsoni

Sepulchra Maris è la traduzione di Le Cimetière Marin di Paul Valéry, realizzata da Pietro Tripodo verosimilmente nel 1979.

 Premessa di Ignazio Visco (agosto 2023)

Tra il 1979 e il 1981 (mi è difficile essere più preciso, ma negli ultimi mesi del 1978 e tra il giugno e il novembre del 1981 mi trovavo all’estero e sono piuttosto sicuro di avere avuto il dattiloscritto prima della mia seconda partenza) Pietro Tripodo mi lasciò la sua traduzione (in “latino medievale”), Sepulchra maris, di Le Cimetière Marin di Paul Valéry (a essa era allegata la fotocopia de Il Cimitero marino, nella traduzione di Mario Tutino, Einaudi, 1966, con a fronte il testo originale francese, e l’epigrafe tratta dalla terza pitica di Pindaro). Il testo che segue è la trascrizione del dattiloscritto originale.

Questo testo consiste di due parti. La prima, nell’esatto formato prescelto dall’autore, è per l’appunto la traduzione delle ventiquattro sestine del Cimetière. Tutte le strofe tradotte, in decasillabi, sono composte da 6 versi ciascuna, con l’eccezione delle prime tre (ciascuna di 7 versi) e della sesta (di 8 versi). Di questa traduzione Pietro Tripodo pubblicò su Dismisura (XI, 57-60 agosto 1982, p. 25), con il titolo sepulchra maris, le strofe dalla IX alla XXIV. Nel dattiloscritto originale, come nella pubblicazione su Dismisura (e qui fedelmente riprodotto), quando è possibile separarli in modo compiuto i due emistichi di ciascun verso sono visivamente tra loro distanziati. In Dismisura troviamo anche la nota seguente:

“L’autore ha finora tradotto soltanto, da Le Cimetière Marin di Paul Valéry, queste strofe. Il metro adottato è un decasillabo cesurato 4+6 (la cesura può verificarsi solo in fine di parola; in caso contrario il verso non ha cesura) con accenti tonici nella 4a e nella 10a sede, ma questo verso è stato ampliato con un’atona soprannumeraria nel I emistichio (cesura italienne), come in 5+6, ed estesa secondo le leggi dell’endecasillabo italiano: sempre accenti fissi su 4a e 10a sillaba, ma anche il II emistichio può avere un’atona finale: 4+7 o 5+7. In quest’ultimo caso, e nel caso in cui il computo delle sillabe sia 4+8, il verso viene ad essere proparossitonico, ma, per una sfumatura che ora non è possibile esplicare in esteso e neanche tout court, questo proparossitonismo è, secondariamente, ossitonico: qualora vi è una 12a sillaba, essa ha un accento tonico secondario. L’autore chiede venia per tutte le omissioni; spera poter esservi luogo in seguito per una sua ben fondata giustificazione circa l’adozione di questo metro (e lo scritto per tutto ciò è già quasi portato a termine), e per alcune notazioni riguardanti la traduzione e, in misura minore, il testo del Cimetière“.

La seconda parte del dattiloscritto originale, intitolata Quid valérienne e note, consta di un dattiloscritto composto da 9 fogli di circa 70 righe ciascuno a interlinea singola con numerosissime revisioni manoscritte. Nel trascriverla ho seguito i seguenti criteri e apportato le seguenti revisioni:

  1. Ho inserito fedelmente tutte le integrazioni manoscritte presenti nel testo originale.
  2. Ho lasciato tra parentesi quadre due paragrafi, come nel testo originale.
  3. Ho uniformato, esprimendoli tutti in lettere (“primo” e “secondo”), i riferimenti ai due emistichi del decasillabo, espressi nel testo a volte in lettere (primo, secondo), a volte in caratteri romani (I, II), altre volte come 1° e 2°. Con riferimento a strofe o stanze, per la maggior parte denominate in numeri romani (I, II ecc.), ho rivisto, nella Nota, “due” in “II” e “IIIa” in “III” (2 volte).
  4. Ho lasciato in due occasioni verbi al plurale (“stavano” e “avessero”) anche se forse la forma migliore sarebbe al singolare.
  5. Ho corretto ovvii refusi: “subliminale” per “subliminare” e “subliminalmente” per “subliminarmente”; “une” per “una”; “ergo” per “ego”. Ho anche considerato come refuso “Kan” anziché “Khan”, così come “da” invece di “dà” (2 volte).
  6. Ho eliminato tre (piccoli) spazi che non mi sono apparsi “intenzionali”.
  7. Ho messo in corsivo i termini in lingua straniera (francese, inglese, tedesco, latino, greco, ebraico…) e tra virgolette i versi riprodotti nel dattiloscritto originale, al solo scopo di renderne meno disagevole la lettura. Ho però lasciato le sottolineature presenti nel testo originale.
  8. Infine, ho uniformato i riferimenti bibliografici, con modesti interventi in corsivo tra parentesi quadre.

Il Quid valérienne e note, che segue la traduzione delle ventiquattro strofe del Cimetière Marin consiste quindi nello “scritto … quasi portato a termine”, con le “notazioni riguardanti la traduzione”, di cui alla nota apposta da Pietro Tripodo in fondo alla parte della traduzione del Cimetière pubblicata su Dismisura. Mentre le Note danno conto delle scelte metriche e lessicali adottate nella traduzione, il Quid valérienne è uno scritto interessante anche per comprendere le (per lo più, ma non solo) successive traduzioni poetiche di Pietro, nonché i suoi “rifacimenti”. In esso non solo troviamo osservazioni sui motivi della scelta del latino medievale come lingua in cui tradurre il Cimitière (e sulle relative conseguenze di natura linguistica, metrica e fonica), nonché su questioni di natura filologica e in parte filosofica relative all’opera di Paul Valéry, ma anche considerazioni sulla natura delle traduzioni poetiche e la possibile “intraducibilità” della poesia (e non solo con specifico riferimento a questa traduzione).

*  *  *

Ci si può infine interrogare sul perché Pietro Tripodo decise allora di non pubblicare le prime otto strofe. Probabilmente giocò al riguardo la sua proverbiale indecisione a considerare come definitivo ogni suo componimento. In questo caso è presumibile che Pietro non fosse ancora completamente a suo agio con tutte le scelte metriche, lessicali e grammaticali adottate nella traduzione. E, in effetti, nelle Note troviamo un esplicito riferimento alla sua “inesperienza”.

Ma vi è di più. Negli ultimi giorni, grazie ai familiari di Pietro – i figli Giulia e Valerio, la sorella Patrizia e la cugina Ines Morisani – sono state ritrovate, tra le carte da lui lasciate, due serie di appunti e proponimenti di revisione della traduzione del Cimitière da cui muovere per una nuova versione, completa se non definitiva.

Nei primi fogli troviamo, oltre a una copia del Quid valérienne e delle Note, invariate rispetto a quelle che Pietro mi lasciò e che ho qui trascritto, e a un foglio, poi cancellato, con un paio di questioni di cui avrebbe voluto parlare con Raffaele Manica (probabilmente prima delle pubblicazione di sepulchra maris su Dismisura), un paio di pagine con numerosi tentativi di revisione relativi alle prime otto strofe della traduzione: quelle poi non pubblicate, così come non pubblicati furono il Quid e le Note.

Il Quid non penso, peraltro, che fosse destinato a essere pubblicato su Dismisura, essendo un testo assai lungo e, in tutta probabilità, lo “scritto … quasi portato a termine” della nota di cui sopra. Quanto alle Note ricordo che, nella postfazione ad Altre visioni per l’edizione da lui curata e pubblicata da Donzelli nel 2007, Manica scrive che, dopo aver corretto insieme, fino a notte, le bozze per la versione da fare uscire su Dismisura, Pietro “passò la notte a correggere e al mattino non volle più pubblicare la nota”. In effetti, le Note si riferiscono anche a versi delle strofe da I a VIII, non pubblicate, ed è plausibile che di fronte alla complessità di una forse per lui troppo rapida riduzione in un testo afferente solo alle strofe poi pubblicate la decisione finale fu di farne a meno, pur se già in bozza ma probabilmente in vista di una più articolata revisione del tutto.

Quanto ai tentativi di revisione delle prime otto strofe, non si tratta di strofe riviste ma di suggerimenti, manoscritti e abbozzati, per sé stesso su come provare a intervenire nelle strofe I, II, III, VI e VIII (ma non nella IV e nella V). Essi sono ovviamente successivi alla versione qui edita, ma con ogni probabilità precedono la pubblicazione, nel 1982, delle restanti 16 strofe.

A molti anni dopo e a pochi mesi prima della sua scomparsa, risalgono invece – in un insieme di fogli volti a riunire, per una possibile pubblicazione, molti dei suoi scritti in una raccolta dal titolo di Centauromachie – le pagine dattiloscritte del Sepulchra maris. In effetti, da queste pagine è evidente come, a distanza di quasi un ventennio, Pietro non avesse ancora risolto i suoi dubbi sulle prime otto strofe (le restanti essendo riprodotte, e dattiloscritte prima delle altre, senza variazioni).

Delle otto strofe non pubblicate, la IV, la V e la VII, di sei versi ciascuna, non differiscono da quelle originali, la I (di sette versi nell’originale) è predisposta su sei versi ma con puntini al posto dei primi due e del primo emistichio del terzo, seguito, come parti del terzo e del quarto verso, da parti degli originali quarto e quinto e con nel sesto buona parte dell’originale settimo verso. Anche la II e la III strofe sono riprodotte nella versione originale (ancorché rispettivamente di sette e otto versi); la VIII, invece, ha puntini al posto del primo verso (in cui era stata riportata nel greco originale la traduzione francese di Valéry tratta dal Simposio di Platone…) e dell’inizio del secondo (oltre a un punto interrogativo all’altezza del terzo).

Di particolare interesse è, in conclusione, la frase posta alla fine delle sedici strofe pubblicate e riprodotte senza interventi in queste pagine:

“Dubito che ci sia una sola strofa (non ne parliamo di quelle I-VIII; o forse sì?) che sia possibile da qualsiasi punto di vista: scelte lessicali e d’immagini e relativa precisione (anche se di vaga atmosfera medievaleggiante era meglio cercare maggiore memoria dei classici), e prima di tutto, grammatica, ecc.; da decifrare e valutare”.

Di particolare interesse per almeno due motivi. Perché mostra l’incertezza di Pietro Tripodo anche in questa sua coraggiosa (eccentrica? visionaria?) versione latina del Cimitière nel considerare come “definitiva” qualsiasi sua produzione. E forse ancor più, per quel suo “o forse sì”, che induce a considerare quanto segue – traduzione latina, Quid valérienne e Note – degno di attenzione da parte dei futuri studiosi di Pietro Tripodo che vorranno occuparsi dell’edizione critica del testo (nonché, possibilmente, della variantistica cui si è qui fatto cenno).

 

SEPULCHRA MARIS 

I

Fastigium id    quiescens, columbae

incedunt illud    interius in eo pinis,

interius perculsitat sepulchris.

Axis mundi    meridiei aequabilis

mare finxit    per saecla micans genitum.

Animus rationis causam pretii

fructusque, tuitus    diu silentia deorum.

 

II

Quod fieri igniculis sub limina terit

mille adamas    tenuis saniei

et quae concipere se requies videtur:

cum aera iuxta cubat    laminas Sol quidam,

causa se simulacri ideae deserens

perennis, somnium    est experiri, tempus

arctum nitet    sub arce temporum.

 

III

Obnixi stat    ara celsa thesauri

incomptaque    Minervae, vis spectabilis.

Nictaque fluctus,    lumen sibi spectat

flammeo ille    sub velo somnum, mea

reticentia    mihi: aedificium

orsust quod spiritus corpori, mille

per imbrices    vertes aureus et fastigium.

 

IV

Temporum templa    quae suspiritu

complectamini uno, tenui loco ei subeo,

didici visu    meo longe vinctus maris.

Utque dis mea   ultima honos

constans radiatio    serit despectum

super clivos    ex arbitrio regis.

 

V

Ut se fructus    solvit voluptates,

ut in oblectationes volvit suum deesse,

quodam in ore    interit figura.

Futurus hic meus dispicitur nidor,

Caelumque canit   animae terenti

Volventia in turbelas litora murmuris.

 

VI

Caelum veritatis pulchrum et mundi,

quantum verto    adspice, quantum revolvo.

Tantum post gloriari, tantum alienum

otium excellens    vero potentiae

ego sum proiecturus sublustrrem

regionem in istam. Super dimoris

umbrae umbra    transit mea quae ipsum flectit

mihi flato    sub motus in hora somni

 

VII

Taedis proposita solstitii mea

anima, ius mirabile aequitatis fero

deserentes    cum lucem pietatem arma:

per saltus exordii tuos relinquo puram,

te spectas ipsam:    lux vero quam reddere

illa nequeo    trux ponit dimidium umbras.

 

VIII

Αὐτὸ καθ’ αὑτὸ     μεθ’ αὑτοῦ, μονοειδὲς ἀεὶ ὄν.

Ipsa mihi.    Cantus ad fontex et cordis,

orbis fieri    simplex, in sinus, intimae

meae imaginem    expecto magnitudinis

sonitibus    lacus amaritudinis

vacua mihi    resonantis futura.

 

IX

Ipse frondium    captive noscas ficte,

sinus eos    leves clatros edens,

pressas ad meas    mentes, caligans abditum,

ad exiens me    quod rapit deses corpus,

quae hac frons    id capit ossea humo?

Est fax hic meos    curatum absentes.

 

X

Vas numinis,    aeris arcta flammei

obiecta humi, haec me, pars numina,

iuvat regio    subacta taedis, saxea

dubios axes,    aureos quo marmoris

tantum labitur    ad umbrae tantum.

Iacet memor    in mei speulchris mare.

 

XI

Colentes deos    fictiles, Canis, disice,

diu, abditos,    segrex ubi custos

maiorum pavi    mitium, lacteso, templorum

ac subridens,    arietes, pecus,

mirantes longe    siste cautas angelos,

columbas, fidelis, visus irritos.

XII

Res Vectus mei    torpet veterni huc temporis,

scalpit planum    insectum arida illum.

Plaga haec admista    torret retexta aere

ad immitem    vim et quem causas nescio.

Patens aevum    flagrans defectu instans,

angor tener,    consilium disertum.

 

XIII

Huic defossi    humu valent obculti,

fovet, mortui, horum    quae in arcana mergitur.

Meridies desuper defixus aestu

retur de se,    fatetur sibique.

Vertex integer,    expletum diadema,

vices in te    causa sum rei secretae.

 

XIV

Tuos unus obicio metus, piguisse meum

et quaestio, mea    vis acuminis

vitium tibi,    adamas renidens,

At nocte horum    et mundo grave marmorum

ad radices    plebs quaedam errans arborum

consilio sensim    est usus tuo.

 

XV

His deesse     est artius quoddam commmixtum,

iam hausit raucam    rubric vim ceream,

munus ad flores   transit vitae.

Quae region alit    cuiusque nunc manes, quae plaga

mundi personas,    naturas, verba?

Ubi oriebantur    texunt vermes fletus.

 

XVI

Acer clamor    mulctarum virginum,

lumina,dentes,    nictantes perfusae,

temptatutur sinus    qui rapiens ignilusor,

rubor candens    quod labio frangitur,

digiti extuma    hos munera tuiti

ruunt orbis rei et aetas pertinet aleae.

 

XVII

Vos animus    artifex speras autem,

numinis, somnium    careat machine fraudis

quae lumini    usque fretum sit et aura

corporis? Canas    ipse nobis mixturus

tenuisque? Fugunt    res: habitus capiendi

mihi est, sacer    labor ipse vesperat.

 

XVIII

Ater et aureus    immortalis vescus

solator foede,    laureus domitor

a quo mors matris    iste alvus redditur,

pulcher mentiri,    misericors catus.

Id os haustum    non quis ne novit

renuitque id    nugari mansurum?

 

XIX

Patres iacentes,    cerae desertas

qui fertis glebas    sub quasdam hac mole,

qui estis terra    turbatis et gradus,

edax teredo    nostri eis firmissime

valde non amplius    vobis aptatur.

Nec deest ipsa,    me nec deserit.

 

XX

Amor utrus    sit mei nescio, an odium.

Huius at saevus    dens me propior inest

vos ut omnium    cadat feram in eam.

Refert, nil, tuitur,    vult, quaerit, libat,

corporeus lux eius    usque et cubile,

vitando, sum    invitus viventis eius.

 

XXI

Zenon immanis,    Zenonem Eleae:

fixisti me ipsum    eo volucri telo

micat, subsilit    qui demum iam haerens.

Sonitus parit,    me eripit ferru

Sol, umbra testitudinis animae,

gradibus magnis    sistens Pelides.

 

XXII

Ex Nil Temporis    tempus in mei ut mundi.

Corpus finde meum    illi modum captus,

pectus ortu    made euri meum:

reddit halata    ex mari aura

animum quaedam    meum, salsedo roburis:

deicamur ad nos    erigendos undas.

 

XXIII

Aequor vehemens    praeditum rabiei,

chlamys aluta    fixa pardalis

ab et idolis    permilibus Solis,

gestiens soluta    caesiae materiei

tuae candentes,    Hydra crucians, tibi, cirros,

strepitum instar    quietis quietum

 

XXIV

oritur septemptrio,    orbi eicenda est vis,

mea cum retextuit    dirimit aura libra,

audet nubes    fretum extare cautes.

Pennis feramini, chartae nivalis,

ferox disuse    gurges, solvatur vesperi

acatia qio arx    raserunt remissa.

 

 

Quid valéryenne e note

 

Quid valérienne

Il verso adottato è quello cenobitico delle officiature del Mattutino e delle antifone e dei responsori dei Notturni. Già nel repertorio paraliturgico di comunità femminili, e prima che esso costituisse la farcitura dei Gloria a Conques, a Limoges in cui ancora certe sonorità, bibelot[s] d’inaninité ben fumide e di latino quasi vinificato, prima questi ritmi solenni nei tropi più antichi erano non già stati creati ma, gettativi per inerzia di refrains in epoca anteriore al Beda (della cui De arte metrica risuona la formula, lì riportata come esempio metrico, In tremendo – die iudicii), ridondavano dalle laudes, trascritte negli Analecta: dal tropario San Marziale, del Benedicamus, Prima mundi – seducta suboles e Congaudeat – turba  fidelium, e gli analoghi al tropo del Gloria, Quem cuncta  laudant. Versi a onore di santi, omaggi tra contemporanei (Goffredo di Gorran – Christina de Boscho, dal salterio di Sant’Albano alla comunità di Markyate), rigeneranti leggende forse di nuovo vissute, versus e responsio tra solista e chierici nel Tu autem, nel Quem queritis della Visitatio Sepulchri. Non pensava forse Prudenzio a tanta fortuna (in senso latino) del suo compendio di Virgilio, Ecloga IV, 7 (Iam nova progenies caelo demittitur alto.): “ecce venit – nova progenies” moltiplicato nel Germine nobilis Eulalia (Peristeph. III), nell’Ante cibum (Cathem. III): “O Crucifer, – bone lucisator,/omniparens – pie, Verbigena” (posti da Alberico di Montecassino, nel De rithmis, come esempi di “decasillabus”), alcmani raggruppati in strofe pentastiche (vedi A. Roncaglia, “Come si presenta oggi il problema delle canzoni di gesta”, Comunicazione ai Lincei, Atti, 1964 [sic; Atti del Convegno internazionale sul tema: La poesia epica e la sua formazione (Roma, 28 marzo-3 aprile 1969), Quaderno n. 139, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma, 1970]). Dopo la riforma carolingia questo decasillabo, cesurato 4+6, dovette avere un ictus in decima sede: i tradizionalisti non ne tennero conto, ma qualcuno cominciò a lasciarsi andare adeguando uso e legge al pronunciar latino (per i relativi fenomeni fonosintattici latini si veda D’A.S. Avalle, [“Preistoria dell’endecasillabo”,] Prolusione letta nell’Università di Torino il 17 febbraio 1963, Milano-Napoli, p. 18). Quella cesura irrigidirebbe il verso in tutti i sensi, ed ecco D’A.S. Avalle: “Il carattere … dicotomico del verso … viene accentuato, le strutture sintattiche, costrette ad adeguarsi alla misura breve dei due emistichi, tendono ad irrigidirsi, il discorso si riduce ai suoi termini essenziali; trionfano la paratassi, l’iterazione sinonimica, l’enumerazione, tutti elementi questi che danno ai primi monumenti della letteratura francese scritti in décasillabes un tono di particolare arcaicità”. Ma arcaicità e lontananza paiono intrinseci, per gli stessi motivi, ai “decasillabi” dei ritmi e dei tropi mediolatini. In particolare e sia detto qui per inciso, la lontananza è ciò che il traduttore del Cimitiére ha cercato tra le cose fondamentali, e lontananza dal latino classico o tout court, dal francese, dall’italiano. Ciò che forse ha più potuto disturbare quella ricerca di lontananza di fondo e di lontananze particolari, dalle particolari lingue, è stata la non eccessiva ma sorprendentemente ingombrante memoria, nel traduttore, o di versi latino-classici, esclusivamente esametri, così come concretamente furono e sono, o dei loro ritmi, o di loro nessi o incipit e a capo, e confusamente di suoni di parole tessute in quei versi, o di vere e proprie, di quelli, images acoustiques talmente impressive che il significato dei suoni veniva trasceso e il seguirsi di questi per il traduttore stavano [sic], così come l’immagine vischiosamente lumescente e serpentiforme di un fiume, giù nella valle, resta in un bimbo. E poco prima l’Avalle: “Ora nel décasyllabe arcaico, quello cioè dei poemetti agiografici e delle più antiche chansons de geste, il primo emistichio (le prime quattro sillabe, il 4 del 4+6 – parentesi mia) è trattato come un verso a sé, tanto è vero che ammette dopo la quarta accentuata un’atona soprannumeraria che non entra nel computo totale delle sillabe”. Allora, immodificabili, ictus su quarta e su decima sillaba. Da ciò il traduttore ha offerto al committente, computando l’atona soprannumeraria nel caso in cui i versicula potevano essere cesurati, le seguenti possibilità: 4+6 (totale 10) con ictus su quarta e decima: questi (di ictus), che il lettore può di volta in volta usare o abolire nelle sue immagini acustiche, sono tuttavia fissi anche se il verso cesurato ha questa (o quelle di cui oltre) combinazione: 5+6 (e questo è il caso della cesura trobadorica o italienne – ove la quarta sillaba è seguita da una atona che entra nel computo totale delle sillabe del verso – come in  “ché la diritta – via era smarrita” o in “Tutti gridaron: «vada Malacoda!»”: il totale viene undici, sicché anche il secondo emistichio, fermo l’ictus sulla decima sillaba, ha un’atona soprannumeraria, che si può contare. È ormai qui tradizione il caso di due, oltre che di una, soprannumerarie nel secondo emistichio: “La lingua ch’io parlai fu tutta spenta/innanzi che a l’ovra inconsummabile/fosse la gente di Nembròt attenta:/ché nullo effetto mai razionabile,/per lo piacere uman che rinnovella/seguendo il cielo, sempre fu durabile./Opera naturale è ch’uom favella;/ma così o così, natura lascia/poi fare a voi secondo che v’abbella.”. Così qui si danno queste altre combinazioni, oltre alla 4+7 con una sola atona soprannumeraria: 5+7 e 4+8: sempre due ictus su quarta e decima, ma si badi: negli ultimi due casi, dodici sillabe, le ultime tre sono mosse da un proparossitonismo ossitonico: questo per subliminale e continua (aggredita tuttavia dagli esametri) influenza, oltre che di gallicismi carolingeschi, degli asclepiadei minori di Alceo, di Orazio, di Prudenzio, di alcune chansons de geste, su su fino alla Jeune Parque, anche se però questo sviluppo dette l’alessandrino, verso qui escluso. Qui l’accentuazione della dodicesima, inoltre, ha importanza minore di quella della decima, visto che ci si è voluti attenere ad un verso fondato su 10 sedi. Il fondamento è il seguente:

1. 2. 3. 4. (5.) + 6. 7. 8. 9. 10. (11. (12.)
1. 2. 3. 4. (5.) + 5. 6. 7. 8. 9. 10. (11. (12.))

cioè nel secondo emistichio (sopra) si conta l’atona soprannumeraria del primo, nell’altro secondo emistichio (sotto) no: o meglio è il caso in cui quell’atona (quinta sillaba) del primo emistichio non c’è e non si conta. Come potremmo denominare un antico tal verso latino considerato sillabicamente? Endecasillabus, suppongo. Non mancheranno antichi metrologi ad aver considerato e soppesato ciò almeno come mera possibilità. Abbiamo presente un certo modello acustico (o mentale-acustico; e s’è dovuta tollerare, rispetto, globalmente, ai versi italiani, una maggiore ridondanza di a e di nessi n-t, n-d – mentre all’incirca stesso numero di nessi vibranti-occlusive non nasali, fricativa dentale (sorda)-occlusive non nasali – per non riportare che i più fastidiosi) che, aiutandoci la lingua latina, dà l’illusione di essere universale: qualora i cenobiti negligessero ora quelle forme, esse, dall’esecuzione (effettuale) tanto cara a certi metricologi, esecuzione di cui godettero aurore e chiostri e notti, coro – non cantico – di esecuzione sommessa e rigida, lontana; da quelle onde sonore in cui i versiculi [(il traduttore propone la forma neutra, non attestata, ma più propria a quel decasillabus endecasillabus, versicula)] si esplicitavano dalla loro image o concept acoustique (questi termini, non nel senso in cui sono qui usati, appartengono al presaussuriano Marty e, meno sicuramente al contemporaneo di Noreen e di Saussurre, Svedelius) di cui in ogni caso occorre, è la natura, il verso tenga conto, e tanto più da noi presso cui è tradizione si negliga qualsiasi eseguire e da qualsivoglia esecutore le onde vengano (ma poi nulla cale forse a chi scrisse se mille anni dopo un vervex integer si mette ad eseguire). Si è anche tenuto conto delle parodie che, a partire dai versi di argomento sacro, allora si facevano, oppure non parodie ma espressione di argomenti non sacri; dei contrafacta di Adam de la Bassée (canonico di Lilla del XIII secolo) (un precedente nelle equivalenze metriche latine e volgari è nello Sponsus), quello lieve e vesperale: “Ave, rosa – rubens et tenera/cuius odor – inaestimabilis/ave stella – transcendens sidera” che l’autore dice di aver scritto in sono su una versione volgare, rassodatasi in cantico del Tantum ergo – amoris didici (quest’ultimo ritmo precede il de la Bassée di circa un secolo). Il traduttore aveva combinato, in XIX, 4, secondo emistichio: nobis firmissime ché andava benissimo per ieraticità e opposizione; 4-5: “edax teredo – nobis firmissime/valde non amplius – vobis aptatur”. Senonché, impossibile secondo gli ictus del verso adottato (impossibile a un orecchio interno: nobis firmissìme: mentre con la correzione di cui fra poco, regolarmente: firmìssime) e accortosi dell’errore, ha cambiato nel movimentato, meglio dire nel troppo turbato nostri eis firmissime. [Certi cambiamenti sono come vibrazioni pur leggere in un qualcosa di estremamente delicato: quel nostri eis firmissime deve aver fatto slittare di qualche micron pesi e volumi e ragnatela di rapporti fonici (ogni unità fonica per ciascun’altra; ogni unità fonica per tutte le altre; senza contare tutto il resto, a partire dalle singole unità foniche di contro ai minimi – e in tutte le loro possibilità di combinazione nelle due direzioni del verso e nelle altre due – dal basso in alto, insite nel sistema, non iperstrutturali – raggruppamenti, e più semplici, di quelle unità, ed ogni semantema relato in primis al gradus poematis); ma meglio dire: può aver fatto slittare.] Si è cercato di non urtare la sensibilità di immaginabilissimi uditori latini: essi avrebbero avvertito la collisione semantica (dicevamo dei semantemi: più complesso, e se ne dirà più avanti, in una traduzione di questo tipo il problema del tipo di risposta della lingua ricevente: se la totalità delle singole corde non dei parlanti ma degli anche scriventi avessero [sic] sentito semantemi e unità lessicali come non collidenti, o trascurabilmente collidenti, con altri non apportatori invece di benefiche ambiguità e anche arricchenti, ma disturbatori), ad esempio di vertex con vervex, così diffusamente plautino: ma il traduttore, per ragioni metriche e di soppesazioni minimali, si è rassegnato a lasciarlo, sicché a collidere rafforza l’altra nave dell’integer: da vertex integer (XIII, 5) a vervex integer è un disastro, e tuttavia uno della platea potrebbe tirarlo all’incauto ed eventuale esecutore, perciò ho proposto la munizione. In un computo normale, in questo caso dodecasillabico, 5+7, rientra anche VIII, 1. Ed è certo una tematica del Cimetière Marin. Per significare il pericolo dell’anima individuale e assorbita dall’incanto e dall’illusione della vita immortale, dell’individuo che corre il più grave rischio, il più facile errore: divenire, ormai, esso stesso essere unico ed eterno, o sua morte inconsapevole, (un) essere come, afferma Goethe nel Faust II, fine III atto, Panthalia alle Coretidi, “Wer keinen Namen sich erwarb, noch Edles will,/Gehoert den Elementen an”. In Platone, Simposio 211, 9-10 (XXIX) suona: “..udé tis lògos udé tis epistéme, udé pu òn en etéro tini, ôion en zòo è en ghȇ é en uranô è en to àllo, all’autò cath’autò meth’autû monoidès aèi òn…”, ma avrei potuto, debordando, così tradurre: “bᵉiòm thovàh heièh vᵉthòv – uviòm raàh reèh/gam et-zéh lᵉummàt zèh – asàh haelohìm/al-divrat shellò itzà – haadàm acharàv meùmmah”  che letteralmente dovrebbe essere: “nel giorno del bene sii nel bene – e nel giorno del male vedi/anche questo di fronte a quello – ha fatto il Dio/affinché non trovi – l’uomo dopo di lui niente”. E una nota traduzione eccentrica ma giusta di questo Ec 7, XIV: “Nei giorni buoni vivi felice/E nei cattivi soffri//Dio in questi converte quelli//Perché non trovi l’uomo/Nessuna traccia di lui…”, Del resto non sentiamo una sia pur lontana parentela acustica (cui il Valéry avrebbe comunque tenuto – si veda alla fine di questa nota) tra “bᵉiòm thovàh heièh vᵉthòv – uviòm raàh reèh/.. lᵉummàt zèh../.. shellò.. meùmmah” e: “O pour moi seul, à moi seul, en moi-meme,/(Auprès d’un coeur, aux sources du poème)” (parentesi mia)? Cioè (e riguardando al significato letterale) il nulla-essente-eterno dopo l’uomo che è (vuoto) divenire (tralascio poi in questa nota la questione qui sterile oltre che fuor di luogo, dei termini contraddicentesi o no: ché pare ovvia la mera letterarietà di nulla/essente, eterno/dopo ecc. Del resto i letterati – e non soltanto quelli che, pavoneggiandosi, amano farsi giuoco di nomi divini e filosofici – in molti casi straziano la filologia e, non contenti, a maggior ragione la filosofia: Paul Valéry non fa eccezione e, per questo, forse, Benedetto Croce non lo amò), e che le vanitates abbagliano, come insistendo abbaglieranno, e cercherà lui sempre di liberarsene (dialogo interno, graduale passaggio a diversi e più vasti stati della coscienza è il quid valéryenne da lui moltiplicato negli scritti ma riassunto una volta per sempre nel Cimetière Marin), l’uomo Paul Valéry, il “comble d’or aux mille tuiles” (III, 6; cioè le mille tuiles, vanitates, abbagliano il poeta). Quel passo di Platone, dunque (“esso stesso, in se stesso, per se stesso uno ed eterno”), potrebbe stare a epigrafe della traduzione se quel punto della strofe VIII (e tutta la strofe VIII, parte del 5° e il 6° verso della VII, e se non fosse che alla IX, 1°, il “tono”, ma questo tono particolare del Cimetière e che nella tornata di più e più strofe, abbagliante dietro il fainòmenon di una sintassi apparentemente variata, sostanzialmente precedente per sottili ma percepibili traslazioni, non salisse appunto un ulteriore gradino invocativo-ragionativo – è nella IX una ipotassi in nuce – in una globale significazione – macroscopicamente il più grande stacco è fra XXIII alla cui fine Valéry sospende in un precipizio tanto profondo quanto in alto, per gradi, è salito il suo totale climax onnicomprensivo di sintattiche, più risonanti, invocazioni e nello stesso tempo di larghe, concettuali circonvoluzioni dialogiche ma spiranti intorno e dentro la sua sola anima, e la XXIV – vocativa, cioè, letteralmente, di richiamo a se stesso; se non fosse che all’inizio della IX, si diceva, il “tono” sale di un diesis, come in altre occasioni, anche i primi 5 versi di quest’ultima strofe avrebbero sufficiente omogeneità con VII, ultima parte di 5, 6; con l’intera, infine, strofe VIII) non significasse l’ansia dell’attesa, lo scorgere da lontano, di nuovo, quelle sources da cui sgorga acqua che sempre e sempre rientra nel sempre medesimo moto chimico dell’esistente, nel cui gioco occorre, gettandovisi, rimanere a meno che, in altre zone che non sono nel territorio esplorato da Mallarmé, come Yvain alla ricerca della Foresta di Broceliande, Valéry non trovi qualcosa d’altro al di qua dei fiammei bastioni o della griglia elettrica del nulla (nulla? Cfr. Commedia, I, VIII, vv. 70-75, II, XXVII, e Gianfranco Contini, “Alcuni appunti su Purgatorio XXVII”, in Studi in onore di Angelo Monteverdi, Modena, 1959; Martin Heidegger, Essere e tempo, Marpurgo, 1927; Maurice Blanchot, Aminadab, Parigi, 1942; J.P. Sartre, Aminadab ou du fantastique considéré comme un langage, Parigi, 1947; M. Blanchot, L’espace littéraire, Parigi, 1955, Le livre à venir, Parigi, 1959, L’Entretien infini, Parigi, 1969), e qui Valéry ancora non sa o non può muoversi, è un Achille che a gran passi è sempre dietro alla tortue, nella sua grandezza interna cresce forse la visibile riserva (subliminalmente)  delle parole, e ancora quel dialogo non è servito al superamento dell’attesa e invece già (sebbene in XVIII, 4) l’immortalità è una pieuse ruse, quindi l’ansia, pur in un gradus primus materiei, è sostanzialmente, se ha buon fine, movimento (per la paura riferita ad improvvisi ostacoli – siano o no però a lungo elaborati dal narratore-narrato – le strofe pertinenti nel Cimetière si paragonino a, della Commedia, I, da VIII, 65, sino a IX, 105 o anche 106, e XXIV, dal principio fino a 93 – in particolare vv. 87 e 91-93 – e per i successivi gradi di lenimento dell’angustia, fino a 105, quindi sino alla fine): preferibile allora come epigrafe la medesima di Valéry dalla terza pitica. Ma VIII, 1, è l’epigrafe che Poe (generato da Baudelaire secondo un promettente scrittore argentino) inchiodò davanti a Morella: e non a una Morella matrice di Morelle, gioie ai padri, seconde, terze edizioni di mogli (la famosa moglie-bambina di Poe, però) (solo la bimba con precoci forme è il terribile che fonda il racconto aggiustato su una – meritatamente non amata – morente vendicatrice e vivipara?); senonché l’edita ex sui ipsius eadem è proprio la Morella morta (non risulterà poi nell’avello), la Morella che sempre visse: essa stessa unica ed eterna. Nonostante tant de marbre, Le Cimetière Marin accelera poi verso quell’amara vitalità che la coscienza comprende: che secondo un principium individuationis la parola, scritta minuscola se andiamo ad approfondire, contro i letterati con la passione dell’idealismo, contro la, letteraria sempre, che si rimorde la coda, nozione di scrittura, di automatismo su su iuxta Breton fino a Blanchot e a questi giorni nostri, che, dicevo, la memoria non assoluta ma di quell’individuo ha infine appreso per sopravvivere: ogni parola che è detta e scritta è scritta, e lei (la parola) bussa sempre, le aprono le porte della metabolizzazione o catabolizzazione, a seconda dei casi, da un Iperuranio (quel nulla eterno a cui molti scrittori vogliono tornare, o se increati andarvi, visto che è eterno) chi se non le relata talamo-ipotalamiche, il chimismo potassio-catecolaminare, forse l’ipofisi ma non come diceva Cartesio: come invece vuole l’immediato e fondamentale senso del principium individuationis: che infine è la morale del marino cimitero. Che se è eterno (e lo è, e con un risultato, si direbbe nonostante tutto, globalmente vicino ai passionisti della scrittura, del di lei rire éternel nel crâne vide) è eterno Paul Valéry e forse, in secundis, anche il suo personaggio. Gemello geografico di Sète è Fontfroide, nella cui Abbazia un pittore che potrebbe essere Valéry se Valéry fosse stato pittore (ma poi da arte ad arte non si può tradurre, certamente), affrescò il ciclo della Notte e del Giorno: intendo Odilon Redon, per il quale Boecklin avrebbe anche potuto dipingere. Più vicina e mediterranea di Conques, forse nei suoi vestiboli ancora agonizza l’eco delle sommesse preghiere in decasillabi. Forse queste sommesse preghiere persistono nella labilità dell’etere (che in parte ci sopravvive) e nella, pur artefatta, materia che, poiché vibra intorno agli atomi ed è computata nei blocchi di basalto e di granito da cui si fa e si disfa il mondo, è anch’essa vivente, come le ossa. Tenuissima ombra del Cimetière Marin, non forma questa traduzione e non si sa se indica sulle carte degli ufficiali del genio il poter gettare un ponte da una lingua poco, anzi per nulla (al traduttore) conosciuta a un’altra lingua che il tempo, l’ére successive, i kalpa progredientes hanno come serrato; allora chi ha tradotto proporrebbe un tradurre qualcosa non in una lingua già data come l’esperanto o il volapuk, ma in una lingua giammai traducibile che uno senta parlare nelle proprie sinapsi al mattino quando le gazze provano il giorno, come in un primo momento dové essere Kublai Khan per Coleridge. Come forse accadde al Villa con l’Enuma Eliš, al Teloni col frammento di Istar, a Leconte de Lisle e Giovanni Pascoli con l’Iliade (cfr. le diverse, anzi opposte valutazioni che il Croce dette all’Iliade del Monti e a quella del Pascoli), Fitzgerald con il Robà’yyàt, le cui quartine inglesi sarebbero per Georges Mounin più persiane di quelle persiane (del resto, per il caso Edward Fitzgerald-Omar Khayyàm, Borges – con evidenza, malgrado lui – insinua e prospetta 3 eventualità: del Tertium, della metempsicosi, del Consolatore o Maestro dettatore; si veda il relativo capitolo in Otras Inquisiciones, capitolo preceduto da quello su Valéry, con il quale il traduttore consente: Valéry o Edmond Teste, “He is nothing in himself”. Che dire dell’idea che Valéry “trascende le caratteristiche differenziali dell’io”? Qui forse si vuol dire, presume il traduttore, quanto detto sopra: l’eterno Cimetière Marin, volendone far sfuggire l’Autore, lo ripiove accanto ai passionisti della scrittura, agli scrittori con la passione dell’idealismo: Valéry per sempre con il Cimetière Marin – malgrado forse gli Charmes e massime la Jeune Parque – si è soffermato sulla battigia d’Eternità con una caviglia lambita dalla risacca absolue, Dans un tumulte au silence pareil, è tornato, dall’affermazione quasi baudeleriana (Macrì) dell’individuo e dalla sofferta accettazione del rischio quotidiano che implica (ed è voluto da) l’istinto, distraente dalla laboriosità dell’artigiano, o più prometeicamente, del fabbro, l’istinto dell’immortalità, l’inquietudine che il vento, la schiuma avventata sulle rocce, la luce, le onde, interferenze del giorno ma anche assoluto rischio di morte assoluta, da questo bagno il poeta si è ritrovato su quella limbica e speleologica battigia, lontanissimo da Villon e Baudelaire, lontano da Laforgue ma non tanto, meno lontano da Dante, vicino a Mallarmé, addirittura abbracciato, ma è una metafora, ai Grandi Saggisti, a Gérard Genet, e chi l’avrebbe detto, a René Char, a Yves Bonnefoy, a Marcelin Peynet, a Jean Pierre Faye, a Denis Roche. Valéry: “Venimmo al piè d’un nobile castello,/sette  volte cerchiato d’alte mura,/difeso intorno d’un bel fiumicello./Questo passammo come terra dura;/per sette porte intrai con questi savi:/giugnemmo in prato di fresca verdura.”. Nell’infinito, oserebbero forse dire i tempi nostri, dell’infinitamente decodificabile, che solo per un esercizio molto astratto, manieristico, della mente, sta laggiù per qualsiasi scrittura: Valéry: per qualsiasi scrittore. E ha ragione Mario Tutino, forse il più attento commentatore italiano del Cimetière, forse, di questo, il più intelligente dei traduttori italiani, quando dice che queste strofe esastiche sono matrice segreta di molta (o forse poca, ma non fa nulla) poesia italiana e, aggiunge il traduttore, come probabilmente accadde allo scozzese Gavin Douglas (1477 circa – 1522), vescovo umanista, autore del Palice of Honour, poema allegorico, con l’Eneide tradotta in coppie di decasillabi rimati di cui un verso: “Of Brownyis and of Bogillis full is this Buke” (Eneados, VI, Proloug, 18) sta ad epigrafe del Tam o’ Shanter del Burns, traduzione definita da Ezra Pound e da C. S. Lewis come la migliore di quel poema, in ogni lingua, il Mounin avverte essere necessario che il traduttore mantenga, se vi è, l’estraneità culturale ed etnografica rispetto all’epoca, o al mondo, del testo tradotto. Leonzio Pilato, invitato dal Boccaccio a tradurre l’Iliade una cui copia il Petrarca aveva ricevuto in dono da Bisanzio nel 1354, ne fece una traduzione latina, che possediamo, in una specie di versione letterale – afferma il Mounin – più incomprensibile di quanto avrebbe potuto esserlo il testo greco per un principiante. Si potrebbe proporre di tradurre il testo di Leonzio Pilato nell’italiano, anzi nel toscano della metà del ‘200, nel veneto del ‘200 o nella lingua dei giorni nostri, italiana o greca. Uno scrittore e saggista di cui faccio gran conto mi ha proposto una catena traduttiva, per molte persone, di lingua in lingua (o dialetto o qualcos’altro), fino di nuovo al francese, che potrebbe essere, alla Borges (ma non, aggiunge il traduttore, alla Pierre Menard), il medesimo delle strofe dell’Autore. Oggi che ammettiamo in partenza la sostanziale intraducibilità di un testo poetico e, di più, l’inutilità della traduzione (a meno che non serva “farsi un’idea” del mondo – ma ci siamo daccapo – poetico, a noi occidentali e di oggi, delle liriche cinesi antiche, dell’Enuma Eliš – il Quando lassù – e degli Shurpu babilonesi, dell’Inno al Sole di Amenophi – Amenoteph, Amenothes – IV – Tutankamon, o dei Rigveda), siamo, naturalmente, più disposti a tollerare o ad apprezzare l’Iliade del Monti e ogni riscrittura anacronistica (o scrittura: che, indipendentemente dagli effetti dell’anacronismo può essere anche fortemente innovativa, e non solo rispetto al testo tradotto – o magari a più testi se vi è una tradizione di quella materia – o rielaborato o da quel testo un solo episodio, scelto, fiorisce di nuovo e “meglio”, ma anche rispetto alla letteratura contemporanea alla traduzione), siamo disposti, forse per un qualche capriccio di tutto-o-niente, o perché le traduzioni sono ridotte, tranne che nelle scuole, al ruolo che si meritano, siamo disposti a ogni traduzione; e a vedere traducibilità (sull’ossessione per l’analogia, come si fa, si tace) quasi dappertutto. Quasi. Certo, già il Sapir, semplificando, ammetteva l’intraducibilità generalmente, già Goethe nel Westoestlicher Diwan affermava che se una poesia è intraducibile vuol dire che non è realmente bella e di altissima qualità, cosa che il Sapir ha però reso meno originale, voltandola nell’affermazione secondo cui le zone non traducibili di ogni componimento poetico non sono le migliori perché in pratica sono sempre legate a determinati giochi sonori, giochi di parole di cui, spesso per tradizione, si compiace una data lingua. Ma in questi casi la questione è un po’ più in là rispetto all’intraducibilità: se è veramente intraducibile (intraducibile = non traslabile sotto la specie dell’identità) ogni specifico di una data lingua, e a maggior ragione, semplificando, ogni cosa in quella lingua scritta, le argomentazioni di prima risulterebbero marginali, se non addirittura trascurabili (e poi la letteratura europea “moderna” non è nata come, anche, rielaborazione?). Mounin: “L’intraducibilità di una poesia è una verità statistica, una questione di percentuale, non una verità metafisica…”. E di Mounin si veda il suo credo del tradurre poesia nell’esame che fa delle traduzioni francesi di poesie di Leopardi, in particolare per A se stesso e per L’Infinito (in sostanza: di una poesia, più che del lessico, bisogna preoccuparsi della forma, ma non tanto della forma generale e della sua totalità: un enjambement particolarmente significativo, alcune parole in principio o in fine di verso, alcune – solo alcune – assonanze che più si stimano caratterizzanti, e semmai quest’ultime devono guidare la scelta lessicale e non il contrario, e se possibile gli idiotismi di una lingua è meglio cercarli nell’area o corrispettiva o contigua nell’altra lingua, piuttosto che tradurli alla lettera, cosa questa che a detta dei più autorevoli uccide), cfr. Babel, XIV, 4. Quell’affermazione di Goethe voleva dire, forse, questo: quasi nulla si può tradurre (meglio quasi nulla, perché al mero nulla a volte corrisponde il tutto, come anche si è cercato di dire più sopra a proposito del gusto che cambia anche per l’oggetto di traduzione e per il modo). Valéry: “In poesia la fedeltà limitata al significato è una sorta di tradimento”. Poi: “I versi più belli sono insignificanti e sciocchi quando siano resi da un’espressione priva di intrinseca necessità musicale di risonanze” (Traduction en vers des Bucoliques, Parigi, 1956). Sia detto qui brevemente che, nel caso, la questione non si è presentata così come Valéry la prospetta; o meglio: a parte ovviamente la libera scelta del traduttore, il quale al testo a nostro avviso dovrebbe attenersi, e non a determinate convinzioni dell’autore (in questo caso a posteriori) chissà poi se proiettate (ma il traduttore consapevole può venirne magari disomogeneamente e fallacemente sviato e influenzato da una concezione – che si accomoderebbe bene alla figura del Valéry – secondo la quale l’uomo, l’autore e ciò che disse e o dice, completa l’opera. E magari non il più (individualmente) utile viceversa, utile però nella noesi estetica del testo, ma per un propagandabile – e forse non, in un certo senso, d’élite – sistema di consolazioni) sul testo, qui le sue indicazioni, vista la segregatezza del latino, e del tipo di latino che si voleva pallidamente ricordare, non valgono. Che dire sul problema della traduzione-traslazione da mondo poetico a mondo poetico (compreso quello del fuso orario con cui ad esempio fu disturbato Evans a Creta), già sfiorato in questa nota? Oltre Humboldt, oltre i valori saussuriani, oltre la sprachliche Mittelwelt di Weigerberger, il problema è a nostro avviso, nonostante tutto, meno culturale che linguistico – molti Autori hanno detto, o dicono, soltanto linguistico – e comunque riguarda la paziente decodificazione, di filo in filo, del tessuto serico della poesis, per rielaborarlo con concentrazione, labor (come lo intendeva Valéry), che non escludono l’intuizione immediata da saggiare in seguito, in un altro foulard dei cui fili (già non medesimi dei primi, cioè delle prime letture e convivenze con il testo, perché all’uopo maneggiate, e non medesimi poi a quelli della decodificazione giacché si ricodifica nell’ambito di un’altra tradizione letteraria, di altri tipi – tanti quanti sono gli scriventi in una data lingua – di consonorità, di altre possibilità combinatorie e creative per infinite immagini acustiche riguardo i suoni, il ritmo, il metro, il gradus lessicale, lo stile, i percentili semantematici per ogni segmento di verso e strofe, tutte cose uniche e individue a una sola lingua nei suoi componimenti poetici), poco sappiamo nonostante tutto, e meno di prima, ma di cui però ci sentiamo padroni come padrone è l’artifex; e un artifex non coinvolto, ma assente, in maschera, estraneo, proprio come finta (nel senso di ficta) ed ormai estranea da che si raffreddò dai manoscritti in lingua originale, è quella materia concretamente separata dal corpo umano, dall’apparato fonatorio di questo e in primis dalla mente-mano, separata forse dal cervello e anche dalle funzioni più astratte sue. Questo è, in certo modo, il fondale del pensiero su cui occorre concentrarsi, per ascoltare la voce remota di una lingua e l’altra del mondo meno estraneo che proverà a risponderle, ben raziocinata sagittatrice e pleine de pouvoir e pronta anche alle torce del solstizio e ai fuochi aurorali dell’inverno, anzi meglio. Ché poi la realtà che ci serve (che ci dà il benservito) è tutt’altra come si è detto, scorre nel letto delle nostre percezioni e la portiamo (ferimus), né più né meno. Vedasi Whorf e le sue idee di tempo a proposito di Newton e a proposito del fatto che una volta le preghiere in latino (in Europa e altrove) segnavano l’ora come in questa epoca gli orologi, e da sempre, ancora forse da quelle, e non solo per i cenobiti, segnano, in infiniti modi, un’ora. Il traduttore ha adottato le circostanze stilistiche (che qualcuno potrebbe chiamare incidenti: nel lavoro, s’intende, traslativo) insite nella divisione che il Cohen fa del Cimitero Marino. Ma in questo, da un lato lo stile (parola che qui non usiamo tecnicamente, né postilliamo) è fondamentalmente uniforme, dall’altro vi sono molti più “stacchi” (idem che per stile), anche all’interno della strofe, di quanti ormai sarebbe qui il caso di enumerare (si veda E. Noulet, Sintassi e pensiero nel Cimitero Marino di Paul Valéry, Milano, 1967, pubblicato a Parigi nel 1952); e, per quel poco che si è potuto, almeno a titolo di semplificato esempio, la nota alla strofe XIII, qui oltre. Secondo Mounin, Cecil Day Lewis incontra, in un’altra lingua, Paul Valéry. L’estensore di questa nota ha incontrato l’ombra del Cimetière Marin nell’incerta ombra di una lingua che fu: di un impero e del tempo delle ere successive il cui solo centro ancora splende di pinnacoli e guglie.

Note

I, 1-2     La strana cesura forte e cacofonica dei primi due vv. del Sepulchra maris (=S.M.) è forse anche dovuta alla frettolosa ma probabilmente necessaria variante da una prima stesura dei due vv., che suonavano così: “Fastigium id lene quiescens, columbae/in eo incedunt, interius illud pinis…”. Ora quiescens = tranquille, toit (in altri casi la scelta è stata diversa, com’è detto alla nota per VII, 6) = fastigium, cui avevo attribuito, avverbialmente (ma era anche aggettivo con fastigium concordato), lene. Questa precisazione, che poi tale non sarebbe stata, mi parve eccessiva, come banalmente letterale, e paratassicamente non ideale (in posizione di evidenza perché oltre al principio invertiva l’ipotassi – controllare quanti versi trascorrono prima di incontrarne, nel Cimetière, un’altra – di “où marchent des colombes”) era in eo incedunt e cacofonico anche illud pinis. Ma si noti la cesura forte: “Ce toit tranquille – où marchent des colombes”, 4+6, echeggiata neanche tanto debolmente nel verso appresso: (pins) palpite. Dovessi rifare la prima strofe, sicuramente non sceglierei columba, -ae: ma palumbes (III decl.), columbus, pullus columbinus, non mi offrivano granché; avrei dovuto cambiare molto (ovum?), lasciarmi guidare dalla preferenza che per le parole di corpo fonico breve, come pei nomi dei cani: avis, forse nel non frequentissimo ablativo singolare avi, o in particolare nomi di uccelli rapaci o di persone tramutate in volatili, insomma qualche aves alba et venusta mi avrebbe, da quel fastidioso, poi, nesso u-m-b di columbae per somma di disgrazie in fin di verso, e del primo! salvato.

I, 5-6     “O récompense après une pensée/Qu’un long regard sur le calme des dieux!” Questi due versi furono incisi sulla tomba di Paul Valéry nel cimitero marino di Sète. Di questo fatto non si è tenuto conto in S.M.  Eppure – ma per inesperienza – la strofe I di S.M. (come la II e la III, mentre octastica la VI) è vanamente eptastica. Su quel monolito si legge “O récompense après une pensée/Qu’un long regard sur le calme des dieux”. In quella scritta qualcosa si è lievemente mosso da un’estrema brezza a quella grande pace: cambiando la fine nell’ultimo punto.

II, 2      Adamas (in XIV, 3, vocativo, non vuole giustificazione) (Adamas, -antis anche con accusativo adamanta, maschile) lo considero indeclinabile (sennò era adamantes, accusativo plurale) anche per la suggestione di Guinizzelli, Al cor gentile reimpara sempre amore, XXX verso: “com’adamàs del ferro in la minera”. Il Pellegrini riporta “ferr’en” e lo Zaccagnini “fer’en” per sottolineare il collegamento con la stanza seguente: “Fere lo sol…”. In Guinizzelli è 2° termine di paragone e soggetto della, col verbo sottinteso ma deducibile dal v. 28, “prende rivera”, comparativa; ultimi tre vv. della III stanza: “Amore in gentil cor prende rivera/per suo consimel loco/com’adamàs del ferro in la minera”. Questo per la parola (non, direttamente, il concetto) che gli proviene dal lapidario di Marbodo: “Quartum (adamantem) producit ferraria vena Philippis”.

II, 2      Sanies per spuma è licenza sinonimica al limite della metonimia e, dal momento che fu usata da Virgilio, dopotutto non anemica: la scelta è per il suono, e spuma, schiuma, è come in italiano, e per fortuna il caso era genitivo, perché sanies, nominativo, collide con vesania, pazzia, vesaniens, furioso, con l’insania in italiano e con insania, insania.

III, 7     Vertex aureus: vedi nel Quid valéryenne a proposito di Vertex integer.

IV, 4     Honos è considerato femminile (non attestato) anziché maschile.

VI, 2     Il traduttore mantiene questo verso banalmente letterale e per le corrispondenze foniche che precedono e soprattutto che immediatamente seguono e perché, volendo mantenere l’enjambement tra i vv. 3 e 4, sarebbe stato difficile, cambiando, mantenere una certa linearità dei vv. 1 e 2 che a suo parere è rafforzativa dell’enjambement corrispondente a quello del Cimetière tra i vv. (VI) 2-3 étrange/Oisiveté, sommovente (nel Cimetière) in una strofe stilisticamente pensosa, ritmicamente “lenta” (come le precedenti e come quella che segue); in altre parole, il traduttore ritiene necessario mantenere l’enjambement; infatti: alienum/otium, quasi un calco. Rari nel Cimetière, rari nel S.M., questo enjambement pone l’accento su Oisiveté, e, in una retrospezione immediata che non è affatto difficile avvertire, su étrange, cosa che giustifica, quasi, e soprattutto crea un’imminenza di pouvoir (in fin di verso), prima di leggere pouvoir, nella parola oisivité.

VII, 6    Trux è una banalità – almeno italicis auribus – ma si è preferito sempre un corpo fonico breve per conferire ai versi una certa densità semantica. Tanti ne sarebbero gli esempi e tutti più felici; inoltre, ma come cosa marginale che qui – e forse naturaliter – ha divertito, la ragione del corpo fonico breve sta in una specie di gara con il francese: es. strofe XXIV (ma dappertutto), toit = arx, dove nella I è il debole fastigium, ma nella I fastigium deve essere e non altro. Aiuta l’oligosillabismo la grande frequenza di nominativi e vocativi (stessa funzione nel Cimetière), soprattutto quando si ha la possibilità di usare sostantivi della III declinazione.

VIII, 1    Il traduttore lo considera dodecasillabo (sineresi-sinalefe delle quattro ultime vocali), e si dovrebbe pronunciare: “Auto cath’àuto – meth’autu, monoèides aei òn[nel dattiloscritto l’accento su “on” è tra parentesi].

IX, 5      Quae è considerato bisillabo.

IX, 6      Secondo emistichio, supino con valore finale.

XI, 3      Templorum: témplorum, poiché il traduttore considera il verso dodecasillabico per dieresi in lacteos (ma forse è migliore l’altra possibilità: secondo emistichio pentasillabico, e sineresi in lacteos). Lo associa a temporum (XII, 1, temporis, finale; II, 6 e 7, finali, rispettivamente tempus e temporum). L’idea di Templum-Tempus che Valéry prende da Heidegger ha influenzato il traduttore.

XIII        Singolare e prodigioso, nel Cimetière, il distacco tra i vv. 1 e 2 (e quest’ultimo anche nell’idea fonetica, deve bravamente e bellamente come allungarsi in quel leur che deve far obliare del tutto in mystère l’allitterazione – oltre che di cachés al 1° – della fricativa prepalatale sorda di réchauffe e séche, che fungono così da macchina a vapore per la trasmissione chimica, molteplice, immortale (con la complicità di cette al 1°, di mystère al 2°, senza pensare ora alla relata tra i due vv. e limitatamente ai macrosistemi) dei corpi) da un lato, e il verso 3 dall’altro. La chiarità e serenità del distacco stanno, anche, nella chiarità e serenità del décasyllabe-decasillabus così aderenti; cesura 4+6, solare e solstiziale (sans mouvement): “Midi là-haut, – Midi sans mouvement”. Molti lodano, e giustamente, il grande bradisismo orogenetico, l’elazione incalcolabile tra dettato interiore, incandescente, e il calcolato al millesimo, per tutte le 24 strofe (certo Valéry ne sorriderebbe, consapevole com’era di quanto il caso e spesso dona coincidenze fortunate, che i bravi poeti chiamano necessità, e in alta percentuale determina eccelse interferenze, secondariamente buone interpolazioni, o infine poesia tout court, non soltanto al primo verso), boreale, mutamento e falso mutamento della funzione grammaticale (non ideale né dittativa) che sta come un Ararat nel 1° verso della (il Cohen vi sente il Coro elisio, dei morti che interpellano l’anima, ma, pur rispettando la volontà, anzi il sentimento che Paul Valéry aveva per l’infinita interpretabilità di un testo, non ci sembra il caso) XVII strofe, e, meglio, nei primi tre versi, soprattutto, di quella strofe. Si veda poi come altro esempio delle innumerevoli traslazioni di tono, che a volte contrastano il movimento apparentemente, da una visuale finale, uniforme e diretto verso la fine del poema, e che danno ai versi un movimento di senso (rispetto al senso) nubiforme tra cumuli spinti da Grecale e cirri dal primo e naturale movimento di rotazione terrestre, il tutto registrato da un satellite, esempio di sottile traslazione fra i vv. 4, 5 e 6 della VI da un alto, e i vv. 1, 2 e 3 della VII.

XVI, 1    Mulctarum arcaico per mulsarum, da mulceo: chatouillées è però diverso: solleticare, eccetera: tuttavia ho lasciato quel mulctarum sia per scelta di suoni, come sempre, e come sempre suoni possibilmente lontani da ogni somiglianza con l’italiano e il francese, sia perché controbilanciato da acer, che è più forte di aigus.

XVIII, 5-6   Non quis ne = nonne quis, rafforzativo del dubbio con risposta negativa. Ma bisogna intendersi: “Qui ne connaît, et qui ne les refuse,/Ce crâne vide et ce rire éternel!”. Alla prima domanda occorre rispondere: civitates omnes, universitas civium orbis terrarum (=tutti) (risposta positiva); alla seconda domanda la risposta è: renuit nemo, nessuno (li o lo) rifiuta, cioè tutti (li o lo) accettano (apparentemente negativa, in realtà positiva). Ora il traduttore ha premuto forte sul pedale dell’attesa di una negazione alla prima domanda, per far rilassare il tutto alla seconda. Il senso si salva, a maggior ragione considerando entrambe le cose ma, sia chiaro, anche domanda per domanda. Nella seconda, al v. 6° di S.M., non c’è nessun accenno di particella interrogativa con valore di attesa negativa o positiva: si vede solo il punto interrogativo. Altre soluzioni, per A) tutti, B) nessuno, entrambi con valore di risposta positiva alle domande (cfr., della Vulgata, Lc, XV, 4; per le soluzioni ivi adottate da S. Gerolamo, rimando alla totalità degli scritti di G. Mounin, e così anche per una teoria della traduzione che, inerente a uno fra i più grandi filologi, anche con il suo lontano ma ponderoso contributo, vi si elabora), avrebbero portato a squilibri metrici da dover riequilibrare con elementi inutili e comunque a un mancato equilibrio fonico; avrebbero con tutta probabilità impedito quel particolare sospeso sillabare che è nel secondo emistichio del 5° verso (e anzi in tutto il v. 5° e nel primo emistichio del 6°) e che nelle intenzioni del traduttore avrebbe dovuto presiedere uniformemente – ma sia detto qui non a giustificazione, infatti ciò ha portato a una docta variatio auspicata già nell’intento irto di dubbi per la notevole relatività del di lui chiosare al proposito, nell’intento di seguire la divisione di Cohen, i S.M. hanno seguito (o viceversa) svariate circostanze – a tutti i S.M. (e per la questione vedi anche in Quid valéryenne).

XIX, 1    Cerae: le maschere mortuarie, dette così dalla materia con cui erano fatte: più diretta maschera mortuaria è imago: essendo in questo verso necessario il plurale, imagines avrebbe richiamato troppo la parola italiana immagine, e poi forse quella francese image, distraendo e mal guidando il lettore: ma l’eliminazione di imagines a favore di cerae è decisa dalla troppo facile e ingombrante bellezza di quel vocabolo, e idem per l’espressione, lasciando limitato il valore di inhabitées, imagines desertae, pur metricamente possibile.

XIX, 2     Il traduttore in principio: quasdam hac sub mole, che nell’immagine acustica sconocchia assai l’apparato fonatorio dell’immaginazione, e non piace. (Diversa è la cosa per III, 3, primo emistichio, giacché ivi è un preciso, perfido fine.) Si voleva mantenere intatto l’insieme dei nessi hac sub mole perché suggestione (l’altra è quella in XV, 4-5) di latino classico (e in quell’hac sub mole si sente il peso definitivo del chiudersi di un monolito):

Hac sub mole iacent cineres ac ossa Joannis:/mens sedet ante deum, meritis ornata laborum/mortalis vitae. Genitor Boccaccius illi,/patria Certaldum, studium fuit alma poesis”.

XIX, 3     “…Et confondez nos pas” (“turbatis et gradus”), cfr. per questo passo R. Palgen in Le Cimetière Marin von P. Valéry, Versuch einer Deutung, [Breslau, 1931]. E cfr. nella Jeune Parque: “Grands Dieuz! Je perde en vous mes pas deconcertées!”. La parola pas (passi, gradus), è stato osservato, è una delle ossessive in Valéry.

XIX, 4      Per le ragioni per cui non ho potuto mettere nobis firmissime (preferibile a nostri eis firmissime) vedi nel Quid valéryenne, ove sono anche osservazioni sui suoni supplenti. (Per ulteriori questioni che coinvolgono solo in parte – sia pure una pars magna – il presente oggetto, si veda l’articolo di Manlio Pastore Stocchi, “Su una saffica ‘barbara’ mediolatina”, in Metrica, I, [1978], e, a monte, l’opus magnum del Norberg, Introduction à l’étude de la versification latine médiévale, Stockholm, 1958).

XXI, 2-3 e conseguentemente 4    Cfr. Il Ninfale Fiesolano, ottava CXI, vv. 1-2 (e 3: sottintesi, nel Cimetière, ..vedea..guardò..parea..): (il soggetto guardante e pententesi è Mensola) “Quand’ella il dardo per l’aria vedea/zufolando volar…” e 5-6, in cui l’oggetto di “[lo] mirò fiso” (6: “e tocca di pietà lo mirò fiso,”) potrebbe anche essere “di quel lanciar” (v. 5). Lontanando Le Cimetière, e in particolare la sempre poco postillata densità di XXI, 3-4, ecco alcuni rimbombi nelle forre delle letterature: Agnolo Poliziano, Stanze per la Giostra, XL: “Tosto Cupido entro a’ begli occhi ascoso/Al nervo adatta del suo stral la cocca;/Poi tira quel col braccio poderoso/Tal che raggiunge l’una all’altra cocca;/La man sinistra col ferro focoso,/La destra poppa con la corda tocca:/Né pria per l’aer ronzando uscì il quadrello,/Che Julio dentro al cor sentito ha quello.”. Premeditata sintesi di meraviglia degli echi di Dante. Ecco la Commedia: I, XII, 77: “Chirón prese uno strale e con la cocca” giunto al 97° (dunque dopo un labirinto acustico – anche se non oscuro: siamo nell’Inferno – di ben 20 versi): “Chirón si volse in su la destra poppa,” (e funzione muscolare rafforzata in I, VII, 27: “voltando pesi per forza di poppa.”); un’allitterazione poi utilizzata, disgiungendola, dal Poliziano sempre in I ma XVII, 136 (soggetto Gerione in 133): “si dileguò come da corda cocca.” (finale rimato solo col 134° “al piè al piè de la stagliata rocca,”). Inoltre tutto il passo in II, XXXI, 16-21, e altri luoghi, frammentando Dante giusta l’ottava XL delle Stanze, passim.

XXXII, 2    Illi, locativo attestato, senso salvato, migliore il suono rispetto a illius, che avrebbe intricato parecchio la lingua, reale o immaginativa, per tutto il secondo emistichio, con il perdurare dell’impressione neurale nel primo emistichio del verso 3 o magari in tutto il verso 3 (e oltre a seconda dei soggetti leggenti). Quanto alle due direzioni del verso (chi scrive si rivolge ora alla generalità dei semantemi e a ciascuno e, dopo Saussurre e un passo del Cratilo, a ciascuno che è tale grazie agli altri e a ciascuno in sequenza con almeno un altro: esattamente come ogni essere animato, come, più propriamente, gli umani) di cui si era fatto cenno nel Quid valeryénne, direzioni orizzontali che anche lì si contrapponevano e combinavano con le trasversali e verticali, sia detto qui (in direzione dei microsistemi, nell’ambito dei macrosistemi siamo qui però alle soglie dei mesosistemi) che le due principali direzioni orizzontali del verso vanno entrambe verso una comune (aggettivo contrapposto qui a medesimo) direzione: da sinistra a destra. E una è quella della prima lettura (non mi soffermo sul fatto che già la prima lettura è molteplice in primis a livello neurale), l’altra è ciò che dalla prima lettura risuona nello stesso verso (non nei precedenti o seguenti, ché non saremmo ora alle orizzontali) e vi è riportato dalla precessione percettiva (con frequenze, alla “seconda” lettura, più notevoli nell’iter espansivo periferia-SNC-periferia) a causa delle permanenze neurali, o cioè a causa dei fenomeni di perdurazione-inerzia proprî alle impresse neurali.

 

L'autore

Ignazio Visco
Ignazio Visco
Ignazio Visco è dal novembre 2011 Governatore della Banca d’Italia, istituzione nella quale è entrato nel 1972. Dal 1997 al 2002 è stato Capo economista e Direttore del Dipartimento economico dell’OCSE a Parigi. Laureatosi all’Università degli Studi di Roma ‘La Sapienza’, ha proseguito gli studi presso la University of Pennsylvania, conseguendo un Master of Arts e un Ph.D. in Economics. E' stato docente di Econometria e di Politica economica all’Università ‘La Sapienza’ di Roma. E' autore di numerose pubblicazioni, da ultimo Anni difficili. Dalla crisi finanziaria alle nuove sfide per l'economia, Il Mulino, 2018; Inflazione e politica monetaria, Laterza 2023.